La presidenza Trump ha diviso l’America e le elezioni del novembre 2020 hanno tenuto con il fiato sospeso il mondo. Finite con un testa a testa tra i due candidati, il voto ci dà un’America spaccata ed un nuovo presidente, Joe Biden. Ma i dati non sono ancora ufficiali, Trump non concede la vittoria e partono le azioni legali incrociate. Nell’incertezza del momento abbiamo raccolto l’analisi di Daniel Pipes, storico americano con un PhD ad Harvard, presidente del think tank Middle East Forum e soprattutto intellettuale conservatore che ha lavorato con diverse amministrazioni presidenziali al Dipartimento di Stato e alla Difesa.
Pipes si è opposto alla candidatura di Trump nel 2016 ma alla fine del primo mandato ha promosso i suoi quattro anni come “pienamente conservatori” nelle questioni che contano. Ora però vorrebbe che ammettesse la sconfitta per il bene del Paese e lasciasse insediare il nuovo presidente. Ci parla di un’America che va verso uno scenario di radicalizzazione della destra e della sinistra; dei successi ed insuccessi di Trump in politica estera e di come Biden sia un enigma.
Lei è un intellettuale conservatore ed un repubblicano ma non è stato affatto entusiasta della nomination di Trump, al punto da lasciare il Partito Repubblicano nel 2016. Temeva che fosse una sorta di neo-fascista, al punto che lo ha ribattezzato “Trumpolini”. Eppure, alle presidenziali del 2020 gli ha dato il suo supporto. Perché ha cambiato idea su di lui?
Perché ha governato, con alcune eccezioni importanti, come un vero repubblicano nel settore della giustizia, dell’educazione, fiscale, della delegislazione, dell’ambiente, dello Stato amministrativo, della politica estera. E perché la sua discutibile personalità non ha prodotto nessuna crisi.
Trump sembra aver perso le elezioni per un margine molto ristretto contro un candidato democratico piuttosto debole. Come è potuto accadere?
In questo momento Donald Trump non ha riconosciuto la sconfitta, dunque l’elezione non è ancora conclusa. Ma se riteniamo che ha perso, dobbiamo considerare che ciò è avvenuto per margini molto risicati in pochi Stati che aveva vinto nel 2016. Questo probabilmente perché i Democratici hanno concentrato qui le loro forze. Quello che è da notare è come queste elezioni somiglino a quelle di quattro anni fa, a tutti i livelli: presidente, Senato, Camera, governatori, parlamenti. Sembra che in pochissimi abbiano cambiato idea.
Probabilmente il Covid-19 ha avuto un peso nel voto….
Sì, ed ha colpito Trump perché l’economia ha subito il colpo e perché egli si è lasciato andare a commenti sciocchi sul virus. Le cose che ha fatto bene in questa crisi sanitaria, come quella di lasciare la questione in mano ai governatori, non hanno avuto quasi nessuna attenzione.
E le proteste razziali, le violenze ed il movimento Black Lives Matters?
Queste probabilmente lo hanno aiutato. Pochi americani vogliono togliere i fondi alla polizia o vedono il razzismo come un carattere saliente degli Stati Uniti.
Ma non è che gli Stati Uniti stanno andando verso un violento confronto tra una Destra radicale ed una Sinistra radicale?
Io temo di sì. Entrambi gli schieramenti si stanno allontanando dal centro e stanno estremizzando le loro posizioni. Come conservatore moderato vedo questo processo soprattutto nella destra, con attacchi nei miei confronti che non si erano mai visti prima.
Joe Biden sembra essere stato eletto come anti-Trump. Chi è realmente Joe Biden e quali forze lo sostengono?
Biden è un vero enigma, perché le sue capacità mentali diminuiscono ogni giorno che passa. Le grandi domande che ci aspettano, nel caso la sua elezione sarà confermata, sono legate alle sue capacità di governare e su quanto tempo resterà presidente. Se resterà capace e durerà come presidente, egli sarà un liberal moderato che si troverà però sotto costante pressione della sinistra radicale. E mi aspetto che soccomberà spesso ad essa.
