Mettetevi comodi nelle vostre poltrone, scegliete una sala con un buon impianto di aria condizionata, perché lo spettacolo va a durare quasi tre ore, come i bei film dei tempi andati. Non questi prodotti del giorno d’oggi usa e getta da un’ora e mezza scritti e girati in qualche giorno. Un film, per forza di cose, non potrà mai riassumere vicende complesse come questa, quella di Elvis Presley, ma abbisogna del massimo del tempo disponibile almeno per cominciare a scalfirne la punta dell’iceberg. E, per uno come il sottoscritto che non ha mai trovato un solo biopic degno del tema che si era auto imposto, questo Elvis del regista australiano Baz Luhrmann (Moulin Rouge e Il grande Gatsby tra gli altri) è il primo degno della “mission impossible” che si propone. Merito anche di un attore protagonista straordinario, il giovanissimo Austin Butler, quasi un esordiente, che non solo ha la fortuna di assomigliare fisicamente moltissimo al Re del rock’n’roll, ma si è impegnato in un compito pazzesco: studiare ogni sguardo, ogni espressione, ogni mossa del personaggio che interpreta fino a renderlo in maniera che dà i brividi. Merita l’Oscar.



Non solo: quello che rende questo biopic diverso da tutti gli altri è che Butler si limita a cantare (e bene) quando interpreta Elvis da giovane. Man mano che il protagonista invecchia, il regista ha avuto l’ottima pensata di fondere la voce dell’attore con quella originale di Presley, per dare un tono vocale il più simile possibile all’artista. Un applauso per questa scelta.



Merito anche dell’eccitante montaggio di Matt Villa e Jonathan Redmond, che rendono decenni di storia in maniera impeccabile, cogliendo tutti i passaggi salienti. E la fotografia: le scene iniziali nell’America del sud degli States, con i cantanti di colore che si esibiscono in sudici juke joint o predicatori gospel nei tendoni del “revival religioso” sono imperdibili. Così come la ricostruzione di Beale Street a Memphis, la via autodenominatasi “home of the blues”, dove l’unico bianco che vi si aggira con gli occhi sgranati a cogliere ogni nota, ogni mossa, ogni sguardo è il giovanissimo Elvis.



Il compito, dicevamo, era sulla carta impossibile, perché la storia di Elvis Presley significa la storia dell’America del 900, una storia complessa, drammatica, in piena segregazione razziale, le morti dei fratelli Kennedy, di Martin Luther King, una nazione spaccata e in fiamme. Elvis ne è il protagonista assoluto: la sua sfida, quella di un bianco che suona musica “nera” fa crollare ogni barriera, cambia quella società moralista e bacchettona, scatena la “bestia”, il corpo che trasuda erotismo, un ritmo insaziabile, insostenibile: finalmente i giovani possono divertirsi e essere se stessi senza aver paura di esser puniti, schiacciati, omologati dalle regole manipolatrici imperanti di un mondo, quello americano, basato sull’ideologia luterana, del peccato e delle fiamme dell’inferno. Elvis assume su di sé come Capitan Marvel Jr., l’eroe dei fumetti che inconsciamente gli ha indicato la via, il compito di liberare l’America. Ci riuscirà, ma a prezzo della vita.

Il film non trascura alcun aspetto, segno dell’enorme lavoro di documentazione fatto dagli autori: la nascita in un misero quartiere di Tupelo, Mississippi, dove i bianchi erano più poveri dei neri; la morte del fratello gemello al momento della nascita che lascerà in Elvis un vuoto incolmabile e allo stesso tempo la presenza di “un altro”; una madre ossessionata dalla paura di perdere anche lui, che si attacca in maniera morbosa e corrisposta a Elvis, che quando la perderà rimarrà senza una guida, un rapporto affettivo in grado di sostenerlo, vista la figura di padre assente. E qui arriva il Colonnello Parker, magistralmente interpretato da Tom Hanks, che è voce narrante e protagonista dietro le scene. Come nel dramma faustiano di Goethe, Parker è una sorta di figura demoniaca, luciferina che agisce dietro le quinte, che sfrutta ogni debolezza del suo giovane cliente, che eccita il suo desiderio di successo e ricchezza, che si sostituisce anche alla madre come figura genitoriale. Un rapporto anche questo morboso che Elvis pagherà con la vita. Lui, il Colonnello Parker, finirà sommerso dai debiti a trascinarsi da una slot macchine all’altra a Las Vegas, tragica e patetica figura di perdente.

Naturalmente c’è anche Priscilla, sua prima e unica moglie, madre di sua figlia, l’amore e le tenebre, il gioco di riflessi su cui Luhrmann costruisce il film, narrando l’epopea mitica di un ragazzo a metà, intrappolato in una gabbia dorata da cui è impossibile scappare.

Dalla veranda di Tupelo agli studi della RCA, dalla rabbiosa If I Can Dream, urlata in occasione del The ’68 Comeback Special, l’unico momento in cui Elvis trova il coraggio di ribellarsi al dittatoriale e viscido Colonnello, tornando a esibirsi dopo anni di filmetti hollywoodiani insulsi e tornando a rivestire il mantello di Re del rock’n’roll, fino agli estenuanti live di Las Vegas.

Comincia il crollo fisico e mentale dell’uomo che volle farsi Re: il “buon dottore” che lo segue come un’ombra mai lesinando ogni sorta di farmaco per mantenerlo in forma, fino al crollo mentre sta per salire sull’ennesimo palcoscenico. Quando Parker svela tutto se stesso: Elvis sta morendo e lui urla, fate qualunque cosa, ma quest’uomo deve essere sul palco immediatamente.

È la mancata promessa che spezza il sogno, come dice lo stesso Parker: “Io e te siamo uguali, ognuno ha dato tutto all’altro, ma la roccia dell’eternità che abbiamo sognato per gente come noi è irraggiungibile”. Si sbagliava: se lui oggi è stato rimosso dalla storia, l’importanza e l’influenza di Elvis sul mondo sono più forti che mai. Perché Elvis il mondo, lo ha cambiato.

Le ultime immagini sfumano dall’attore protagonista al vero Elvis, impegnato in una delle sue ultime e più drammatiche esibizioni: grasso, sfatto, caricatura di se stesso, trova la forza per un ultimo momento di gloria immensa, cantando da solo al pianoforte Unchained Melody. La porta a termine con fatica, poi sorride, come dire: è stato tutto un gioco.

E se come alla fine di ogni concerto, la voce dietro le quinte annuncia che “Elvis has left the building”, Elvis se ne è andato, lui non è morto veramente: è solo tornato a casa, tra le baracche di Tupelo e i cantanti di colore, di cui era parte imprenscindibile.

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI