Repubblicani e democratici si stanno scontrando senza esclusione di colpi per la corsa alla Casa Bianca nel 2024. È uno scontro frontale a tutti i livelli. O forse non proprio tutti. Il partito che conta di più è quello trasversale che da decenni si siede a tavola per spartirsi la spesa pubblica americana che, per il piacere di questi super-potenti, sta esplodendo di anno in anno. E la spesa per la Difesa, da sola, vale nel 2023 quasi 1 trillion di USD, cioè mille miliardi di dollari. Una posta che giustifica qualsiasi accordo politico, purché funzioni.



Stavolta chiediamo a Chris Foster, investitore molto esposto sul mercato americano, di condividere esclusivamente il lato politico della sua analisi. Essa risulterà pragmatica, proprio come avviene per le decisioni di investimento.

Negli States la confusione sembra aumentare. L’accordo parziale per evitare il government shutdown (blocco dei pagamenti federali per mancanza di copertura) raggiunto allo scadere, Trump e Biden che corteggiano entrambi i lavoratori in sciopero, i sondaggi che danno Biden indietro. Che cosa sta succedendo?



Sono sondaggi su base nazionale, quindi irrilevanti per i meccanismi delle presidenziali e solitamente manipolati in questa o quella direzione. Valore zero. Per capire, bisogna immaginarsi cosa sta pensando l’establishment dei due partiti, quello repubblicano e quello democratico. Attenzione: non i partiti e i contendenti alle primarie, ma i loro vertici.

Ci dica.

L’estrema polarizzazione della vita politica americana è un fatto. Tuttavia l’establishment dei due partiti ha molti più interessi in comune di quello che si pensi. Sono politici talora da generazioni, sono anche amici, frequentano gli stessi campi da golf, stesse feste, stesse “debolezze” e soprattutto stesso livello di corruzione.



L’opposto o comunque qualcosa di molto diverso da quello che si potrebbe supporre. Vada avanti. 

Gli States sono come una mega-corporation e i vertici dei due partiti (congressmen/women e alti funzionari di Washington) sono come degli azionisti che ricevono “dividendi” in varie forme, in parte anche legali. L’establishment dei due partiti americani è apartitico, in fondo. Solo in parte religioso, ma fortemente e uniformemente devoto al dio “Dollaro”.

E di cosa parlano in questi mesi i vertici democratici e repubblicani?

Aggiungerei: vertici delle due parti e sponsors economici. Sia quelli che pagano cash, sia quelli che pagano anche in natura: corporate media in generale e Big Tech che influenzano i flussi di informazione. Prima di risponderle serve una premessa importante.

Prego.

I partiti politici americani, come la maggioranza di quelli europei, sono entità che necessitano in continuazione di donations per sopravvivere. E la necessità di fondi è in forte crescita, in quanto la gestione del consenso è sempre più complessa e quindi costosa. In Usa i partiti hanno una forte organizzazione locale, ma negli ultimi anni il centro del dibattito e delle strategie si è concentrato sempre di più a livello federale, dove i vertici possono meglio coordinare i rapporti con il mondo dei grandi donatori “corporate” e il mondo dei media. In pochi anni gli apparati politici tradizionali si sono indeboliti a favore di outsiders – vedi Trump, vedi Robert J. Kennedy – e fanno fatica a controllare completamente i social media e websites non allineati. Servono sempre più soldi e sempre più cooperazione attiva – censorship, corruption, in altre parole – con i grandi media e finanziatori vari. Non credo si possa stimare con precisione il costo di una corsa alla Casa Bianca.

D’accordo. Torniamo all’establishment. 

Il tema delle discussioni tra i due vertici e sponsors oggi è fondamentalmente questo: come ci liberiamo contemporaneamente di Biden e Trump entro i prossimi mesi, in modo che nessuno dei due corra per la Casa Bianca?

Quindi, semplificando, parliamo di un unico gruppo di potere che sta cercando il modo per togliere di mezzo entrambi. Sicuro che anche Biden vada politicamente eliminato?

