Le canzoni bisogna ascoltarle “dal vivo”. Perché solo così si ha modo di verificare se “arrivano”, se si compie quel misterioso passaggio dal performer al pubblico, quei momenti di comunione delle anime che solo con le canzoni si possono verificare e che l’ascolto distratto e contaminato dalla tecnologia di un disco tramite un impianto hi-fi o una radio invece rischia di compromettere. E allora, anche chi come il sottoscritto si era recato pieno di dubbi sulla possibilità che Elio potesse approcciarsi al repertorio immenso del grandissimo Enzo Jannacci si è dovuto ricredere davanti a una prova (la sera del 30 marzo al Teatro Lirico-Gaber di Milano, il giorno dopo il decimo anniversario della scomparsa del Maestro) di grande professionalità, ma soprattutto di umiltà e omaggio senza i secondi fini auto celebratori, auto referenziali, di pura promozione di se stessi che i tributi ci propinano ogni volta che vediamo parate di pseudo star in cerca solo di notorietà.
Elio, l’Elio delle storie tese che conoscevamo, si è annullato e si è messo a servizio delle canzoni, come ogni artista autentico dovrebbe fare, e non si è lanciato in sermoni zuccherosi da glicemia altissima che hanno sempre questo genere di celebrazioni. Ha citato una volta solo, alla fine, Enzo Jannacci, preferendo evocare la presenza-assenza di questo uomo meraviglioso che ha saputo raccontare di noi stessi come nessun altro ha mai fatto.
C’era, Enzo Jannacci, l’altra sera al Teatro Lirico. D’altro canto è apparso evidente che la comicità assurda e finto-demenziale che conosciamo bene di Elio attinge pienamente da quel surrealismo del cuore che era proprio di Jannacci: “Mio papà si vantava di essergli stato compagno di classe – ha sempre raccontato –. A casa ce lo faceva ascoltare in continuazione: e già mi faceva ridere. Mi piace pensare che questi ascolti abbiano condizionato il mio stile e che sia per questo se mi sento una specie di suo erede: la milanesità, un simile senso dell’umorismo, dell’assurdo e del surreale”.
Già, la milanesità: per una sera è stato bello sentirsi milanesi del cuore, che lo si sia di nascita o di adozione, e non milanesi-imbruttiti come accade ogni giorno. Elio, ben accompagnato da bravissimi musicisti (Alberto Tafuri al pianoforte, Martino Malacrida alla batteria, Pietro Martinelli al basso e contrabbasso, Sophia Tomelleri al sassofono – nipote di “quel” Paolo Tomelleri, sassofonista e clarinettista di Jannacci per oltre quarant’anni -, Giulio Tullio al trombone) in arrangiamenti minimali, mai strabordanti ma efficaci, senza quel muro del suono da big band alla Frank Sinatra che conosciamo in certe canzoni del Dottore, con pudore e rispetto ha costruito uno spettacolo fatto di canzoni e parole. Monologhi irreali, divertenti, a volte un po’ tristi sulle paranoie della nostra società moderna (la moda dei ristoranti etnici, il traffico milanese, le “scarp de tennis” firmate, il politicamente corretto) e soprattuto di canzoni. I classici, certo, ma anche perle nascoste di quel repertorio infinito. Ha aperto idealmente un cerchio con Saltimbanchi e lo ha chiuso ovviamente con la straziante e bellissima Quando il sipario calerà, passando da Silvano alla meravigliosa Taxi nero, da La luna è una lampadina a L’Armando, da Sopra i vetri a T’ho compraa i calsett de seda e Faceva il palo. Ha solo accennato la prima strofa di El purtava i scarp del tennis perché no: va bene tutto, ma certe canzoni le poteva cantare solo lui, l’Enzino.
Ha fatto piangere, e tanto, con la devastante Son s’ciupaa e ha concluso con un abbraccio ideale con la gioiosità triste di Vivere.
Per poi annunciare una sorpresa che ci ha lasciati di stucco: sul palco il figlio di Enzo, Paolo Jannacci. Che ha dato l’ultimo colpo di taglio al nostro cuore ferito (“perché la ferita bisogna coltivarla” diceva sempre Jannacci) con una dolorosa, bellissima, commovente Vincenzina.
Poi siamo usciti nel buio di Milano, i cuori caldi anche se un po’ scombussolati, perché Jannacci ci manca tantissimo. E su un taxi (bianco, perché oggi i taxi non sono più neri, che il nero mette tristezza a questo mondo rimbambito) parcheggiato davanti al teatro abbiamo riconosciuto dietro il finestrino un volto noto, quello di Renato Pozzetto, un volto dallo sguardo un po’ assente che osservava quella folla di tutte le età che sciamava fuori sul marciapiede; che, come ha scritto nella lettera all’amico Enzo che ha publicato in questi giorni sembrava già in attesa che si compia l’inevitabile, con paziente accettazione: “Quaggiù s’invecchia e la salute è un problema. Tra poco ci rincontreremo, e io sarò felice di stare con te. E tutto sarà come una volta, anzi meglio. Lì c’è tutto e si può fare tutto e bene, proprio come facevi tu…”.
Noi, invece, siamo andati a casa con la certezza che, nonostante tutto,
“Sarà ancora bello
Quando ti innamori
Quando vince il Milan
Quando guardi fuori
E sarà ancora bello
Quando guardi il tunnel
Che è ancora lì vicino e, e non ci credi ancora
E sei venuto fuori
E non ci credi ancora
E c’hai la pelle d’oca
E non ci credi ancora”.
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