Dal 1998 il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc) è l’organo dell’Onu incaricato di fornire informazioni scientifiche sui cambiamenti climatici alle amministrazioni degli attuali 195 Stati membri. L’Ipcc non è un ente di ricerca sui cambiamenti climatici, ricerca che invece viene portata avanti in autonomia da università ed istituti di ricerca in giro per il modo. Periodicamente, ogni 5-7 anni, i rappresentati governativi dell’Ipcc eleggono una trentina di esperti di fama internazionale sulle tematiche legate ai cambiamenti climatici, affinché coordinino una task force (alla quale cooperano qualche migliaio di esperti nel mondo, su base volontaria e senza retribuzione da parte dell’Ipcc) con il compito di effettuare una sintesi sulle cause dei cambiamenti climatici, gli impatti ed rischi futuri che ne possono derivare, e come strategie di adattamento e mitigazione possano ridurre questi rischi. 



Le conclusioni, basate sull’analisi di migliaia di pubblicazioni scientifiche, sono raccolte in voluminose e dettagliate pubblicazioni, sottoposte ad un rigoroso e trasparente processo di revisione, ed ulteriormente sintetizzate. In particolare la versione finale del documento di sintesi per i decisori politici, di una trentina di pagine, viene approvata riga per riga dai rappresentanti dei 195 Stati membri. 



Citando il documento di sintesi per i decisori politici del quinto rapporto di valutazione dell’Ipcc (consultabile anche in italiano): “Il riscaldamento del sistema climatico è inequivocabile e, a partire dagli anni 50, molti dei cambiamenti osservati sono senza precedenti su scale temporali che variano da decenni a millenni. L’atmosfera e gli oceani si sono riscaldati, le quantità di neve e ghiaccio si sono ridotte, il livello del mare si è alzato, e le concentrazioni di gas serra sono aumentate”.

Nei rapporti dell’Ipcc possiamo leggere che le concentrazioni di anidride carbonica (CO2) ed altri gas serra in atmosfera sono tutte aumentate dal 1750 per effetto delle attività umane, in prima battuta in seguito all’uso di combustibili fossili, e in secondo luogo per effetto di cambiamenti nell’uso del suolo, inclusa la deforestazione. Le concentrazioni di CO2 misurate in atmosfera hanno recentemente superato le 400 parti per milione (ppm), valori mai raggiunti almeno negli ultimi 800mila anni, durante i quali le concentrazioni di CO2 oscillavano tra 180 e 300 ppm. Sappiamo questo grazie alle misure effettuate sulle bolle d’aria intrappolate nei ghiacci antartici. 



È possibile stimare la quantità totale (cumulativa) di CO2 immessa in atmosfera dalle attività antropiche a partire dal 1750. Di tutte le emissioni di CO2 si stima che poco più del 40% sia effettivamente rimasto in atmosfera (causando un aumento delle concentrazioni da 280 a 400 ppm), mentre un altro 30% è stato assorbito dagli oceani, causandone l’acidificazione. La frazione rimanente è stata assorbita dagli ecosistemi naturali della terra (principalmente foreste), compensando solo in parte le emissioni di CO2 legate al cambiamento di uso dei suoli nell’arco dell’intero periodo considerato. Il bilancio di emissioni e ripartizione tra le varie componenti (atmosfera, oceano, ecosistemi terrestri) è aggiornato di anno in anno.

Quel 40% di CO2 che è rimasta in atmosfera, assieme agli altri gas serra, è responsabile dell’aumento dell’effetto serra. L’effetto serra è di per sé un fenomeno naturale legato alla capacità di alcuni gas di “intrappolare” una parte del calore emesso dalla Terra, causando un aumento della temperatura. Sulla base di leggi fisiche, ci aspettiamo che ad un aumento della concentrazione di gas serra segua un aumento delle temperature medie globali. Effettivamente dal 1850 ad oggi le temperature medie globali sono aumentate di 1∞C.  

La variazione delle temperature medie globali è un indicatore complessivo dello stato del pianeta. Un aumento di 1∞C negli ultimi 170 anni non significa che le temperature registrate siano aumentate ovunque di un grado, o allo stesso ritmo, o che siano aumentate costantemente da un anno al successivo. È però degno di nota che, in particolare dal 1970, ciascuna decade sia stata significativamente più calda della precedente. O che gli ultimi cinque anni siano stati i più caldi dal 1850. O ancora che a livello globale il numero di giorni e notti freddi sia diminuito, mentre quello di giorni e notti caldi sia aumentato.

Così come solo una frazione della CO2 emessa dalle attività umane si è accumulatala in atmosfera, allo stesso modo solo una piccola parte dell’energia associata all’aumento dell’effetto serra è rimasta in atmosfera (causando l’aumento di 1∞C). La maggior parte di questo eccesso di energia (90%) è stata invece assorbita degli oceani, che a loro volta si sono scaldati. Gli effetti sono l’espansione termica delle masse d’acqua e il riscaldamento per contatto dei ghiacciai che sfociano in mare, che porta ad un’accelerazione della loro fusione. Entrambi questi effetti comportano un aumento del livello medio degli oceani. L’osservazione che un ghiacciaio di questo tipo in Groenlandia (Jakobshavn Isbrae) abbia recentemente rallentato la sua velocità di fusione in risposta ad una diminuzione locale delle temperature delle acque superficiali, conferma il meccanismo sopra descritto. In modo analogo al riscaldamento dell’atmosfera, anche il riscaldamento della superficie degli oceani non segue un andamento omogeneo nello spazio e nel tempo, ma nel suo insieme è inequivocabile.  

Fortunatamente a livello globale il numero di morti legate ad estremi climatici è molto diminuito negli ultimi decenni. Questo dato è da leggere assieme alla contemporanea diminuzione della povertà estrema, e mostra come siano i più vulnerabili a pagare le conseguenze più drammatiche. D’altro canto i dati mostrano come negli Usa o in altri paesi sviluppati, al di là dei costi sempre presenti in termini di vite umane, i danni economici associabili ai cambiamenti climatici siano in costante aumento.