Senza dubbio. Biden è servito per permettere al clan Obama di restare al controllo, di “ripagare” l’ala sinistra del partito che ha contribuito alla vittoria del 2020 e di permettere ai colossi tech della borsa Usa – senza i quali Biden non avrebbe mai potuto vincere – e a Wall Street di macinare centinaia di miliardi di profitti senza troppa pressione dei regulators. Con il supporto della FED, ovviamente: supporto attivo – tassi zero fino a 12 mesi fa, un vero crimine finanziario – e assenza di vigilanza su banche amiche. Da questa primavera tutti conoscono bene i loro nomi. Insomma, Biden era una certezza, per il sistema, con la FED a garantire gli investitori.

E adesso?

Le cose non sono andate esattamente come previsto ed è panico a Washington! Panico vero, questa volta. Tre cose sono andate storte. La prima: Biden non è più in grado di continuare nemmeno fino a novembre 2024, per non parlare poi di un altro mandato fino al 2028. La seconda: Trump non è stato ancora eliminato come doveva invece accadere.

Sono preoccupazioni comprensibili da parte democratica. E la terza?

Kamala Harris si è rivelata ancora più incapace di quello che già tutti sapevano quando è stata affiancata a Biden. Questo ultimo aspetto è importante per capire il contesto drammatico in casa dem in questi mesi.

Non è un’esagerazione parlarne in questi termini?

Il presidente è mentalmente fuori gioco, la vice non è in grado di rimpiazzarlo se gli succedesse qualcosa e soprattutto non dev’essere lasciata libera di esporsi troppo da qui alle elezioni del prossimo novembre. Per non fare ulteriori danni. Molti invece si immaginavano tre anni fa che la Harris sarebbe stata il successore più ovvio di Biden. Sembrava un piano perfetto: Biden riporta ordine dopo Trump e la signora Harris prende in mano il Paese dopo quattro anni di esperienza come vice e prima donna presidente. Obama ha probabilmente gli incubi ogni volta che presidente e vicepresidente partecipano a una conferenza stampa o un evento di fund raising. Se avete notato, i due leaders sono tenuti dai vertici del partito il più possibile lontano dall’esposizione mediatica. Cose da Unione Sovietica anni 60-80.

Questo in casa dem. I repubblicani stanno meglio?

Il vertice del partito dovrebbe essere sulla carta abbastanza saldamente nelle mani di Mitch McConnell, che sempre più assomiglia a Biden quanto a invecchiamento precoce, e industriali e famiglie vicine alla famiglia Bush. Molti donors appartenenti a famiglie industriali sono contro Trump – la famiglia Koch, in primis, investirà centinaia di milioni per affossare Trump e sostenere altri candidati –, mentre la base è largamente con Donald. Se non succede nulla di “speciale” a DJT (Donald John Trump, nda), le primarie non avranno storia, come si vede.

Vuol dire che il partito gliele avrà lasciate fare.

Saranno solo un teatrino per permettere a Nikky Haley e DeSantis di profilarsi per prossimi incarichi. La vera questione è che la parte “alta” del partito aveva sottostimato le chances di Trump nel 2016 e ora non può permettersi di lasciare che un elemento spurio come lui finisca il suo lavoro di distruzione della direzione del partito e attacchi frontalmente il Deep State. Ma c’è qualcosa di peggio, visto dai dems.

E riguarda sempre Trump?

Sì. DJT metterebbe a rischio tutti i rapporti storici e i legami d’affari tra le grandi famiglie americane, il Congresso e le parti sensibili del sistema Usa. DJT sta mettendo in pericolo la logica dei “dividendi” di cui parlavamo poco fa. Se va al potere sarà la fine per una parte importante del “sistema”.

Cosa vorrebbe dire in concreto?

Ovviamente DJT non è un nuovo san Francesco. Il sistema cambierebbe le sue dinamiche, pur rimanendo, immagino, coerente con la sua logica di intreccio di poteri e distribuzione di ricchezza a chi partecipa e contribuisce al gioco. Magari il Pentagono non sarebbe più il cuore del sistema “redistributivo”.

Ed è quello che l’establishment non può permettersi, immagino.

