Lo strano caso della Corte dei conti che a 15 anni di distanza condanna Lucchina, ex Direttore generale della sanità in Lombardia, a risarcire la Regione per 175 mila euro. Esattamente la cifra che il Direttore generale mise a disposizione di Beppino Englaro per trasferire la figlia in Friuli, dove, era ormai chiaro per tutti, Eluana sarebbe sicuramente morta. Il padre, forte di una sentenza della Cassazione emessa in quei giorni, voleva che fosse sospesa ogni tipo di cura a sua figlia, compresa la nutrizione e l’idratazione. In questo modo dava inizio alla lunga vicenda della legalizzazione dell’eutanasia in Italia: un iter tutt’altro che concluso, ma che ritorna periodicamente sulle prime pagina dei giornali. Ogni volta con un approccio diverso: una volta è in pole position la pietas per il malato e per le sue sofferenze, che meritano il massimo rispetto da parte di tutti, compreso il Ssn. Un’altra volta è il ribadire con forza il diritto a disporre della propria vita, considerando il diritto a morire come parte integrante di quello stesso diritto a vivere che l’articolo 32 della Carta costituzionale considera l’unico diritto a cui si associa il termine fondamentale. In questo caso l’approccio è decisamente aziendalistico ed economico-centrico.
Secondo la Corte dei conti, Carlo Lucchina agì sulla base di una “concezione personale ed etica del diritto alla salute”. Espressione che meriterebbe un approfondimento tutt’altro che ovvio e scontato, dal momento che ognuno di noi è tenuto ad agire in scienza e coscienza come ricorda il Codice deontologico proprio della classe medica. Per di più Lucchina sottolinea come, a prescindere del suo personale punto di vista, ha applicato le direttive arrivate “anche” dall’Avvocatura regionale. In altri termini una concreta convergenza tra un valore fortemente sentito: il rispetto per la vita, per ogni vita, e le indicazioni della struttura di riferimento a cui lui era tenuto a far fronte: l’Avvocatura regionale.
Invece, secondo l’attuale sentenza della Corte dei conti, Lucchina, in qualità di dDrettore generale e sulle indicazioni contenute nella sentenza della Cassazione, avrebbe dovuto procedere direttamente all’interruzione del trattamento che manteneva Eluana Englaro in stato vegetativo. Il trasferimento non era necessario: Eluana sarebbe dovuta morire a Lecco, sospendendo quelli che erano considerati fino ad allora sia i sostegni vitali che i trattamenti salvavita, restando in Regione Lombardia.
Ora a distanza di 15 anni forse ci si dimentica di tre punti essenziali in questa lunga e dolorosa vicenda: prima di tutto la mancata garanzia di quale fosse la volontà di Eluana in una circostanza come quella in cui si trovava. Senza voler mettere in discussione il convincimento di Beppino Englaro, occorre riconoscere che non esisteva nessun documento che lo confermasse. Oggi il consenso informato è d’obbligo e deve essere scritto, oppure videoregistrato, ma ha bisogno di una prova che non lasci dubbi di sorta. cfr l’articolo 1, comma 4 della legge 219/2017: “Il consenso informato, acquisito nei modi e con gli strumenti più consoni alle condizioni del paziente, è documentato in forma scritta o attraverso videoregistrazioni o, per la persona con disabilità, attraverso dispositivi che le consentano di comunicare”.
In secondo luogo, è solo nell’articolo 1 della legge 219/17, otto anni dopo, che si dice che nutrizione e idratazione siano equiparati a trattamenti sanitari e quindi possono essere rifiutati dal paziente, mentre fino ad allora era obbligo morale del medico garantirli, in quanto non connotavano nessuna forma di accanimento terapeutico. Legge 219/17, art. 1, comma 5:”Ai fini della presente legge, sono considerati trattamenti sanitari la nutrizione artificiale e l’idratazione artificiale, in quanto somministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici”.
