Quando i dischi erano ancora la “forza” che muoveva e commuoveva il cuore di milioni di persone (tanto, tantissimo fa) – ed erano anche il motore di un impero economico colossale, sia chiaro – accadevano fenomeni curiosi, ma significativi. Ogni qual volta che un grande personaggio che fino a poco prima era stato il simbolo di quel mondo scompariva dalle scene, o non rispettava più l’immagine che la gente aveva costruito di lui, ecco che si correva a cercare l’erede. Per un Bob Dylan che alla fine degli anni 60 si era messo a pubblicare dischi easy listening e non faceva più concerti, pallido fantasma della “voce di una generazione” come era stato, si scatenò ad esempio la caccia al “nuovo Dylan” in grado di prenderne il posto. Ancor di più, lo scioglimento dei Beatles aveva spezzato  il cuore di tutti e, come aveva detto lo stesso Lennon, “era finito il sogno”.



L’ingrato compito di prendere il loro posto toccò a un ragazzetto che tutto era tranne che un sex symbol: piccoletto, con una incipiente calvizie e due occhialini da nerd. Quel ruolo in realtà non lo aveva voluto lui. Furono l’incredibile serie di hit single, paragonabili appunto a quelli dei Fab4, la maestosa capacità melodica, il romanticismo pop a piene mani a fare di lui l’erede dei Beatles e a placare l’ansia da abbandono di quanti stavano traghettando nel nuovo decennio, gli anni 70. Ma fu John Lennon, suo malgrado, a dargli l’eredità che Elton John non si sarebbe mai aspettato, dichiarando, dopo aver ascoltato Your Song, che era “la miglior cosa nuova dopo che noi Beatles eravamo nati”.



Vero nome Reginald Kenneth Dwight, Elton John aveva esordito nel 1969 con un disco acerbo passato quasi del tutto inosservato, Empty Sky. Ma nell’aprile 1970, quando aveva compiuto appena 23 anni un mese prima, sarebbe uscito un disco che portava solo il suo nome e cognome, e che avrebbe inaugurato con il botto il nuovo decennio e lo avrebbero segnato per sempre.

Prima che il mondo della musica si frantumasse in quello che il grande scrittore rock, Lester Bangs, avrebbe definito (che è poi anche il male della società moderna) solipsismo, quell’atteggiamento secondo il quale il soggetto pensante non può affermare che la propria individuale esistenza in quanto ogni altra realtà si risolve nel suo pensiero, Elton John sarebbe stato probabilmente l’ultimo dei grandi artisti a rappresentare un sentire comune. Oggi siamo springsteeniani, dilaniati, metallari, indie, trap, cavolfiori. Ognuno convinto, come il tifo calcistico, di aver capito tutto e che gli altri sono solo dei coglioni.



Ma ci fu un tempo in cui non era così: “Ci sarà una indifferenza ancora più sprezzante verso gli oggetti di venerazione degli altri. Pensavamo fosse Iggy Stooge, tu pensavi fosse Joni Mitchell o chiunque altro che sembrava parlare per i nostri tanti dolori, quelli che sono nascosti nel nostro privato, della situazione del tutto circoscritta e di pochi momenti di estasi. Continueremo a frammentare le nostre vite in questo modo, perché attualmente il solipsismo possiede tutte le carte, è un re il cui dominio inghiotte anche Elvis”, scriveva Bangs.

In realtà Elton John, ma in fondo è quello che succede a tutti gli artisti, riuscì in questo titanico compito per un breve periodo, dall’uscita di questo disco fino più o meno alla metà del decennio, cinque anni. Poi la droga e l’alcol prese il meglio del suo geniale cervello. Ma siccome per contratto era obbligato a sfornare due dischi all’anno e possedeva una capacità creativa mostruosa, ce ne è abbastanza per andare ancora oggi a immergersi in quello straordinario mare. Cominciando da questo disco, forse il più bello, uscito esattamente 50 anni fa. E pensare che ai tempi, data la scarsa fiducia dei discografici, questo disco era stato inteso come una raccolta di demo da proporre ad altri cantanti perché le interpretassero.

Fu Aretha Franklin in effetti a far sì che il disco ottenesse riconoscimento. Incise infatti una esuberante cover nel suo classico stile. The Queen Of Soul aveva riconosciuto l’anima soul di Border Song portandola in cima alle classifiche R&B e al numero 37 di quelle pop. “In quel momento storico” avrebbe detto in seguito l’artista inglese “quello fu il punto più alto della nostra carriera”. Già, perché Elton John non era da solo. Come accade raramente nel mondo della musica, il paroliere era l’amico Bernie Taupin, lui si occupava soltanto della musica, ma la capacità incredibile dei due di integrarsi ed esprimere il medesimo sentimento, è uno dei casi più esaltanti della storia della musica.