Sarebbe un rischio economicamente enorme. È come se un’azienda familiare in cui da generazioni i vari membri dei vari rami della famiglia si spartiscono ruoli, soldi, potere, prestigio e privilegi – senza nessuna forma di accountability e scrutiny –, fosse acquistata da una multinazionale straniera o da un private equity fund: a quel punto la festa finisce per tutti. Tagli di costi, nuovi ruoli, cambio della guardia, nuovi incentivi e via dicendo. In Usa decenni di spartizione della torta sono ora messi a rischio da un personaggio per certi versi improponibile, seppure più capace di gran parte dell’élite che controlla il Paese.

Eppure l’esito del primo mandato ci dice che Trump non ha minimamente intaccato quel sistema di potere. 

Nel primo mandato DJT era impreparato, si è circondato anche di opportunisti e incompetenti che lo hanno poi progressivamente abbandonato, prevedendo la sua fine rapida e la sua uscita dalla politica. Ancora peggio, si era appoggiato a gente come Mike Pence, Gary Cohn, Wilbur Ross e Nikky Haley che erano parte attiva del sistema di potere che voleva scardinare. Ingenuità che non ripeterebbe. Adesso ciò che conta è che il rischio Trump è da evitare, con tutti i mezzi. E ora che non è più in grado di continuare, anche Sleepy Joe è diventato un pericolo per il sistema.

L’eliminazione di Trump e Biden avverrà per via giudiziaria?

Per Trump, serve o una condanna con arresto immediato, in modo che non possa partecipare fisicamente alle elezioni… Difficile. Oppure – e infatti ora stanno spingendo su questo – l’accusa di essere stato nel gennaio 2021 alla guida di una sommossa anti-governativa. Se lo fanno figurare a capo di un movimento sovversivo, allora può essere sicuramente interdetto e non potrà correre. Oppure, ancora, uno scandalo fiscale clamoroso, ma mi pare che in otto anni di indagini non abbiano trovato nulla di adeguato.

E per liberarsi di Biden?

Basta molto meno: una vita intera basata sull’uso spregiudicato del potere politico lascia tracce indelebili, in qualche cassetto, per esempio, del DOJ (Department of Justice, nda). Quindi basterà poco a convincerlo a fare un passo indietro o lasciare che uno scandalo lo affossi in modo definitivo. Le vicende legate al figlio Hunter basterebbero eccome, ma la rimozione di Biden avverrà in modo un po’ più elegante di quella che aspetta DJT.

Riprendiamo il filo. I vertici del GOP e dei dems sognano un futuro senza Joe e Donald. Ma è come limitarsi a segare Draghi dalla presidenza della Repubblica. E poi?

Obiettivo dei dems non è trovare a tutti i costi un democratico che garantisca la vittoria contro Trump, perché al momento non esiste, non ce l’hanno e lo sanno, ma piuttosto distruggere Trump direttamente. A quel punto va bene quasi ogni alternativa e alcuni nomi tra i repubblicani non dispiacerebbero ai dems: Nikky Haley sarebbe fantastica per il sistema. E magari anche DeSantis sarebbe accettato dal sistema.

DeSantis non fa delle battaglie anti-pensiero liberal, anti-woke, anti-Disney, anti sistema-Washington il suo punto forte?

DeSantis è un vero conservatore, a favore della famiglia tradizionale, davvero coraggioso nel denunciare le follie woke che stanno distruggendo il sistema educativo Usa, ma alla fine si può inquadrare nel sistema, può essere assorbito in qualche modo. Insomma i dems possono anche accettare un po’ di dialettica anti-woke, purché non si tocchi la grande torta.

Ma dovranno pur trovare qualcuno che corra contro il candidato repubblicano, chiunque esso sia. I nomi?

