Punto di partenza di questa breve riflessione è la sentenza recentemente pronunciata dal Tribunale di S. Maria Capua Vetere che per la prima volta in Italia ha stabilito che l’embrione congelato di una coppia, ottenuto attraverso un processo di procreazione assistita che aveva impegnato entrambi i coniugi, può essere impiantato nella donna, anche contro la volontà dell’ex marito. I due, nel frattempo, si erano separati e mentre la moglie desiderava comunque portare a compimento la sua gravidanza, il marito non intendeva più farsene carico.



L’ordinanza adottata dal Tribunale monocratico è stata poi confermata dal Tribunale in composizione collegiale, dando a questa sentenza nuova forza e rendendola poi difficilmente contestabile. Si tratta di due pronunce destinate a far discutere, perché riconoscono il diritto assoluto della donna ad utilizzare gli embrioni creati con il coniuge e poi congelati, nonostante la separazione sopravvenuta successivamente e la relativa contrarietà dell’ex marito.



Ad un primo esame della sentenza sembra che ci sia un effettivo sbilanciamento nel riconoscimento dei diritti, con uno strapotere del femminile rispetto al maschile. L’embrione è stato concepito con il concorso di entrambi; se l’oocita era di stretta pertinenza materna, non c’è dubbio che lo spermatozoo fosse di esclusiva competenza paterna e senza il concorso di entrambi non ci sarebbe stato l’embrione.

Quindi sotto il profilo dell’appartenenza sembrerebbe giusto considerare entrambi “proprietari” dell’embrione, successivamente congelato con il consenso di entrambi. Se l’embrione appartiene ad entrambi, evidentemente nessuno può disporne a suo uso e capriccio senza il consenso dell’altro. Senza questo reciproco consenso il destino dell’embrione dovrebbe quindi essere quello di restare congelato per sempre.



Un altro diritto che viene evocato, e che in questo caso resterebbe disatteso, è il diritto del bambino a vivere in una famiglia con madre e padre; ad essere educato da entrambi e a godere dell’affetto consapevole e responsabile di entrambi. Reso orfano, prima ancora di nascere, questo diritto nell’embrione in questione sarebbe fortemente compromesso. D’altra parte, si fa ancora notare da alcuni, non esiste il diritto della madre ad avere un figlio; nessun codice contempla un diritto di questo genere, mentre invece sono numerosissime le sentenze che prevedono che un bambino, ogni bambino, abbia diritto ad avere una famiglia, cominciando dalla madre e dal padre.

Ma i giudici del tribunale di Santa Maria Capua Vetere nella loro sentenza hanno fatto riferimento ad un terzo soggetto che, oltre ai due genitori, è profondamente coinvolto in questa vicenda: il concepito, il figlio, che la coppia, accedendo alla procreazione medicalmente assistita (Pma) ha voluto a tal punto da firmare un consenso informato, in cui dichiara la propria intenzione di avere un figlio e di prendersene cura. Si tratta di un consenso che si può sempre ritirare, ma solo fino al concepimento e non dopo, perché una volta che quel bambino esiste non lo si può più cancellare. E il bambino, il figlio, esiste fin dal momento del concepimento. Al padre, che dopo la separazione dalla moglie ha deciso di non volere più neppure quel figlio, i giudici hanno ricordato che adesso quel figlio c’è, a prescindere dal rapporto con l’ex-moglie, e quella concretissima esistenza non può essere messa in discussione.

I punti nodali di una sentenza destinata a fare giurisprudenza sono due. Il primo riguarda l’oggettività dell’esistenza umana dell’embrione, nonostante il suo congelamento, e quindi il rispetto estremo che gli è dovuto, non come oggetto ma come soggetto. Il secondo riguarda la natura del consenso sottoscritto dalla coppia al momento di accedere alla Pma. Quel consenso, che va oltre la firma messa in calce al documento, è reso oggettivo dalla messa in gioco dei loro stessi oociti e spermatozoi e riguarda i due soggetti, uomo e donna, che esprimono il desiderio di avere un figlio e farsene carico. Non prevede l’intervento successivo di una donna diversa dalla madre per portare avanti la gravidanza e nega quindi in radice la possibilità della maternità surrogata. Come per altro prevede la stessa legge 40

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