“Troppi artisti e troppe band prendono troppo sul serio tutta questa faccenda”, disse Elton a Record Mirror mentre l’album usciva quella primavera. “Se ci sei dentro per i soldi, una brutta canzone o l’incapacità di guadagnare denaro ti lascerà a pensare al suicidio o alla disperazione. Devi fare un bilancio della creazione di una canzone, ma devi mantenere l’intera visione in una vena leggera o diventa tutto un meccanismo e perdi ogni sensazione”.

Questo rispetto per la creazione di una canzone, insieme al grande amore che i due condividevano per l’America, fanno di Elton John un capolavoro di purezza, di romanticismo e di viaggio alle radici dell’America. Aggiungendoci il geniale arrangiatore Paul Buckmaster, il gioco fu fatto. Buckmaster, che aveva già lavorato con David Bowie per la sua Space Oddity l’estate precedente, dà al disco la profondità e la drammaticità necessarie. Border Song, intinta di anima gospel grazie al sapiente ed esaltante coro femminile esprimeva, come poi avrebbe fatto in seguito in modo ancor più convinto, l’anima dell’America rurale, dai Monti Appalachi al sud di Memphis, come faceva nello stesso periodo The Band, gruppo dici Elton era ammiratore confesso e di cui seguì l’insegnamento. Come tanti altri inglesi, anche lui era “un americano immaginario” che si immerse profondamente in quella epopea: “Gli artisti che amo di più sono The Band, Van Morrison, Neil Young. Anche se avrei voluto essere Leonard Cohen”.

Il disco non rappresenta quel glam-rock esplosivo di album successivi per i quali divenne famoso: è un mix di materiale per cantautori, country e materiale drammaticamente orchestrato. “È bello vedere Cat Stevens ed Elton John fornire la risposta britannica a Neil Young e Van Morrison”, scrisse il giornalista inglese Richard Williams nella sua recensione dell’album per Melody Maker. “E non commettere errori, Elton è in quella classe”.

Elton John è infatti il disco di un cantautore nella vena intimista e purissima di quel periodo storico, che si allontanava dalle grandi utopie del decennio precedente, dall’esplosione di stili musicali psichedelici mischiati alle radici blues, dagli assolo di batteria che duravano un quarto d’ora, e dalle bombe soniche lanciate dalle chitarre di Jimi Hendrix, Jimmy Page ed Eric Clapton. Your Song è un tocco di classe intima purissima che commuove ancor oggi anche se per chi scrive il vertice di questo intimismo che si fa implorazione, preghiera, pianto è la stupenda First Episode at Hinton, liriche autobiografiche di Bernie Toupin che raccontano la sua adolescenza, il primo amore da ragazzini e il passaggio del tempo che ha reso quella bambina una donna con la solitudine e la perdita dell’innocenza che questo comporta: “ I was one as you were one And we were two so much in love forever I loved the white socks that you wore But you don’t wear white socks no more; now you’re a woman I joked about your turned-up nose And criticized your school-girl clothes But would I then have paced these roads to love you For seasons come and seasons go Bring forth the rain the sun and snow Make Valerie a woman And Valerie is lonely. Nostalgia come se piovesse difficilmente resa in modo altrettanto superlativo da qualcun altro.

Elton John è ai suoi vertici, dal punto di vista musicale. La classe, il senso di melanconia è lo stesso che si può ascoltare nel migliori interpretazioni di Sandy Denny. L’atmosfera pensierosa e oscura di alcune delle canzone è compensata dall’esuberanza della travolgente Take Me To The Pilot e dal romanticismo di I Need You To Turn To – e, naturalmente, dall’apertura di Your Song che presto avrebbe trasformato l’intera carriera di Elton. Ma soprattutto Elton John era un ragazzo puro, che amava la musica più di ogni altra cosa. Non era ossessionato come lo sarà im seguito di diventare il numero uno, quello che riempirà gli stadi vestito da Donald Duck.

Elton John ci avrebbe messo quasi un anno per arrivare al numero uno delle classifiche. Ma per il momento, sulla scia dell’arrivo al Troubadour di Los Angels dove l’America lo avrebbe scoperto rendendolo sempre più popolare, stava gestendo le sue aspettative. “So quanto sono bravo e di cosa sono capace”, disse a Melody Maker. “Semplicemente non puoi sederti e credere a tutto ciò che la gente dice di te, o potresti avere terribili problemi di ego. Credo che scriviamo buone canzoni, ma mi sento molto imbarazzato quando la gente lo dice”.

Elton John resta uno di quei quattro o cinque dischi che hanno definito un’epoca storica. E resta ancora oggi una consolazione immensa per il nostro cuore sempre in cerca di una promessa, di un abbraccio, di una carezza.