Uniche alternative pensabili sono o un uomo di business di caratura stellare, o un politico puro, collaudato dal sistema. Il primo sarebbe Jamie Dimon, un donor dei dems ammirato da tutti. Sempre più spesso parla nelle sue interviste di “policy”: quando i CEOs si espongono su temi di “policy” (politica economica, nda), stanno mandando messaggi/ricatti/minacce alla classe politica e/o stanno preparando un impegno diretto in politica. La storia di governatori e ministri targata Goldman Sachs è ricchissima di esempi di queste dinamiche. Dimon sarebbe il Draghi della situazione. Pericoloso, perché farebbe pulizia di un po’ di incompetenti e metterebbe mano alla spesa pubblica; pericoloso per i democratici, intendo. Immagino che le probabilità di Dimon siano molto basse, e non sarebbe una vittoria certa per lui: al di fuori della East Coast, non sarebbe osannato dalla folla. E la corrente di sinistra dei dems abbandonerebbe la corsa… uguale perdita pesante di voto giovanile, minoranze etniche e arcobaleni vari.

Chi potrebbe essere invece il politico?

Una donna in gamba ma apprezzata solo dai dems e molto local come profilo è Gretchen Whitmer, governatrice del Michigan. Passare da Kamala alla Whitmer sarebbe comunque un salto di qualità. Il politico con visibilità sempre più nazionale, e non per caso direi, sarebbe Gavin Newsom, governatore della California.

Chi è Newsom?

Fatico a trovare un solo lato positivo per bilanciare una descrizione. Dal 2019 è governatore della California e in soli quattro anni è riuscito a devastare la struttura sociale ed economica dello Stato più ricco e di successo degli Usa. Al di là dell’esplosione del crimine, ha trasformato la California in uno Stato dove sperimentare e attuare una serie di politiche liberal e un controllo sociale che fanno pensare a modelli politici di altri tempi…

Come fa a dirlo?

Basta chiederlo a chi – e sono tanti – lascia la California per la criminalità, per il sistema educativo completamente “sick”, per i costi della vita divenuti insostenibili, con tasse altissime usate per finanziare il consenso dei potenti locali. Un esempio della gestione Newsom: il fallimento della Silicon Valley Bank e della First Republic Bank. Difficile immaginare che in uno Stato dove nemmeno la nomina di un insegnante avviene senza il placet dell’onnipotente partito democratico, le due banche principali, Silicon Valley Bank e First Republic Bank, siano fallite per ragioni indipendenti dalla politica. L’intero board of directors era controllato dalla politica e il management team aveva le caratteristiche tipiche delle organizzazioni californiane, se si può dire così. Voi in Italia conoscete il problema del controllo politico sulle banche meglio degli americani, immagino, no?

Se Newsom ha prodotto questo sfacelo, perché farlo correre?

Nel partito democratico di oggi non c’è dibattito, non è più permesso. Se diventa lui il candidato, avrà il supporto incondizionato di tutti. Ha bella presenza, ottima dialettica nonché contenuti culturali impeccabili da un punto di vista dei valori liberal. Rimane un uomo potente, vicino al clan Harris-Pelosi-Feinstein e vicinissimo ai giganti della Silicon Valley.

Diane Feinstein è morta qualche giorno fa: chi è stato nominato da Newsom al suo posto?

Il rimpiazzo temporaneo della senatrice Feinstein è praticamente ufficiale: e dice tutto di Gavin Newsom. Lascio ai lettori di fare un po’ di googling sulla nuova senatrice, che è la presidente di Emily’s List. Visto il devastante panorama sociale californiano, non è escluso che sia stato deciso a Washington che Newsom debba lasciare la California prima che il malcontento della popolazione metta a rischio il dominio “bulgaro” dei dems nello Stato più ricco d’America. Dunque meglio ricollocare il buon Gavin a Washington per le presidenziali. Solo chi vive in California conosce davvero il disastro in corso. Il fatto che Google, Salesforce e Facebook riportino risultati stellari nel 2023 non ha impatto diretto sui censiti 200mila homeless dello Stato. Ma probabilmente sono molti di più.

Dunque il candidato o i candidati dem ci sarebbero.

Aspetti, un altro nome: Michelle Obama. Da anni se ne parla e ha caratteristiche eccezionali. Primo, si presenta bene e “vende bene” anche senza contenuti: non è poco. Secondo, potrebbe ricreare il clima un po’ movimentista che ha portato al trionfo di suo marito nel 2008 e 2012. Mobilizzare l’elettorato di colore e ispanico non è cosa da poco e si sa che può fare la differenza. Terzo fattore, i giovani.