In terzo luogo, il provvedimento della Corte d’Appello di Milano del 2008, con cui si attribuiva al tutore la facoltà di sospendere l’idratazione e l’alimentazione a Eluana, non era esecutivo, ma solo autorizzativo. Non era un provvedimento definitivo e non comportava nessun obbligo per le strutture ospedaliere e pertanto poteva essere messo in discussione, come hanno riconosciuto quegli stessi giudici di primo grado che hanno assolto Lucchina.
La vicenda di Eluana Englaro è nel cuore di tutti noi, che in questi anni abbiamo ripetutamente rievocato la sua storia, e quel drammatico incidente che a 22 anni le stravolse la vita. Abbiamo sentito Beppino Englaro raccontare in infinite trasmissioni televisive quanto questa figlia fosse piena di gioia di vivere e come per lui fosse estremamente doloroso vederla in quella condizione per 19 lunghissimi anni. La storia dell’eutanasia in Italia comincia proprio con quella sua tenacia con cui chiedeva ripetutamente di interrompere l’alimentazione artificiale che teneva in vita la figlia. E se la sentenza della Cassazione nel 2007 aveva sottolineato come ogni individuo avesse il diritto di rifiutare cure insostenibili e degradanti, a distanza di 15 anni bisogna ammettere che più che di cure Eluana aveva bisogno come tutti noi di idratarsi e di nutrirsi e che in questo non c’è nulla di insostenibile, né di degradante. Eluana non dipendeva da nessuna macchina. Proprio per questo quando il padre di Eluana, in qualità di tutore, aveva chiesto di sospendere l’alimentazione per la figlia, Lucchina aveva risposto con una nota in cui si diceva che le strutture sanitarie si occupano della cura dei pazienti, e questo comprende la nutrizione. Di conseguenza, i sanitari che l’avessero sospesa sarebbero venuti “meno ai loro obblighi professionali”.
A questo punto Beppino Englaro decise di lasciare la Lombardia per andare verso una regione più compiacente e con l’autorizzazione del Tar trasferì la figlia in Friuli, dove aveva ottenuto sufficienti garanzie che la figlia, dopo la sospensione della nutrizione e dell’idratazione, sarebbe morta. I 175 mila euro che ora la Corte dei conti richiede furono quelli necessari a trasferire Eluana dalla Lombardia, dove, per varie ragioni, non veniva autorizzata la sospensione della nutrizione e dell’idratazione in Friuli, dove invece furono subito interrotte le cure.
Lucchina viene condannato per aver difeso la vita di Eluana, per di più in un momento storico in cui mancava la legge sulle DAT, con cui si rende obbligatorio il consenso scritto e si equiparano nutrizione e idratazione a trattamenti sanitari che possono essere rifiutati ancorché salvavita. Viene condannato con un riferimento a una legge che non c’è, ma che proprio per questo da quel momento in poi diventa urgente approvare a tutti i costi. E l’iter della legge è ben conosciuto: ci vorranno 10 anni ancora, ma nella mente dei suoi sostenitori quel riferimento all’equiparazione di nutrizione e idratazione a trattamenti sanitari divenne una conditio sine qua non per la approvazione. Qualcuno si chiede: Al di là della vicenda e dei suoi esiti giudiziari, – d’ora in poi – chi si assumerà il rischio (e i costi) di assistere persone con patologie incurabili, quando è molto più conveniente -e politicamente corretto- accompagnarli all’uscita?
Se su Eluana Englaro non c’era nessun accanimento terapeutico, su Carlo Lucchina invece sembra che ci sia un vero e proprio accanimento giudiziario, dal momento che sono dieci anni che le sentenze a suo carico si alternano tra assoluzione e condanna. Nonostante tutti ci aspettiamo e gli auguriamo che venga assolto con formula piena, probabilmente l’iter giudiziario, questo o uno affine, continuerà così, finché i fautori dell’eutanasia non avranno ottenuto quel che desiderano. Una morte on demand, quando si vuole e come si vuole. Possibilmente a carico del Ssn e senza eccessive e petulanti molestie burocratiche, che pongono un freno al desiderio di morire, assurto alla condizione di diritto inalienabile.
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