Ho imparato molto presto che senza una canzone, il giorno non ha fine, senza una canzone, un uomo non ha amici, senza una canzone, la strada non ha curve, senza una canzone. Per questo motivo io continuo a cantare una canzone”. E Elvis Presley ha continuato a cantare canzoni fino al giorno della sua morte, il 16 agosto di 45 anni fa. Non importava che fosse diventato grasso, sfatto, con la voce rotta, un fisico malandato ridotto così dall’abuso di farmaci stimolanti e poi quelli per poter dormire dopo essersi eccitato abbastanza da reggere sul palco. Nel suo corpo, anche se una autopsia non venne mai resa ufficiale, c’era una autentica discarica chimica.



Aveva solo 42 anni e a chi gli faceva notare le sue condizioni fisiche, rispondeva ridendo: “Ho 40 anni, come dovrebbe essere un uomo della mia età?”. Già, perché il re del rock’n’roll aveva un fortissimo senso dell’auto ironia. Lo si può vedere nei filmati delle sue straordinarie esibizioni, quando fa il verso a se stesso e ci ride sopra. Anche in quelle condizioni, era rimasto quel ragazzino di campagna cresciuto negli stenti della povertà più assoluta, timoroso di Dio e legato ai genitori, soprattutto la madre, dalla cui morte non si riprese mai più.



Quell’agosto de 1977 Elvis stava per ripartire per una nuova serie di estenuanti concerti in cui dava tutto per il suo pubblico adorante. Come dice Tom Hanks nel bellissimo film Elvis ancora nei cinema, nei panni del colonnello Parker, l’astuto e cinico manager che lo aveva sfruttato fino all’ultimo, “non l’ho ucciso io, ma il suo amore per i suoi fan”.

Già. Per Elvis una vita senza musica e il suo pubblico non era neanche concepibile. I soldi? Aveva comprato una bella casa ai genitori, questo era abbastanza. Le donne? Andavano e venivano, come la bella moglie Priscilla. Ma la musica no. E il suo pubblico neanche, non li avrebbe mai traditi. Erano stati loro a dargli tutto, a permettergli di vivere per sempre l’eccitazione di una vita che era sempre un sabato sera. Aveva liberato una nazione con la sua musica, dal moralismo bigotto e dall’odio razziale, permettendo a bianchi e neri per la prima volta di ballare e cantare insieme. Perché lui, come sognava Sam Phillips, l’uomo che lo scoprì, era quel sogno impossibile: “un bianco che cantava come un nero”.



E se non era più l’uomo bellissimo fasciato di pelle nera che era apparso alla televisione quella sera di Natale del 68, nello spettacolo che lo rilanciò come il più grande di sempre, era sempre Elvis. “Quando ero un ragazzo ero un sognatore. Leggevo i fumetti ed ero l’eroe di quei fumetti. Andavo al cinema ed ero l’eroe dei film. Adesso ogni mio sogno è diventato realtà un milione di volte”. A lui non importava come era diventato: “L’immagine è una cosa, mentre l’uomo è un’altra… è molto difficile vivere dietro ad un’immagine” aveva detto. E a quell’immagine ha pagato il prezzo di una vita interrottasi troppo presto. Ma Elvis non ha mai  in realtà lasciato il palcoscenico. Lui resterà sempre qui. Perché è stato il più grande di tutti. E ci ha liberati.