Elisabetta Villaggio, regista e scrittrice, è la figlia del grande, immenso Paolo Villaggio, ma lei ha sempre detestato essere considerata semplicemente la “figlia di”. Intervistata nella giornata di ieri dai microfoni del Corriere della Sera, ha cercato di raccontare un Paolo Villaggio diverso, intimo, lontano da quello conosciuto alla tv: «Mio padre era un uomo coltissimo. Mi fece leggere Marcuse quando ero adolescente, e non capii nulla. Anche mio figlio Andreas, che adorava, lo ha sempre trattato da adulto: a lui faceva leggere Kafka. Detto questo, non aveva alcuna manualità, non ha mai cambiato una ruota, non sapeva usare il computer, men che meno gli smartphone».



«Ogni tanto era un po’ impacciato – ha proseguito – tant’è che in privato gli dicevamo: guarda papà che così sembri Fantozzi. Però con il suo personaggio più amato penso che avesse in comune soprattutto la tenacia». Intelligente, impacciato e anche ‘testone’: «Con il cibo era incontrollabile – spiega a riguardo Elisabetta Villaggio, il padre aveva una forma grave di diabete ndr – e poi non dava retta a nessuno. Quando fu costretto a muoversi in sedia a rotelle si prese un autista: andava in giro con lui, fin dal mattino, per il primo cappuccino con i cornetti…».



ELISABETTA VILLAGGIO: “LE VACANZE CON LUI ERANO BELLISSIME”

Fra i ricordi più belli che la figlia di Paolo Villaggio conserva, i viaggi all’estero, dove l’attore ligure era quasi un semisconosciuto: «Le vacanze come erano? Quelle, bellissime. Perché all’estero nessuno lo conosceva e ci lasciavano tranquilli. Siamo stati in tantissimi posti. Una volta a New York andammo a vedere un musical, la protagonista aveva avuto un malore e fu sostituita da Liza Minnelli: papà impazzì. A Parigi mi portò in un ristorante dove si mangiavano solo formaggi: io, come lui, ne ero ghiottissima; quella notte stetti male per quanti ne avevamo mangiati».



Si parla anche di Fabrizio De Andrè? «Uno di famiglia. I genitori di De Andrè e i miei nonni erano amici: papà e Fabrizio si conoscevano da sempre. Quando veniva a Roma stava a casa nostra. Ricordo le sere a cantare Carlo Martello e La canzone di Marinella». Infine l’ultimo ricordo: «Stava già male, era ricoverato e cercavo di trascorrere più tempo possibile con lui. A un certo punto mi disse: “Sai che ho sempre pensato di essere matto? Da quando sono nato”. Era davvero preoccupato e questa cosa mi colpì perché con la sua follia, invece, era riuscito a tirar fuori personaggi che hanno fatto ridere tutti».