Se i poll sono attendibili come quelli dell’Iowa è probabile che domani in New Hampshire Donald Trump rafforzerà il suo profilo di runner quasi unico alle primarie repubblicane nella corsa alla Casa Bianca. E – dietro di lui come Grande Elettore – è atteso di nuovo al varco il Laureato: primo protagonista della sociologia mediatica delle presidenziali 2024.



Non è una novità – è anzi un’evidenza statistica non sorprendente – che fra i supporter di Trump (oltre 70 milioni sia nelle elezioni vinte nel 2016, sia in quelle perse quattro anni dopo) non siano mai stati pochi quelli dotati di titoli universitari. Ma lo stesso Trump ha giocato spesso e volentieri con lo stereotipo del forgotten man: che nella vulgata “dem” è diventato caricatura dell’estremista populista, ai margini o all’opposto di ogni “civiltà'” associata all’education. In quanto tale, questo elettore sarebbe “anti-democratico”per definizione: un eversore barbaro, da neutralizzare come gli assaltatori del Campidoglio il 6 gennaio di tre anni fa.



Sono gli stessi pundit che “non hanno visto arrivare” Trump nel 2016 – e che erano certi non sarebbe ricomparso nel 2024 – a insistere oggi sul teorema in base al quale chi entra in un’università d’Oltre Atlantico ne esce “progressista” e vota “democrat”. E sia che vinca un Nobel scientifico o diventi miliardario come Bill Gates o Fred Zuckerberg, il Laureato americano sarebbe eccellente in virtù del dna senza tempo degli studenti che negli anni ’60 marciavano contro tutto e tutti, ma sempre sul lato “dem” della strada. liberal o radical. Sono stati studenti di Harvard John Kennedy e Barack Obama, non Richard Nixon o Ronald Reagan. E viceversa: è antropologico attendersi che professori e allievi dei grandi atenei – nella Ivy League o in California – votino “dem” (negli ultimi decenni anche per le aggressive politiche di auto-selezione guidate dal politically correct).



Oggi invece – e i media liberal lo denunciano con sconcerto – le fila dei Laureati (neo)trumpiani sembrano ingrossarsi: e – quel che appare più significativo – nel sostegno all'”impresentabile” candidato post-repubblicano sembra rifluire una crescente diffidenza per quanto è avvenuto ultimamente nelle più importanti “fabbriche di laureati” degli States. I fatti della Harvard University hanno rivelato – in forme relativamente inattese – una crisi non contingente dell’alta cultura e dell’advanced education negli Usa. La traumatica rimozione della presidente Claudine Gay ha fanno venire al pettine contemporaneamente tutti i nodi non risolti dalle culture war.

Gay – prima donna afro in tre secoli e mezzo di storia dell’ateneo di Boston – è stata cacciata perché difendeva il principio costituzionale della libertà di parola invocato dagli studenti che hanno protestato contro Israele e a favore dei palestinesi. A premere per le sue dimissioni sono stati soprattutto i grandi donatori – per parte importante israeliti – che hanno fatto apertamente pesare i loro finanziamenti a sette o otto zeri in dollari nell’imporre quali idee debbano o non debbano circolare ad Harvard e quali accademici debbano governare l’ateneo e come.

Alla spallata finale è stata però necessaria l’accusa “instant” alla presidente – eletta meno di un anno fa – di essere stata una plagiaria nella sua attività scientifica. Gay ha gettato la spugna, ma il prezzo d’immagine è stato altissimo: il più antico e prestigioso ateneo statunitense ha riconosciuto nei fatti che la sua più alta autorità accademica non era stata selezionata in base al merito, ma come coronamento di decenni di affirmative action, a deliberato favore della minoranze di ogni genere. E comunque: fra la minoranza “black” e la minoranza “israelita”, i donatori non hanno avuto dubbi su quale andasse obbligatoriamente tutelata e quale potesse essere sacrificata nell’arco di una notte. Analogamente: fra i donatori – israeliti e non – sembra essere sparita ogni cautela nell’uso “simoniaco” dei dollari, per aprire corsie preferenziali di ammissione per i rampolli oppure per insediare cattedratici a forza.

Da ultimo: dopo decenni di ideologia accademica politically correct, robuste porzioni di studenti di Harvard, Penn, Columbia e Stanford si sono ritrovate a sfidare l’accusa di antisemitismo ed esercitare il diritto di critica verso lo Stato ebraico, non diversamente dai loro nonni sessant’anni fa contro la guerra in Vietnam.

Se fra gli obiettivi di una strategia culturale di portata globale vi era il superamento inclusivo di ogni conflittualità nella “fine della storia” decretata dai campus Usa, il fallimento appare clamoroso. Idem per quanto riguardo la questione dell’antisionismo/antisemitismo, alla vigilia della Giornata della Memoria, 79 anni dopo la liberazione di Auschwitz.

Se il disordine appare dunque massimo sotto i cieli accademici statunitensi, il Laureato – da ultimo figlio di una secolare tradizione culturale di realismo e pragmatismo – appare scettico e critico soprattutto verso i “dem”: vecchi come Joe Biden o giovani come Alexandria Ocasio-Cortez. E poco importa se dall’altra parte si stagli la figura inquietante di Donald Trump: per la terza volta consecutiva in un decennio. Un po’ troppe per tentare di contrastarlo con la retorica di una pretesa superiorità morale e culturale.

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