La versione contemporanea e meno filosofica del velo di Maya è il velo dei luoghi comuni, che crea una sottile barriera nella percezione della realtà; e si può prendere a esempio di ciò il dibattito vicepresidenziale di mercoledì sera negli Stati Uniti.
È stato più calmo di quello presidenziale che lo ha preceduto; vero, ma che significa? (ci torneremo alla fine). Lo ha vinto Kamala Harris: non del tutto vero (a parte il fatto che simili “vittorie” non hanno senso). Il fatto è che si confrontavano due personalità opposte, ognuna con i suoi vantaggi e svantaggi: la Harris chiaramente più vivace, e Pence più freddo. Ma una certa arietta di supponenza della Harris ha riproposto l’antico contrasto fra due Americhe: quella delle élite (l’Ovest californiano che fa da ponte con l’Est di New York e della Nuova Inghilterra, cioè la cultura detta “bi-costiera”, fra la costa del Pacifico e quella dell’Atlantico, della borghesia agiata e raffinata) e l’America, in tutti i sensi, “di mezzo” (come lo stato di Mike Pence: l’Indiana biondeggiante di messi); e non è detto quale delle due personalità offra più garanzie presidenziali.
E questo porta al terzo luogo comune: il dibattito vicepresidenziale è meno importante di quello presidenziale. Non è vero, o almeno, non lo è stato nel caso presente. Tutti conoscono la venerabile battuta secondo cui c’è soltanto un battito di cuore che separa il vicepresidente degli Stati Uniti dal suo presidente. Adesso (con un presidente uscente che è malaticcio, e un candidato presidenziale alquanto sfuocato) quel famoso battito si è ridotto a un mezzo battito. Se, dunque, il confronto Trump-Biden è stato quello della rissa, questo secondo è stato il dibattito dello sdoppiamento: dietro ognuno dei candidati emergeva il fantasma di se stesso/a come presidente in pectore.
In questo senso, la posizione di Kamala Harris è particolarmente delicata. Ogni forte candidato politico infatti sa bene, al di là delle dichiarazioni di circostanza, di dover fare i conti con la divisività che i suoi interventi producono, e non possono non produrre: questo è il suo mestiere. Le divisioni più visibili sono, ovviamente, quelle ideologiche; ma tutto si complica quando si aggiungono le divisioni psicologiche e di “genere”.
E qui sorge una differenza: gli uomini, non costretti entro un discorso di unanimismo maschile, si sentono liberi di esprimere molto individualisticamente le loro divergenze rispetto ai candidati e alle candidate. Nell’elettorato femminile, invece, esercita ancora un certo peso la tentazione di una retorica unanimista (tutte le donne per tutte le donne in quanto donne, a prescindere), che non riflette la variegata realtà dell’universo femminile. Chiunque, per esempio, ha vissuto direttamente le elezioni del 2016 ha fatto esperienza di tutte le sfumature, gli “a parte”, le allusioni, con cui tante donne esprimevano la loro (legittima) antipatia per la candidata femminile; e ora la Harris dovrà fare i conti con le pulsioni negative che il suo stesso fascino può produrre nel non–detto (nell’inconscio sociale) di varie sue elettrici.
Torniamo per finire al discutibile sollievo di cui si parlava all’inizio: che bello, ascoltare un dibattito relativamente tranquillo (anche se tensione e ostilità vibravano dietro quasi ogni frase), invece che uno agitato! Ma siano permesse alcune domande: chi ha decretato che i dibattiti politici debbano assomigliare a conversazioni da salotto? Che cosa c’è di male se gli stracci volano, invece di restare accumulati sotto le poltrone? Chi può aggiudicare con assoluta certezza la differenza fra una “espressione colorita”, una “battuta” e un “insulto”? È già difficile tracciare queste distinzioni a cose fatte; figuriamoci nel calore della disputa! Un po’ di realismo, per favore.