Il “Super Tuesday” ha determinato un cambiamento profondo per le primarie del partito democratico. Non solo sono rimasti sostanzialmente solo in due, ma il vicepresidente dell’era Obama, Biden, è oggi dato come superfavorito per la nomination contro il senatore del Vermont Sanders. Tutto l’establishment democratico ha deciso di convergere verso Biden e finire il prima possibile un confronto duro tra i candidati che si stava rivelando dannoso e condito da molti colpi bassi. Bloomberg, nonostante centinaia di milioni spesi, è collassato sotto gli attacchi di Elizabeth Warren all’ultimo confronto televisivo. Buttigieg si è fatto sì da parte, ma si è fatto vedere tra i democratici e avrà ancora da dire. Anche Elizabeth Warren ha deciso di lasciare la corsa.
Sanders è un corpo estraneo per il partito democratico dato che formalmente è sempre stato ed è ancora un “indipendente”. Le sue politiche sono indigeste per un partito che ha comunque ottimi rapporti sia con le grandi multinazionali californiane, sia con “Wall Street” e chi ritiene che il “centro” al momento del dunque, a novembre con le elezioni presidenziali, non riuscirebbe a votare per Sanders. Oggi il grande favorito alla nomination è Biden con percentuali superiori all’80%.
Il problema è che Biden, come Hillary Clinton quattro anni fa, è un politico di lunghissimo corso con un bagaglio voluminoso di episodi poco edificanti che saranno sicuramente usati al momento buono. Valga per tutti la storia non esattamente lusinghiera dei rapporti economici del figlio in Ucraina. Poi si potrebbe aggiungere qualche svarione legato all’età e comportamenti singolari. È un candidato che unisce l’establishment del partito, ma che è molto lontano da quello che si poteva legittimamente sperare prima della nomination. Per non farsi del male con scontri interni meglio l’usato sicuro solo che è molto usato.
C’è un secondo problema: c’è una parte minoritaria ma non trascurabile di elettori democratici che fa molta fatica a digerire la nomination di Biden e che forse pensa perfino che Trump sia più “anti-establishment”. Il rischio è che questi democratici a novembre stiano a casa. È la maledizione che ha colpito Hillary Clinton nel 2016 con 3 milioni di voti in meno rispetto a quelli presi da Obama nel 2012. Circa un 5% di chi aveva votato Obama nel 2012 è stato a casa nel 2016. Nel caso di Biden le cose potrebbero essere peggiori proprio per la compattezza dei sostenitori di Sanders e la loro delusione per il trattamento ricevuto dal partito.
Il rischio quindi è che per sostenere la campagna elettorale di un candidato fragile, Biden, i democratici accentuino il livello dello scontro politico per convincere gli elettori che Trump è sicuramente e comunque peggio. Biden è quello che è, ma l’alternativa è peggio. In questi giorni il coronavirus scoppiato mediaticamente anche in America è la prima prova di questo possibile sviluppo. Trump pensa che i democratici cavalchino la crisi per metterlo in difficoltà politicamente e forse perfino per esacerbare le conseguenze economiche temporanee. Bisogna sempre avere presente che lo stato attuale della borsa e del mercato del lavoro americano sono un biglietto vincente in vista delle elezioni. Tutto cambia velocissimamente; l’unica previsione è che il livello dello scontro politico è destinato a salire molto in America.