Una cosa li unisce: sono entrambi nemici di se stessi. Trump perché agisce da solo, fuori dagli schemi, e commette molti errori avvantaggiando il rivale. Biden perché è un candidato privo di carisma, che sa di non guidare una fuoriserie, a cui gli esperti hanno suggerito paradossalmente di non fare, cioè di lasciar fare a Trump. È una stranissima America quella che voterà per le presidenziali 2020, una tornata elettorale in cui tutto può ancora succedere. Ce ne parla Mario Sechi, direttore dell’Agi.
I social Usa continuano a bloccare Trump, adesso a Twitter si è aggiunto Facebook. Lei crede che le big tech lo stiano scaricando?
Non è una novità, lo hanno sempre avversato, e in California Trump non è mai stato amato. Ma San Francisco non è l’America: è una città-Stato, come New York. Prenderle come specchio dell’America vuol dire avere una sola certezza: non azzeccare una previsione.
Cos’è che conta per vincere a novembre?
L’America profonda, quella del forgotten man, “l’uomo dimenticato” che Trump ha saputo evocare nel 2016 e che lo ha fatto vincere. Ed è sempre lui che ora, ricordandosi che Trump ha governato 4 anni e per la giustizia sociale ha fatto ben poco, potrebbe punirlo. Va detto che qualche risultato il presidente l’ha ottenuto, specie sull’integrazione razziale e il reddito dei neri.
Eppure qui non si dice.
Sono numeri che nel dibattito americano (per non parlare dell’Europa) non emergono, perché la morte di George Floyd ha oscurato tutto e perché il clima è quello dello scontro totale e i “nevertrumpisti” hanno il quasi monopolio del “rumore” nei mezzi di informazione, pensi a cosa è successo in un giornale come il New York Times, con dimissioni e licenziamenti di ottimi giornalisti, considerati non allineati al pensiero unico o, più semplicemente, aperti al confronto, alla critica, al dubbio, che dovrebbe essere la materia prima del nostro mestiere e pare non sia più gradita da molte, troppe parti. In ogni caso, quello che è stato fatto da questa amministrazione e da quelle precedenti non basta.
La comunità nera potrebbe sostenerlo?
Una sua parte sì, lo ha già votato nel 2016 e continuerà a farlo, non c’è niente di nuovo né di clamoroso in questo, ma la base elettorale di Trump è un’altra: è l’America bianca, un pezzo importante di quella ispanica, gli immigrati della Florida e altri Stati del Sud che non vogliono gli altri immigrati, che sembra un paradosso, ma non lo è perché il sistema americano era – ed è – un sistema che ha problemi irrisolti fin dai tempi di Ronald Reagan, la base dei repubblicani che vota sempre il GOP per tradizione (e in politica la tradizione ha un peso), naturalmente i fan personali del presidente, per sua fortuna molto più motivati dei democratici, almeno finora, questo dicono le analisi.
E quel sostegno resta intatto?
Sì. A luglio Trump ha raccolto 165 milioni di dollari, 25 milioni in più rispetto a Biden, un dato da non sottovalutare, i suoi finanziatori ci sono ancora e credono nella sua vittoria, nonostante i sondaggi oggi lo diano per cotto, sconfitto e pronto al buen retiro a Mar-a-Lago a giocare a golf con Shinzo Abe. Tutto è ancora aperto.
Adesso Trump deve puntare tutto sui dibattiti e infatti ha chiesto di anticiparli. Contro la Clinton fu micidiale.
La commissione elettorale ha detto no a un quarto dibattito in settembre, Trump voleva sfruttare la debolezza di Biden nel faccia a faccia, poi bisogna vedere se il confronto ci sarà, come sarà e soprattutto se sarà “in presenza” o meno. Sono tutte cose che per ora sono letteralmente a mezz’aria. A oggi quello che sappiamo è che le convention repubblicane e democratiche, che si tengono tra metà e fine agosto – e segnano sempre il cambio del passo di marcia dei candidati, più lento o più veloce – saranno in streaming. Siamo, per dirla con il titolo del primo grande successo di Bret Easton Ellis, a “less than zero”, meno di zero. Si tratta di kermesse milionarie, veri e propri spettacoli, che in streaming però potrebbero diventare noiosi e perdere il loro tradizionale peso. Che impatto avranno? Non lo sappiamo. Gli strateghi elettorali sono per la prima volta senza mappe attendibili, questa è una campagna presidenziale unica nella storia.