Perché?

Votano poco e anche in qual caso un profilo da non professionista della politica con una retorica pro-giovani molto sviluppata sarebbe molto potente.

Torniamo alla signora Obama.

Il sistema che sta sopra queste teatrino elettorale sarebbe abbastanza soddisfatto, immagino, anche se un’altra ondata di potere verso il clan Obama non necessariamente sarebbe ben vista. La mia opinione è che Michelle sarebbe il candidato della disperazione più assoluta.

La situazione è complessa, ma in fondo sarà la solita corsa a due che lei vede molto incerta a causa dei due runners finali. Solo che non si sa chi se la giocherà!

Attenzione! Un personaggio volutamente sottovalutato e poco supportato ed evidenziato dai media è Robert Kennedy, outsider delle primarie dems. Nessuna chance di vincere le primarie pilotate: non ci è riuscito Bernie Sanders che probabilmente aveva la maggioranza sulla Clinton, figuriamoci Kennedy con un mero 20% al momento. Fino ad ora ha portato un po’ di vivacità e spostato la discussione su argomenti davvero “tossici” che non sono stati graditi dai vertici: la gestione criminosa della pandemia, il tema del free speech vs moderated speech. Kennedy correrà da indipendente e potrebbe risultare l’ago della bilancia.

In che modo?

Potrebbe raccogliere quella manciata di voti dem di protesta e scontento in Stati in bilico e quindi contribuire in modo decisivo alla vittoria repubblicana. Potrei scommettere che in queste ore i vertici dems stanno cercando di dissuaderlo in tutti i modi. I problemi, però cominciano prima.

Cioè come liberarsi di Biden?

Precisamente. L’establishment non vuole più Biden, una vera liability verso la campagna elettorale, ma c’è qualcuno che lo ha endorsato apertamente e prima di tutti: la sinistra del partito, tutto il gruppo di Ocasio-Cortez e in generale i discepoli di Bernie Sanders. In questo modo tutto si è complicato.

Come si spiega quell’endorsement?

Per due motivi: primo, Biden e i suoi uomini – in buona parte fedeli a Obama – garantiscono un generoso funding a favore di minoranze etniche varie, iniziative arcobaleno e sostegno economico quasi illimitato per la penetrazione culturale dei valori liberal più spinti. Invece tra Boston, NY, Chicago, Seattle, Sanfra e Washington, i dems che contano e che hanno posizioni economiche da difendere – e che raccolgono il 90% dei fondi per la campagna 2024 – hanno bisogno di un personaggio davvero credibile per un intero mandato e per rimettere in pista l’economia e gestire le tensioni globali. Ripeto: capace e credibile.

Altrimenti?

Se la situazione economica sfugge loro di mano è un disastro colossale. La sinistra estrema giustamente non si fida di nomi nuovi che possono cambiare i flussi di cassa e le priorità; meglio Biden perché almeno ci garantisce i soldi, insomma, meglio lo status quo. Se dovesse arrivare un nome clamoroso come Jamie Dimon, per esempio, sanno benissimo che la musica cambierebbe dal primo giorno. E anche Gavin Newsom non è amato: rappresenta la parte più ricca della California, il mondo del Big Tech e intrecci affaristici che possono risultare indigesti ai seguaci di Bernie Sanders. E anche a politici molto vocal sui temi legati alla tassazione dei super ricchi e sulla limitazione del dominio oligopolistico del Big Tech come Elizabeth Warren. Quindi meglio il decrepito Biden per loro. Più chiaro di così non potrebbe essere.

Non mi è ancora chiaro del tutto, invece, perché l’establishment GOP non vuole Trump.

Gli Usa sono come un’azienda che deve produrre ricchezza principalmente per i suoi azionisti, che ovviamente non coincidono con il popolo. Trump sarebbe un CEO ingestibile proprio da questo punto di vista. Quindi un CEO da eliminare prima che, per qualche errore di calcolo, vada ancora al potere. La notte della sconfitta di Hillary Clinton sono scorse tante lacrime. Anche tra i repubblicani. Hillary era la donna più odiata d’America, come anche i democratici dicevano, ma la Clinton Dinasty era garanzia di continuità nella gestione del potere Dems-GOP. Anzi un salutare ritorno al passato dopo otto anni di Obama, un “CEO” anche troppo protagonista, arrogante e ingombrante.