Venendo a Trump, quali sono stati secondo lei gli aspetti di successo e quelli fallimentari della sua politica estera?
Il suo più grande successo è stato quello di mettere sotto pressione l’Iran e di porre in evidenza il pericolo che proviene dalla Cina. Cercare un’intesa con dittatori come Kim Jong-un e Recep Tayyip Erdogan sono stati i suoi peggiori errori.
In quali ambiti della politica estera ha avuto scontri più duri con l’establishment?
Nel voler perseguire un approccio duro con gli alleati, come la Germania, pretendendo che essi siano trattati come dei pari, non come dei dipendenti.
Ma non le pare che molte delle sue politiche siano il risultato dell’adattamento degli americani al mondo post-americano?
Sì, questo più o meno è quello che intendevo dire quando mi riferivo alla necessità di trattare gli alleati come uguali e non come dipendenti.
Non trova che la politica estera di Trump, per quanto errabonda e irrituale, avesse il vantaggio per gli alleati di essere semplice, schematica e prevedibile?
Sono d’accordo. Diciamo che è la politica di una mente indisciplinata, che però è coerente con sé stessa. Coerente nella sua imprevedibilità.
Ed ora? Entriamo in una fase di imprevedibilità?
Se Biden sarà presidente, sì. Soprattutto a causa delle forti tensioni che vi sono tra i liberal e la sinistra del Partito Democratico.
Trump è stato dipinto come un isolazionista. Ma in realtà, più che l’isolazionismo, l’unilateralismo e la sicurezza economica sono stati i principali caratteri della sua azione. È d’accordo?
Sì. Unilateralismo e sicurezza economica sono i nuovi volti dell’isolazionismo americano oggi.
E potrà Biden evitare questi due fattori?
Sì. Egli potrà tornare al classico approccio del dopoguerra, quando gli Stati Uniti si facevano carico di responsabilità superiori perché erano i leader di quel sistema.
La politica estera di Biden è avvolta dal mistero, se si eccettuano alcuni riferimenti nostalgici ad un mondo ormai scomparso, sostanzialmente quello dello status-quo multilaterale della guerra fredda. In Europa, molti ritengono che egli ristabilirà la vecchia cooperazione con l’Europa e con la Nato. Potrebbero avere ragione?
Sì, me lo aspetto, soprattutto poiché l’amministrazione Biden vuole differenziarsi da quella di Trump.
Per quanto riguarda la politica mediorientale, Biden riesumerà la politica di Obama di pacificazione con le forze islamiste?
La sua domanda presuppone che Trump abbia smesso di coltivare buoni rapporti con gli islamisti, che è qualcosa su cui io non concordo. Eccetto la politica dura verso l’Iran, la politica estera americana è stata piuttosto favorevole agli islamisti in Libia, Somalia, Yemen, Siria, Iraq, Turchia, Afghanistan. E Biden non farà altro che proseguire ed aumentare questo approccio debole all’islamismo.
E questo influenzerà la politica americana verso Israele?
L’islamismo non è centrale nel definire la politica americana verso Israele, mentre lo è la questione palestinese. E Biden è stato chiaro sul fatto che egli tornerà alla politica di dare all’autorità palestinese un veto sulle azioni americane nel conflitto israelo-palestinese.
Trump ha ricusato il Jcpoa, l’accordo sul nucleare iraniano, e ha fatto il possibile per colpire l’Iran duramente dal punto di vista economico. Biden oserà tornare indietro e riportare l’Iran al tavolo negoziale?
Ne dubito. Khamenei non ha mai amato l’accordo del Jcpoa e avanzerà richieste che Biden probabilmente non accetterà.
Vi è la sensazione che Trump sia stato piuttosto morbido con Erdogan e la Turchia. Biden sceglierà un approccio più duro?
Sì, ha indicato con chiarezza che adotterà una politica più dura. In parte questo è il risultato di una corsa a contraddire tutto quello che Trump ha fatto; in parte è un approccio più realistico alla Turchia di Erdogan.
(Paolo Quercia)