Tra i due lo showman è sicuramente Trump. Se gli appuntamenti dal vivo perdono peso, sarà Biden a trarne vantaggio?
È vero, tra i due Trump è lo showman, ma è anche il peggior nemico di se stesso. Trump sa di essere in crisi, lo si vede dal fatto che ogni giorno ne tenta una diversa per provare a cambiare il corso della campagna elettorale. Deve inseguire, può perdere e nello stesso tempo può ancora agganciare la scia di Biden, superarlo e vincere. I segni ci sono, se lei va a dare un’occhiata alla media nazionale pubblicata da RealClearPolitics scoprirà che Biden ha un vantaggio di 6,4 punti, ma sta sotto il 50% che è un dato non proprio rassicurante e Trump è in ripresa a 42,7 punti, il 2 luglio era a 40 punti. La forbice si sta stringendo.
Che linea dovrebbe tenere?
Trump deve cercare di essere più ordinato, come gli ho visto fare nella conferenza stampa dell’altro ieri alla Casa Bianca. Ma parliamo di un presidente che è un… mi passi la formula… un “disordinato naturale”, imprevedibile per se stesso e per i suoi strateghi. Gli serve un filo conduttore convincente per spiegare cosa farà nel suo secondo mandato, su questo deve concentrarsi, altrimenti perde.
Cosa può salvarlo?
Biden, naturalmente. È un candidato privo di carisma, un’altra sagoma che ha il suo peggior nemico in se stesso, in questo caso un “gaffeur naturale”. L’arma che potrebbe dare a Trump la vittoria, la “October Surprise”, è il vaccino anti coronavirus, ma chi può dire quando e se arriverà? È più probabile un rimbalzo dell’economia, ma questo dipende dalla parabola del coronavirus in America e non solo, perché gli Usa sono un paese importatore. Siamo di fronte a un oceano di incertezza.
Queste elezioni saranno la grande epopea americana a cui siamo abituati?
No. Perché sono due candidati anziani, che non rappresentano grosse fette dell’America contemporanea (che non va a votare ma va rappresentata lo stesso al meglio, questo dovrebbe fare un presidente), mentre entrambe le basi dei partiti sono in sommovimento, i giovani sono molto attivi. Lo provano le primarie che si stanno tenendo nei singoli Stati. Per i democratici, in Missouri Cori Bush ha sconfitto Clay, che rappresentava i repubblicani al congresso da 10 mandati – qui ha vinto l’onda dei movimenti per la giustizia sociale. Stessa cosa nei repubblicani con Lauren Boebert, una ragazza di 33 anni che ha vinto in Colorado: gestisce il bar Shooters Grill, dove le cameriere girano armate di pistole vere – qui ha vinto la battaglia per la difesa del secondo emendamento della Costituzione americana, il diritto di possedere armi. Sono tutti nomi alternativi, hanno messaggi chiari, netti, fanno battaglie riconoscibili. E hanno vinto.
È l’America degli underdog, che premia i candidati senza chance di vittoria?
È l’America che è cambiata e continua a mutare in profondità pur mantenendo il tratto della grande promessa di libertà, il suo atto fondativo, la sua “giovinezza”. Siamo in una fase della storia accelerata e compressa. Pensiamo a quello che è accaduto con Obama nel 2008 e poi con Trump nel 2016. The Donald è la diretta continuazione della rivoluzione di Barack, il sottosopra, se vuole, ma Trump segue la scia di quello che rappresentò Obama più di quanto si pensi, è il prodotto di un paese ferito e che purtroppo dopo 12 anni e due presidenti non ha ancora rimarginato i tagli della crisi del 2008. Obama salvò la finanza e Detroit, l’industria dell’auto americana e fece bene a farlo, come la riforma sanitaria, seppur pasticciata e per molti insostenibile sul piano finanziario così come è architettata.
