Le elezioni degli ultimi due mesi hanno chiarito che la vita politica dell’Italia, rispetto a quella degli Usa, coltiva un altro tipo di “genere letterario”. Il genere italiano è la commedia, mentre quello americano è il melodramma o più precisamente il melodramma storico (può sembrare ironico che l’Italia patria del melodramma non possa competere su questo terreno con gli Stati Uniti; ma la storia è piena di ironie). In Italia si vincono le elezioni con la tacita intesa che in fondo “non è una cosa seria” e quello che importa è la solida e solita rete dei rapporti che “contano”. In Usa invece si vuole vincere davvero; e questo implica che alla fine il “palcoscenico” sarà cosparso di corpi abbattuti.
Thomas Carlyle e Victor Hugo, i quali tendono a vedere la storia attraverso i protagonisti individuali, non avevano forse tutti i torti. Il melodrammatico novembre americano infatti ha, fra tanti altri fenomeni che sono e saranno sviscerati, messo in scena una sorta di referendum su due protagonisti. C’è stato prima di tutto il fatale errore di Trump: che era giustamente consapevole di aver creato una parentesi astuta e brillante tra il profilo abbastanza piatto dei due mandati di Obama e quello dell’attuale presidente, totalmente piatto; ma è stato troppo arrogante, e ha disastrosamente ceduto alla propria hybris (tracotanza, ndr).
Biden invece se l’è cavata perché salvato dalla sua stessa mediocrità: la quale ha portato i politici democratici a prendere le distanze da lui e fare come suol dirsi “mente locale”. Mentre i repubblicani non potevano o volevano lanciare nella lotta investimenti finanziari altrettanto pesanti di quelli democratici (che sanno bene cosa sia una élite), questi ultimi, dopo alcuni ridicoli errori (ci volevano dei professori super-progressisti per venir fuori con l’idea iper-provinciale che in queste elezioni il partito democratico fosse il baluardo della democrazia occidentale), si sono ripresi. E lo hanno fatto adottando una buona vecchia tattica: martellare per settimane e settimane sul tema che la loro situazione andava dal brutto al quasi-perso, contando su ciò che poi è accaduto, che cioè ogni buon risultato democratico sarebbe stato ingigantito dalla sorpresa, e la mancanza di una “onda rossa” repubblicana sarebbe stata percepita come una sconfitta.
Adesso entrambi i partiti hanno bisogno di fare la pace con sé stessi, di riunire le fila, di ritrovare un’unità interna. Pensiero apparentemente così ovvio, che si potrebbe trattarlo come un cliché. E invece non è così, perché queste riunificazioni richiedono un sacrificio da entrambe le parti, cioè un’eliminazione di tutte e due le leadership; il che è tanto poco ovvio, che cominciano già a sentirsi mormorii di comitati elettorali per Trump da un lato e Biden dall’altro in vista del 2024.
A questo punto, lo scenario è tale da provocare le vertigini: Trump si candida e mette i bastoni fra le ruote a Ron DeSantis (o a uno degli altri due candidati credibili), così garantendo la sconfitta presidenziale dei repubblicani; e contestualmente si candida Biden, così assicurando la disfatta democratica. È uno scenario pittoresco; che, a seconda dei “generi” prescelti, potrebbe assumere la forma di una bella tragedia all’antica, sul tipo degli Orazi e Curiazi, oppure di una farsa noire (se ci fosse qualche impresario di Broadway disposto a investire in un dramma politicamente scorretto).
Ma la realtà ci richiama a un problema grosso: negli Stati Uniti non esiste attualmente un Terzo Partito, a cui ricorrere per un salvataggio in extremis (e qui i politici italiani, che di partiti ne hanno da buttar via, potrebbero ben sorridere). Sarebbe proprio necessario che tutti e due si ritirassero, come detto, allo stesso tempo (magari sotto le pressioni “amichevoli” di un supercomitato congiunto); altrimenti, ed ecco che la prosaica realtà viene a imitare la finzione, si arriva al naufragio nel ridicolo o peggio.
Si tratta “soltanto” di letteratura? Non esattamente. Perché la vera posta in gioco, che determina l’importanza di elezioni come quella che si sta concludendo (ci saranno molti strascichi e appendici) negli Usa, è vasta; e va al di là dei temi anche cruciali (inflazione, porosità del confine nella parte sud degli Usa, crimine rampante non solo nelle grandi città, dilemma ecologico) di cui si è parlato fino alla nausea in questo mese. È una sensazione più o meno confusa, che serpeggia pian piano e si va facendo strada nella coscienza della popolazione al di qua e al di là dell’oceano, in Europa così come in America: la sensazione che si prema da varie parti per cambiare nientemeno che l’idea stessa di ciò che è la natura umana.
Si era pensato fino a ieri che ciò che si intende per “natura umana” non avesse bisogno di spiegazioni o difese particolari, in quanto idea condivisa da tutti (atei o credenti, conservatori o progressisti), e che la questione fosse quella di come rapportarci a essa (nella vita sociale, nelle valutazioni etiche), non di come concepirla e parlarne. Adesso invece si sta scoprendo che non usiamo più nemmeno gli stessi termini, per parlare di questa natura. I politici (le cui capacità intuitive sono spesso sottovalutate) hanno cominciato – al di là della nebbiolina degli slogan indispensabili – a comunicare ai concittadini prospettive diverse su questa natura, prospettive tutt’altro che teoriche perché determinano i dettagli della nostra esistenza quotidiana. Per agire su tutto questo è necessaria soprattutto una migliore integrazione fra i cosiddetti “intellettuali” (termine sempre più inadeguato) e i politici. Questo sarà il confronto decisivo per la società di oggi-domani.
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