Alla fine lo scontro dovrebbe essere fra Trump per i repubblicani e Biden per i democratici. Ma sul primo incombono ben quattro processi, il primo dei quali dovrebbe concludersi nella prossima primavera, mentre riguardo al secondo ci sono dubbi sulla sua tenuta, vista l’età. Intanto, come spiega Andrew Spannaus, giornalista americano fondatore di Transatlantico.info e conduttore del podcast House of Spannaus, ci si avvicina alle primarie e, almeno da parte repubblicana, si cerca di individuare quale potrebbe essere un eventuale sostituto di Trump se dovesse essere costretto a rinunciare alla corsa. Nella campagna elettorale si parla poco di guerra e molto, invece, di economia e temi culturali, in particolare di woke e aborto. L’immagine che esce dal dibattito è quella di un Paese diviso, che fatica a ritrovare la sua unità.
Trump e Biden restano i due principali candidati. Come sono messi in questo momento?
Trump si è rafforzato nei sondaggi da quando sono iniziate le incriminazioni, il paradosso è che allo stesso tempo si indebolisce come candidato contro Biden o un altro democratico. Oggi i sondaggi dicono che Trump e Biden sono pari ma lasciano fuori il 15-20% di indecisi e gli elettori indipendenti non sceglieranno in maggioranza Trump. C’è un grande asterisco che riguarda Biden che a 80 anni passati si mostra vecchio, si vede nel suo modo di parlare e, a volte, di dimenticare le cose. La maggior parte degli americani vorrebbe un candidato più giovane. Trump però probabilmente sarà condannato prima del voto, durante la stagione delle primarie.
Cosa dobbiamo attenderci dai processi?
Tutto può succedere in tribunale, ma per adesso Trump nemmeno si difende. Il primo processo sarà il 4 marzo a Washington per avere cercato di cambiare il voto. Il tribunale non è favorevole, è una città “strademocratica”. Né Trump né altri presentano una difesa sui fatti, l’ex presidente sostiene che quello che ha fatto non dovrebbe essere considerato un reato: aveva diritto di fare quello che voleva per la libertà di espressione. Può continuare a candidarsi, ma una condanna renderebbe per lui difficile essere eletto.
In questo momento chi è in vantaggio?
I sondaggi ci dicono che Trump è vicino a Biden perché ormai pochissimi cittadini cambiano voto da repubblicano a democratico o viceversa. Il blocco che vota repubblicano e quello che vota democratico comprendono il 90% degli elettori. Resta fuori la parte che si sposta e che decide spesso verso la fine. Io sono convinto che in realtà Biden sia davanti.
Da parte democratica ci sono tre candidati, per i repubblicani sono dodici: come si spiega questa disparità?
Si spiega con il fatto che Biden è presidente, e quando uno è presidente uscente è estremamente difficile sfidarlo. E la storia ci dice che quando c’è uno sfidante forte contro un presidente in carica, troppi candidati finiscono per danneggiare lo stesso presidente nelle elezioni. Nel partito democratico non si vuole assolutamente danneggiare Biden.
Nonostante i suoi problemi, quindi, Biden resterà il candidato democratico?
Fino a quando non avrà problemi acuti di salute o difficoltà evidenti rimane candidato. Robert Kennedy non è considerato un candidato serio perché anti-establishment, avendo una linea molto critica soprattutto sulla politica estera ma anche su immigrazione e vaccini.
In campo repubblicano c’è qualcuno che può contrastare Trump?
Nelle primarie repubblicane la gara è per chi può prendere il posto di Trump se dovesse cominciare a crollare. Potrebbe succedere per un passo falso nelle prime consultazioni alle primarie in Iowa o New Hampshire oppure per i problemi giudiziari. Anche se il primo processo arriva troppo tardi per danneggiarlo: potrebbe finire a fine di aprile o a inizio maggio e a quel punto potrebbe aver vinto già molto nelle primarie. DeSantis ha perso lustro ma è ancora in corsa, mentre sta facendo bene Nikki Haley: nel primo dibattito ha mostrato di sapersi distinguere, è una conservatrice tradizionale ma non banale. DeSantis è troppo rigido, gli manca l’aspetto umano e anche l’incisività quando parla in pubblico.
Nella campagna elettorale si parla della guerra?
Della guerra si parla poco. I media vogliono capire chi tra i repubblicani ha il coraggio di mettersi contro per etichettare quelle persone come pro-Putin. Trump è molto critico sulla guerra, DeSantis è indeciso e Ramaswamy, giovane repubblicano, populista, che negli ultimi tempi ha avuto molta visibilità, è molto critico. Non sono pochi i candidati repubblicani che dicono che bisogna smettere di sostenere l’Ucraina contro la Russia. Biden mantiene la linea dell’intervento, ma sarebbe molto meglio (lo sa lo stesso presidente e gli altri a Washington) se ci fosse un maggiore successo dell’Ucraina nel conflitto o uno spiraglio di negoziato.
Quali sono allora i principali argomenti sui quali si confrontano i candidati?
Si parla soprattutto di economia e dei temi culturali. Sull’economia Biden cerca di dimostrare la bontà della sua azione perché in effetti ha fatto molte cose positive. Il problema per lui è che gli effetti di quello che ha fatto si vedranno nel tempo, mentre le difficoltà legate all’inflazione, ai prezzi, alla precarietà ci sono nell’immediato. Per questo per lui non è facile vincere questa battaglia nel dibattito pubblico. I repubblicani picchiano su questo, soprattutto sull’inflazione, e sulla necessità di ridurre la spesa pubblica, argomento dubbio che però, nel contesto dell’inflazione, può avere qualche valore.
Invece la “guerra culturale” in quali ambiti si combatte?
I repubblicani spingono molto su temi culturali, contro il woke, il politicamente corretto nelle scuole e si parla molto dell’aborto. Che però potrebbe diventare un problema per loro: i democratici cercheranno di usare questo tema a loro vantaggio facendo indire referendum in molti stati per garantire il diritto all’aborto, con l’idea di portare l’elettorato dalla loro parte.
Lo scenario più probabile ora è che alla fine si scontrino Biden e Trump: non è una brutta immagine per la democrazia americana che i due candidati presidente, detto in un modo un po’ brutale, siano da una parte una persona che a volte fa fatica a stare in piedi e dall’altra uno che ha quattro incriminazioni sulle spalle?
Certo, non è un bello spettacolo. Riflette il senso di una battaglia per difendere le istituzioni da una parte, perché Biden crede di essere il migliore a farlo, e dall’altra di una forte sfiducia nelle élites e nella politica di Washington. In realtà ci sono stati miglioramenti significativi nella direzione del Paese, alcuni portati da Trump e altri da Biden, a volte anche nella stessa direzione. Tuttavia il tono del dibattito politico è diventato molto negativo, si fa fatica a superare le divisioni popolari.
Manca un po’ il senso di unità che dava l’America come immagine all’esterno?
Senz’altro. Si tende a pensare che le divisioni siano profondissime perché ci si concentra su aspetti in cui il dialogo è più difficile, mentre in realtà sulla direzione del Paese si sono fatti molti correttivi rispetto ad esempio alla globalizzazione.
Su questi temi quindi si può individuare una direzione comune alle due parti politiche?
A livello istituzionale c’è un accordo sulla politica industriale e sull’approccio strategico.
Repubblicani e democratici in questi ambiti la pensano allo stesso modo?
A Washington e a New York sì.
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