I meriti di Trump invece?
Appaiono meno chiari, sono quelli di un presidente che ha puntato sul Toro a Wall Street, la riforma fiscale – che è un punto a suo favore –, la ripresa dell’industria e la battaglia con la Cina sul riequilibrio della bilancia commerciale. A questo bisogna aggiungere un tema sottovalutato: Trump non ha mandato a morire in guerra i giovani americani, il suo isolazionismo (continuazione di quello iniziato da Obama) ha una logica elettorale e in fondo si parla di fine della campagna in Afghanistan anche tra chi mastica bene la politica estera: bisogna sempre mettere un punto alle guerre che appaiono senza fine, cosa che sta accadendo. Quello di Trump era un programma vincente nella fase pre-coronavirus, per il dopo bisogna aspettare che maturino gli eventi, siamo cronisti, aspettiamo con il taccuino squadernato i fatti.
Essere l’uomo anti-establishment è stata l’arma vincente di Trump nel 2016. Secondo lei, anche dopo quattro anni di governo, non rappresenta meglio l’identità americana rispetto a un candidato tiepido come Biden, senatore del Delaware dal 1973?
Vero, ma Trump stavolta non può presentarsi come un outsider, e comunque negli Usa è normale rappresentare il proprio Stato per molti mandati: la politica americana richiede esperienza, gli elettori devono fidarsi e scelgono l’usato sicuro, almeno fino a ieri questo era il dato politico. Le elezioni Usa si vincono negli Stati, ricordiamo che il sistema è quello dell’Electoral College, e Biden ha 5 punti di vantaggio in alcuni Stati chiave. E poi Biden non è Hillary Clinton, che era sempre stata in vantaggio: è partito da sconfitto e si è rimesso in corsa. E ora non sappiamo dove potrà arrivare. Neanche lui lo sa, siamo di fronte a un gioco di parole che sfocia in un calembour da commedia: gli hanno consigliato di fare il meno possibile, cioè di non fare e lasciar fare a Trump. E lui lo sta facendo, non fare.
Biden potrebbe porre rimedio ai suoi problemi scegliendo una personalità liberal come vicepresidente?
Dovrebbe farlo, penso a nomi come Kamala Harris o Elizabeth Warren. In ogni caso le elezioni non si vincono con i militanti bellicosi, ma con le maggioranze silenziose. I movimenti per la giustizia sociale, gli elettori più radicali, questa parte dell’elettorato democratico che ha preso forza nell’ultimo periodo anche grazie alle proteste del movimento Black lives matter, è poco convinta da Biden. Vista la biografia, è difficile dargli torto. Biden resta in ogni caso il favorito, comincia a manifestare qualche problema di spinta che nelle prossime settimane può diventare un fatto nuovo della campagna presidenziale, vedremo.
Quindi Biden resta nettamente favorito. Ma quali sono i suoi limiti?
Sul nettamente sarei cauto. Biden è anziano, senza carisma, e resta comunque un uomo di palazzo. Per questo ha un problema con la base del suo partito: non convince i liberal, che sono la parte dell’elettorato democratico più attiva al momento. Biden ha un sacco di problemi al motore della sua macchina, basta sentire il rumore. Non guida una fuoriserie. E lo sa. Teme una rimonta – che ora appare impossibile, ma abbiamo visto com’è finita nel 2016 – di Trump. Lei si immagina le facce dei dem e dell’America in progress se rivince The Donald? Per noi cronisti, uno spettacolo di taccuini pieni di cose da scrivere, per l’America altri 4 anni con un presidente im-prevedibile e improvvisato all’eccesso. Ora provi a immaginare, sempre da cronista, la noia soporifera di una Casa Bianca con Biden che gioca a golf, si fa fotografare à la Obama, e ci racconta un mondo politicamente corretto che non esiste. La realtà è che sono entrambi un incubo, ma solo uno fa notizia.
(Lucio Valentini)