Chi, nella serata (pomeriggio negli Usa) del 3 ottobre, non ha assistito alla trasmissione televisiva completa in diretta della seduta parlamentare congiunta nel corso della quale Kevin McCarthy, fino a quel giorno Speaker della Camera (seconda carica dello Stato), è stato privato della sua posizione, si è perso uno spettacolo probabilmente unico in una vita: infatti questo rivolgimento ha avuto luogo solo una volta nella repubblica americana, più di un secolo fa (1910); a meno che.



A meno che questo rovesciamento non serva da precedente a una successione di Speaker precari, un po’ sul tipo dei Priori nella Firenze medievale, per intenderci. E questo spettro del caos è stato puntualmente evocato dai Repubblicani più timorati, durante la lunga seduta conclusa da un voto semplice e chiaro in cui ogni parlamentare si è alzato e ci ha messo la faccia, dicendo “Sì” alla mozione di sfiducia, oppure rifiutandola col suo “No”.



La prima impressione di chi osserva il mondo stando fra due mondi (America ed Europa) è stata una riconferma: riconferma del divario fra la vita parlamentare in Usa e in Italia. Nell’aula americana regnavano l’ordine, la dignità, la puntualità, la calma: interventi regolati al secondo, nessuna interruzione, toni sempre cortesi anche se a volte molto decisi (a un certo punto il presidente di sessione, avendo udito alcuni mormorii dal fondo della sala, ha battuto il martelletto e ha ammonito severamente: “Non siamo venuti qui per chiacchierare”).

Dell’atmosfera che spesso regna nell’aula di Montecitorio (tanto più solenne ed elegante di quella di Washington D.C., dunque il contrasto è ancora più penoso), meglio non parlare; ma questa precisazione andava fatta, per mettere in guardia da certe rozze immagini ancora correnti riguardo alla politica americana.



Soprattutto, è emersa ancora una volta la profondità storica della vita politica contemporanea in America, che è rigorosamente ordinata secondo le sue originarie categorie settecentesche; mentre la politica moderna in Italia vive ancora un’epoca di giovinezza un po’ scalcinata. D’altra parte, l’Italia può prendersi facilmente la rivincita, se solo sappia ripensare le sue vere origini.

Non si esagera infatti, dicendo che il dibattito di martedì 3 ottobre (nonostante i prevedibili torrentelli di veleno riversati il giorno dopo da parte democratica), non è sembrato del tutto indegno delle sedute senatorie nell’antica Roma: per la dignità, per il senso di urgenza, per gli scatti di eloquenza. E questo parallelismo non è archeologico, ma si sta rivelando pertinente.

Circola infatti in questi giorni, nei quotidiani americani, una strana statistica (fragile, come la maggior parte delle statistiche; ma che, come la più gran parte delle statistiche, ci dice qualcosa di significativo se l’analizziamo per così dire di sghembo), secondo cui un numero crescente di uomini americani – le donne, pare, un po’ meno – pensano all’antica Roma almeno due o tre volte alla settimana. Come in tutte le società di mascherato conformismo repressivo (cioè, tutte le società occidentali; le altre, non si preoccupano nemmeno di mascherarlo), certi discorsetti leggeri che svolazzano per l’aria alludono a preoccupazioni serie: è un modo di parlare di politica, ma indirettamente e con finta buffoneria. C’è sempre stata in effetti negli Usa una tradizione, tra l’esoterico e il folclorico, secondo la quale la storia americana sarebbe in certo senso un eco se non un parallelo di quella romana. Ma adesso, quello che era un tentativo di trovare patenti di nobiltà per la storia di questi eterni nuovi-arrivati rispetto all’Europa è diventato una seria metafora, attraverso la quale l’impero americano ammette senza dirlo il timore di un’incombente decadenza.

E allora, domanda bizzarra ma non priva di serietà: lo scontro in cui il quarantunenne deputato conservatore Matt Gaetz dal profilo un po’ lupesco (capo degli irriducibili otto deputati o giù di lì del gruppetto di “destra” repubblicana) è riuscito – mentre era circondato dal gelo ostile della maggioranza dei suoi compagni di partito che non l’hanno mai applaudito – a colpire e affondare la navicella di Kevin McCarthy, non assomigliava forse a Catilina, divulgato come nemico dello stato romano ma riabilitato anche di recente, e con tutte le credenziali di sinistra? È ben vero che di fronte a lui non stava un singolo avversario con la statura di Cicerone; ma, come detto, non sono mancati momenti di nobile eloquenza, con un certo ciceronianismo yankee, a difesa delle gerarchie stabilite.

Ma qui non si fa dell’accademismo: la questione resta politica e più che politica, sociale, umana; è in gioco il presente-futuro in Usa. Può darsi che il plotone degli Irriducibili Otto vada a schiantarsi contro il muro dei buoni ordinamenti e delle buone maniere, e sarebbe una fine, per così dire, catilinaria. Ma può anche darsi che costoro siano più lucidi di quel che sembri; e che abbiano, con la loro ribellione solo apparentemente irresponsabile, metodicamente abbozzato una strategia da non sottovalutare, la quale riguarda direttamente le prossime elezioni presidenziali.

Una strategia che i malevoli potrebbero chiamare un ricatto, indirizzato al governo prima di tutto, ma anche alla massa molle del Partito repubblicano; e che i più benevoli, invece, potrebbero definire come una mossa per rilanciare il retaggio di Trump (sì: c’è un retaggio di Trump), che non richiede necessariamente la presenza diretta di Donald Trump. E del resto, nessuna delle due strategie (confondendo i benevoli e i malevoli) esclude l’altra: il “ricatto” può divenire “riscatto” con l’aggiunta di una semplice “s”.

Questa non è una dichiarazione cinica. Il cinismo è la caricatura del realismo, laddove il fondamento di quest’ultimo è l’idealismo, se lo si prende sul serio. Ciò che conta, come sempre, è la visione che si prolunga e che guarda lontano.

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