“C’è una ragione semplice perché Trump fa ciò che fa. Because he can”. Un editoriale pubblicato dal New York Times mentre al Senato di Washington andavano in onda i riti di chiusura del fallito impeachement tentato dai democratici contro il presidente americano ha espresso bene bene la cupa frustrazione dei liberal statunitensi. 



La Speaker Dem della Camera, Nancy Pelosi, si era spinta ai limiti dei suoi poteri costituzionali pur di far decollare al Senato la messa in stato d’accusa formale di Trump in coincidenza mediatica con l’inizio delle primarie per le presidenziali di novembre. È stato in Iowa, un martedì di febbraio di 12 anni fa,  che un giovane senatore di Chicago si è lanciato nella mischia che lo avrebbe condotto a battere il repubblicano George W. Bush e ad abitare per otto anni di fila la Casa Bianca: ultimo democratico e primo inquilino afro. Seguito però dal ciclone Donald.



Yes we can: secondo molti critici e delusi, di Barack Obama rimane già forse solo lo slogan elettorale inaugurato allora. Di certo, nel febbraio 2020, quello del NYT può apparire quasi un lapsus, oppure un bisenso involontario. Se infatti si scorre l’op-ed  di David Leonhardt – una sorta di ricalco a stelle e strisce delle dieci domande dell’italiana Repubblica a Silvio Berlusconi –la traduzione sostanziale è che Trump “fa quello che gli pare perché nessuno glielo impedisce”. Perché è un avventuriero impunito, totalmente unfit per governare il più grande Paese del mondo. Un presidente che gli americani non avrebbero mai dovuto eleggere al posto di Hillary Clinton; e non dovrebbero ri-eleggere a novembre. Ma il cattivo presentimento della Grey Lady di Manhattan è che invece lo rifaranno. Trump, newyorchese purosangue, ce la farà di nuovo. He can.



Ma in cosa davvero – in traduzione alternativa – “è riuscito” Trump? Certamente è riuscito a sconfiggere un impeachement più serio e meno addomesticato di quello che aveva minacciato Bill Clinton nel caso Lewinsky. Ed è sicuramente una notizia non piccola: al di là dell’impatto sull’avvicinamento e sull’esito delle presidenziali 2020. 

Donald “la Bestia” è sembrato soprattutto sconfiggere una lunga e tradizione di ipocrisia: in base alla quale i presidenti repubblicani sono un po’ tutti cugini di Richard Nixon – cacciato con ignominia dalla Casa Bianca per il caso Watergate – e quelli democratici invece tutti nipotini di John Fitzgerald Kennedy (compresa l’ex candidata Clinton, nonostante le mail distrutte e finanziamenti da Stati discutibili alla fondazione di famiglia: compreso il candidato Joe Biden, implicato nell’Ucrainagate per motivi di famiglia almeno quanto Trump per ragioni istituzionali).

Il politically correct ha radici antiche e storica cittadinanza statunitense. Che poi un film pluricandidato all’Oscar 2020 ormai non abbia timore di raccontare chi erano gli irishmen d’America all’epoca di JFK (candidato, presidente, assassinato in circostanze che mai saranno chiarite per davvero) è un altro discorso. Le narrazioni devono continuare: fino a quando they can, fino a quando ci riescono; fino a quando prevalgono sulla realtà. Fino a quando viene eletto un Trump, che vara una riforma fiscale per rilanciare davvero l’economia dopo l’apocalisse di Wall Street e l’orgia del quantitative easing da parte della Fed Dem. 

All’inizio del 2020 accade così che – per usare concisione giornalistica – il Pil Usa sia in crescita stabile e robusta, la disoccupazione sia ai minimi da mezzo secolo e la Borsa americana abbia appena toccato un nuovo massimo: +40% in più del giorno in cui Trump è stato eletto nel 2016, con la nomea di cigno nero portatore di nuovi crash finanziari. 

Ma di tutto quanto Trump can-do, ha dimostrato di “saper fare”, sul NYT non troverete mai molto: oppure troverete distinguo critici, accuse di fake. Hanno e probabilmente avranno ancora più spazio le inchieste (a vuoto) dell’Fbi o dei “procuratori speciali”, un po’ magistrati e un po’ politici;  o le schermaglie parlamentari per le autorizzazioni a procedere. Ma ormai tutto cannot do: non riesce più a prolungare una lunga esclusiva del potere politico, militare, finanziario.

PS: la deriva giustizialista e l’autodifesa mediatica dell’establishment politico Usa (non più di quello finanziario) può richiamare qualche aspetto della situazione italiana. Ma il parallelo – nella realtà delle cose fatte e di quelle che chi governa un Paese del G7 deve sempre impegnarsi a fare – è fuorviante: il Pil italiano è fermo da anni e la disoccupazione resta altissima, come il debito pubblico. l’Italia non abbassa le tasse alle imprese che lavorano, preferisce distribuire sussidi in deficit a chi non lavora. Solo il premier “Giuseppi” Conte sembra contento di sé. Fra le molte cose che Trump “è riuscito a fare” c’è stato anche la sua conferma trasformistica a Palazzo Chigi.