L’ultimo numero del Mit Technology Review, rivista della rinomata università americana, è intitolato “Welcome to Climate Change”. Già nell’ottobre del 2015 il Mit, uno dei più importanti centri di ricerca nel mondo, aveva pubblicato un piano quinquennale di azione per il cambiamento climatico definito urgente. Il piano era caratterizzato da un approccio universitario interdisciplinare, articolato in cinque pilastri che andavano dalla ricerca accelerata di fonti di energia a basso impatto ambientale alla condivisione dei risultati con la società.



Già allora si affermava che il clima stava cambiando soprattutto a causa dell’attività umana legata all’emissione di CO2 e altri gas serra e si constatava che la concentrazione di carbonio era in continuo aumento. Come veniva affermato, le prove erano schiaccianti. Le conseguenze citate dal Mit erano: “Il riscaldamento climatico produrrà un aumento dei livelli del mare, inondazioni costiere, siccità e cambiamenti dell’intensità e distribuzione delle precipitazioni, acidificazione degli oceani, perdita delle banchise, un incremento degli incendi, un impatto sull’approvvigionamento alimentare e sulla popolazione animale e vegetale. Il mondo già sta cominciando a risentire di questi effetti”. Nonostante le conseguenze devastanti, molta parte dell’opinione pubblica è ancora o apertamente negazionista o indifferente, ritenendo che le previsioni sostenute da alcuni personaggi negli scorsi decenni, non essendosi pienamente verificate, siano una prova dell’inesistenza o dell’esagerazione del problema.



Il cambiamento climatico è al centro del tema energetico e quindi chiaramente vi sono grandi interessi economici in gioco. Secondo alcuni si tratterebbe di un piano contro l’attuale realtà industriale, produttrice in gran parte di queste emissioni, secondo altri di una distrazione dell’opinione pubblica da problemi più rilevanti. Ci troviamo quindi di fronte a un problema che coinvolge molti livelli interrelati di complessità.

Un primo livello riguarda la dimensione globale del problema: quello che fa un paese ha impatto su tutto il mondo. Per questo negli anni si è cercato attraverso diversi accordi di giungere a un modus operandi comune, che ha portato agli accordi climatici di Parigi del 2015 (il più importante riguarda la riduzione della quota di emissione di CO2 per Paese). Con l’arrivo di Trump alla presidenza, gli Stati Uniti hanno annunciato di ritirarsi dagli accordi, ritenuti dannosi allo sviluppo della loro economia, in quanto le misure che dovrebbero adottare metterebbero le loro imprese in condizione di svantaggio competitivo verso altri Paesi (come, per esempio, la Cina, che è anche il primo Paese a livello mondiale in termini di emissione assoluta, mentre a livello pro capite gli Stati Uniti sono il primo Paese).

Un secondo livello è dato dalla misurazione del fenomeno e dalle conclusioni che si traggono. I negazionisti hanno trovato una voce autorevole in R. Lindzen, professore emerito di fisica dell’atmosfera al Mit, uno controcorrente che ha dichiarato: “I modelli climatici computerizzati, sui quali si basa il ‘riscaldamento globale causato dall’uomo’, hanno sostanziali incertezze e sono palesemente inattendibili. La cosa non sorprende, dal momento che il clima è un sistema dinamico non lineare ed accoppiato. È molto complesso”. Quando Lindzen nel 2017 aveva scritto a Trump sostenendo la necessità di uscire dagli accordi di Parigi, ventidue professori del Mit avevano indirizzato una controlettera al presidente, affermando che il cambiamento climatico pone un serio rischio per l’umanità, negando quindi quanto espresso da Lindzen: “..il suo non è un punto di vista condiviso da noi o dalla maggioranza degli scienziati che hanno dedicato la loro vita professionale a studiare la scienza climatica”.

Il terzo livello è dato dallo sviluppo delle energie alternative – sulle quali molto si è puntato – che non hanno ancora dato i risultati che ci si aspettava rispetto alla velocità con la quale avviene sia il cambiamento climatico sia la domanda energetica mondiale. Un chiaro esempio, come riportato da James Temple nel Mit Technology Review, è l’India, che ha pesantemente investito in fonti di energia alternative. “È molto probabile che ci vogliano decenni prima che le energie alternative nella nazione possano rimpiazzare il carbone e così diminuire le emissioni, data la velocità della domanda energetica e la difficoltà nell’integrare fonti energetiche intermittenti come quella solare ed eolica”.

Un quarto livello di complessità è la dimensione relativa all’equità: soltanto le persone che godono di un certo benessere economico – la minoranza rispetto alla popolazione mondiale – possono preoccuparsi del cambiamento climatico. L’industrializzazione, che ha permesso di togliere dalla povertà  gran parte della popolazione, ha come conseguenza le emissioni di CO2. Gli accordi di Parigi prevedono l’impegno di versare cento miliardi di dollari ogni anno ai paesi più poveri per aiutarli a sviluppare fonti di energia meno inquinanti. Secondo alcuni le nazioni più industrializzate, che storicamente sono state quelle a maggiore emissione di CO2, dovrebbero diminuire le emissioni più drasticamente, per aiutare i paesi più poveri che non riescono a decarbonizzare velocemente.

Quando un problema è complesso e la soluzione non è chiara, spesso non lo si affronta come si dovrebbe. Perché? Perché spesso il problema viene minimizzato, lo si mette da parte sperando che scompaia, contando su qualche intervento provvidenziale. Altre volte perché non si ama il messaggio, e allora si uccide il messaggero, togliendogli credibilità: se il messaggero non è credibile, il messaggio che ci porta non ha alcun valore. Altre volte ancora perché si genera una paralisi indotta da infinite analisi e dettagli che portano confusione. Si possono accettare o tollerare che si voglia questi meccanismi, quando i problemi non hanno conseguenze pesanti come invece il cambiamento climatico (potenzialmente) ha. La questione allora diventa: come si prende una decisione quando vi è incertezza? Maggiore è l’incertezza, maggiore è la possibilità di un errore. Se siamo destinati a commettere comunque un errore, qual è l’errore che possiamo meglio tollerare? Dipende dalle conseguenze dell’errore; in altri termini, se in effetti come sostengono il Mit e gran parte della comunità scientifica le conseguenze sono irreversibili, allora è meglio avere diffuso allarme ma essersi messi in moto, piuttosto che aver fatto affidamento sull’ingenuità umana per la soluzione di un problema che, ancora oggi, secondo molti non è poi così grave.

Vi è un tempo per osservare e raccogliere le evidenze e vi è un tempo per agire. Il presidente del Mit ha annunciato sei convegni sul cambiamento climatico, che si terranno a partire dall’ottobre 2019 fino al giugno 2020.  L’ultimo convegno, la cui data coincide con il cinquantesimo anniversario della giornata della Terra, si intitola: “Perché stiamo aspettando?”. La complessità del problema e gli interessi economici in gioco fanno sì che questo tema tenda, se non a cadere periodicamente nel dimenticatoio, perlomeno a procedere con lentezza.

Papa Francesco con la sua enciclica del 2015 e i suoi recenti interventi ce lo ricorda: “auspico un impegno più deciso da parte degli Stati a rafforzare la collaborazione nel contrastare con urgenza il preoccupante fenomeno del riscaldamento globale”. Greta Thunberg, a sedici anni, è riuscita a focalizzare nuovamente – nel bene per alcuni e nel male per altri – l’attenzione su questo tema. Per questo li ringraziamo.