Dopo averlo minacciato, il Presidente Biden conferma l’embargo statunitense all’importazione di petrolio russo “per non sovvenzionare la guerra di Putin”. Benché la Russia rappresenti circa l’8% dell’import statunitense di petrolio, la decisione di Biden ha spinto, per la prima volta dal 2008, il gallone di benzina sopra i 4 dollari (un dollaro al litro), varcando quella che storicamente viene considerata la soglia di rischio per la rielezione di un Presidente. Ma Biden ha tenuto il punto e ha anche disposto di mettere sul mercato 60 milioni di barili dalle riserve strategiche per stabilizzare i mercati.
Manovra di modesta efficacia. Ormai il barile di Brent viaggia sopra i 130 dollari; un mese fa era a 90 dollari. L’offensiva americana diventerebbe pienamente efficace se si affiancasse anche l’Ue. Per ora l’Europa che importa circa un terzo del suo consumo di petrolio dalla Russia temporeggia. La reazione russa aveva anticipato l’annuncio di oggi. Per bocca del vice primo ministro Alexander Novak la Russia ha minacciato di imporre un embargo analogo sul gas naturale esportato in Europa attraverso il gasdotto Nord Stream 1 che è attualmente riempito alla massima capacità. Novak ha aggiunto però che dal taglio nessuno ci guadagnerebbe. Di sicuro c’è che la Russia perderebbe quegli introiti in euro che finanziano oltre 40% del budget del Cremlino e in parte spuntano le armi delle sanzioni finanziarie applicate dall’Occidente democratico.
Di probabile c’è che il petrolio, le cui quotazioni hanno guadagnato 85% in un anno, in un mercato iper-volatile e teso come quello attuale, potrebbe facilmente schizzare a 300 dollari e più al barile come anche provocatoriamente ipotizzava Novak. Per quanto il suo pronostico sia di parte, vale ricordare che petrolio e gas rimangono, nonostante i proclami di transizione verde, le due fonti principali di copertura della domanda di energia primaria europea con una quota totale del 60%. All’epoca dello shock petrolifero, mezzo secolo fa, la quota era pari al 70%.
Chiaramente è più facile affrancarsi da una commodity che viaggia su petroliere cercando un fornitore alternativo, anche al costo di pagare la materia prima ancora di più, che non dai flussi di gas che arrivano via tubo e che ci legano a doppia mandata con il giacimento di estrazione. Neppure è facile non firmare i rinnovi di contratti di fornitura come suggerisce l’Agenzia Internazionale per l’Energia nel decalogo di azioni per ridurre nel giro di un anno di un terzo la sudditanza dell’Europa ai 140 miliardi di metri cubi di gas annualmente acquistati da Gazprom. La maggior parte dei contratti nazionali si estendono fino al 2035, quindi a meno di non invocare la guerra come causa di forza maggiore sarà un’impresa complessa sganciarsi da Gazprom a breve.
Strutturalmente sarebbe un problema sormontabile, visto che la capacità complessiva di importazione di gas dell’Italia, tra gasdotti dall’Algeria, Siria e Azerbaijan e i tre rigassificatori, ammonta a 84 miliardi di metri cubi. L’Italia ne consuma circa 70, di cui 3 prodotti in casa, il resto importato e 29 miliardi arrivano dalla Russia. La rigidità è piuttosto commerciale visto che il mercato non è automaticamente espandibile. Nonostante le rassicurazioni da Roma e Bruxelles, non è scontato che si trovi disponibilità di fornitori alternativi per volumi aggiuntivi di forniture di gas in tempi così stretti e soprattutto in contemporanea con diversi acquirenti concorrenti. In queste condizioni una maggiore flessibilità dei consumi è condizione quasi scontata, mentre il rischio di blackout non è escluso completamente.
La guerra ha cambiato la prospettiva: dall’energia pulita alla sicurezza energetica puntando sull’autosufficienza. La ricerca della sicurezza dei rifornimenti sarebbe anche un’occasione per allineare gli obiettivi climatici con quelli energetici. Però una lettura in controluce evidenzia quanto siamo ancora dipendenti dai combustibili fossili e per quanto lo saremo ancora. Un’inattesa conferma di questa visione pro-comparto Oil&Gas, arriva dal fondatore della Tesla Elon Musk, il quale riferendosi a questi tempi fuori dall’ordinario riconosce controvoglia che “dobbiamo aumentare subito la produzione di petrolio e gas”. A livello italiano gli effetti dell’approvato aumento di altri 3 miliardi di metri cubi delle estrazioni di gas dai giacimenti nell’Adriatico vedranno la luce solo fra due anni; però intanto nell’immediato il ministro Cingolani presenta il piano che consentirebbe di tagliare della metà le importazioni di gas russo entro primavera inoltrata. E in seguito azzerarle entro due anni e mezzo.
Si parte dall’aumento dell’import di gas naturale liquefatto GNL da altri fornitori in altre zone del mondo. Si stima di riuscire a reperirne abbastanza per coprire circa la metà dell’import russo. Parallelamente si incrementa la capacità nazionale dei terminali di rigassificazione che attualmente lavorano al 60% dell’efficienza. Per dribblare i tempi burocratici di autorizzazione, costruzione e collaudo dell’impianto, il ministro Cingolani annuncia una soluzione ingegnosa: l’attivazione entro metà 2022 di un’unità galleggiante di stoccaggio e rigassificazione offshore. Questo rigassificatore galleggiante, unità da reperire sul mercato internazionale dove ne esistono circa una quarantina, presenta il vantaggio di essere mobile; quindi, può essere posizionato in prossimità delle tubazioni mentre si trasforma in mare il gas da liquido a gassoso. Infine, il ministro tranquillizza, se dovesse, per qualche motivo, essere interrotta completamente la fornitura di gas dalla Russia, le nostre riserve attuali e il piano di contingenza fatto ci darebbero comunque un tempo sufficientemente lungo per arrivare alla stagione buona. Che poi è anche quella degli acquisti per ricostituire le riserve.
Quello che non è affatto tranquillizzante è il prezzo al quale pagheremo la sicurezza energetica. Abbiamo bruciato 10 miliardi in otto mesi per sterilizzare gli aumenti del prezzo del gas sulle bollette delle famiglie e imprese. Con il cambio repentino del mix di fornitura in concorrenza con altri acquirenti internazionali e al livelli di prezzi del gas che oscillano intorno ai 200 euro al MWh, c’è persino da temere che buona parte dei 70 miliardi di euro previsti per la transizione ecologica dal Pnrr finiscano in quel buco nero della nuova geopolitica energetica.
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