Può essere più specifico, a questo punto? Qual è la vera torta da spartire tra i due partiti?

Si chiama guerra. Il Pentagono è uno Stato nello Stato. È il Pentagono a dettare i tempi alla politica: Iraq, Serbia, Libia, Siria, Afghanistan, Ucraina. La storia è lunghissima e ogni evento di guerra è un evento di grande rilevanza economica per gli Usa. La torta della guerra è la più colossale perché fa parte della componente di spesa pubblica quasi intoccabile. Siamo a quasi 1 trillion di USD nel 2023, e sarà quasi impossibile tagliare questa componente di spesa nel futuro prossimo. Potete immaginare un settore in cui una manciata di persone ha accesso e discrezionalità quasi assoluti per 1 trillion o più per i prossimi 10 o 20 o 30 anni? Inoltre i vertici dell’industria della guerra e del Pentagono sono stabilissimi, fondamentalmente loyal.

Quel “metterei fine alla guerra in Ucraina in 24 ore” detto da Trump dev’essere risultato molto indigesto.

Trump è contro la guerra come business model del Paese e del sistema politico. Il Pentagono è la più grande fonte di flussi di cassa per i politici americani e ha una capacità “redistributiva” impressionante: con un trillion di dollari si possono ripagare direttamente e indirettamente molti donors e amici. Quindi la Difesa, insieme all’industria collegata, redistribuisce al Congresso e agli amici del Congresso i propri dividendi. È la vera torta alla quale i vertici dei due partiti, che poi a tavola, intorno alla torta, sono un partito unico, non possono rinunciare.

Cosa dice delle negoziazioni di questi giorni che hanno evitato il government shutdown? Sono stati stralciati ulteriori fondi all’Ucraina.

Ormai siamo in campagna elettorale e i repubblicani hanno capito che la gente non ne può più di mandare soldi a Kiev. Tra l’altro, a dire il vero, non sono soldi veri: sono “buoni spesa” da utilizzare presso le aziende della Difesa americana e sono in parte in natura, cioè armi. Si spiega anche così la generosità americana per gli ucraini… Oggi ai repubblicani conviene adottare un tono più soft sul tema guerra e spesa correlata. Quindi non mi stupisce che il taglio dei fondi a Kiev sia stato parte della negoziazione.

Vuol dire che anche tra i dems c’è malcontento crescente.

Sì. È un problema da non sottovalutare in ottica elettorale: “partito della guerra” vs “l’uomo solo a favore della pace immediata con Putin”. Nessuno vuole questo tipo di identificazione. Solo Haley e Mike Pence tra i repubblicani si stanno esponendo in modo aggressivo con posizioni così pro-war. Chissà perché. Forse stanno invocando più fondi per la loro campagna?

Dunque ci conferma che sta effettivamente emergendo Nikky Haley?

Sì, è in gamba, ha un background internazionale, rispetto alla maggioranza dei papabili fa un’ottima figura. È stata spinta in alto da Trump, poi si è staccata quando ha capito che Trump entrava in disgrazia. Buon segno per il suo profilo: è furba e senza scrupoli. Ed è totalmente pro-war, come dicevamo. Globalista e pro-war. In fondo i democratici, ripeto per l’ennesima volta, quelli che contano, possono anche non volere uno dei loro come prossimo presidente. Haley al potere per quattro anni e fuori Trump: è un buon accordo. Lo firmerebbero subito! Ma non sono così sicuro che i repubblicani firmerebbero per Michelle Obama.

Per concludere?

Direi che se avessimo la sfida Michelle Obama-Nikky Haley, il gruppetto di amici che pregusta la spartizione della torta potrebbe andare a letto senza incubi notturni. Solo un po’ di mal di pancia, ma niente incubi.

(Federico Ferraù)

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