“Elvis has left the building” dice una voce poco prima che il film finisca. Elvis Presley ha lasciato l’edificio, come dicevano i funzionari di sicurezza ai fan fuori dai concerti per farli allontanare. Lo ha lasciato per sempre quando inizia Elvis, il film di Baz Luhrmann dedicato al padre del rock and roll che sceglie come punto di vista privilegiato quello del colonnello Tom Parker (Tom Hanks sformato dal trucco), il manager che creò e sfruttò l’immagine del Re.
Scritta da Luhrmann con Sam Bromell, Craig Pearce e Jeremy Doner, è una biografia dalla struttura tradizionale, che racconta l’infanzia, l’ascesa e il declino di Presley (Austin Butler, in ottima forma) attraverso le fasi musicali e spettacolari della sua carriera e il ruolo da burattinaio e imbonitore – una delle più titaniche incarnazioni del Mangiafuoco di Collodi – con cui gestì ferramente la carriera del suo cliente, descrivendo poco a poco gli scontri morali, artistici ed economici del loro rapporto.
Concentrarsi però sul Colonnello (una sorta di mezzo truffatore olandese, riciclatosi negli Stati Uniti sotto falso nome) dà a Elvis un’originalità di sguardo e approccio molto differente rispetto a film o serie tv dedicati al rocker di Memphis: Luhrmann lo racconta attraverso i filtri del profitto, dell’industria musicale e dello spettacolo, all’uomo preferisce la maschera, la leggenda dietro cui far emergere la fragilità.
Non a caso, il film si concentra sul finire degli anni ’60 e tutti gli anni ’70, ovvero l’inizio della fine almeno secondo i critici musicali, quando la stella di Elvis stava cambiando forme, prospettive e spirito: una scelta drammaturgica ovviamente, perché le crisi permettono a Luhrmann di nutrire il suo gusto per il melodramma – inteso qui nella sua accezione etimologica di dramma più musica – che sfocia straziante nel finale, ma soprattutto perché sono gli anni perfetti per il discorso che vuole fare.
Al cuore del racconto c’è lo special televisivo del dicembre ’68, noto come ’68 Comeback Special, in cui esplodono per la prima volta i contrasti tra l’anima artistica di Elvis – che voleva ritornare alle sue “radici nere” e riprendere a fare concerti e a dare il suo corpo in pasto ai fan – e quella imprenditoriale di Parker che voleva confezionarlo come prodotto per famiglie.
La rivoluzione contro la restaurazione: ma Parker nel film è costruito come perfetto emblema del capitale, capace di adattarsi e inglobare ogni possibile sommossa, di vincere sempre, anche quando perde. Da qui si arriva agli anni ’70, all’Elvis sempre più grottesco, ingabbiato nei contratti milionari di Las Vegas, nei costumi, le droghe e gli antidolorifici, il cibo e la continua ricerca di un sé sempre più lontano mentre Parker può finalmente identificarsi con la sua creatura, un tempo luminosa e bellissima e oggi falsa, nascosta dietro maschere e identità alterate, come lui è stato per una vita: quando durante l’ultima esibizione dal vivo, una Unchained Melody di straziante intensità, l’anima dell’artista ha un ultimo guizzo sulla “più grande attrazione da fiera che abbia mai visto”, come lo chiamava Parker. Dall’interpretazione di Butler, il film cambia impercettibilmente al vero Elvis, in un’immagine di repertorio del ’77: chiunque ami la musica, si ritrova in lacrime.
Per tutta la prima parte, al melodramma Luhrmann preferisce un impeto scorsesiano di messinscena e regia, fa del personaggio e della sua musica – adattata e reinterpretata da Elliot Wheeler e Anton Monsted – un continuo fuoco d’artificio che mostra la trasfigurazione mitica di Elvis, indaga sotto traccia gli elementi razziali e sessuali alla base del personaggio senza farne temi da svolgere, ma con le immagini, attraverso i suoni e omaggia l’immaginario di uno dei più grandi performer del XX secolo facendolo proprio, mostrando senza pudore un’idea di cinema come performance incessante, senza equilibrio, sfacciata.
Per chi, come chi scrive, ha amato i musical più o meno espliciti di Romeo + Giulietta, Ballroom e Moulin Rouge, Elvis è un regalo trascinante, che reinventa una figura e la sua eredità; in caso contrario, potete apprezzare le prove viscerali dei protagonisti e poi rifugiarvi nella musica del Re. Quella di sicuro non tradisce.
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