C’è un allarme nel mondo del lavoro che interessa soprattutto i giovani. Davanti a proposte di impiego, molti rifiutano l’offerta. Si tratta soprattutto dei lavori stagionali, quelli estivi nei luoghi di vacanza. Secondo Simone Battistoni, presidente per l’Emilia Romagna del Sindacato Italiano Balneari, «è cambiata rispetto ai decenni scorsi la mentalità, i genitori non spingono più i figli ad accettare impieghi considerati umili e gli stessi giovani non gradiscono lavori “scomodi” perché gli impediscono i weekend, le serate con gli amici». A rendere ancor più complicata la situazione c’è poi la pletora di sussidi, che garantiscono per chi vive in famiglia una fonte di reddito spendibile nel tempo libero.



A tutto questo, ci ha detto in questa intervista Carlo Buttaroni, fondatore e presidente di Tecnè, «si aggiunge il grande problema dei Neet, i giovani che non studiano e non cercano lavoro. Siamo ai primi posti in Europa in questa classifica a fronte di un tasso di occupazione medio fra i più bassi». Si tratta, ci ha detto ancora, di un problema complesso, «che non è giusto affrontare a forza di slogan superficiali, del tipo “i giovani non hanno voglia di lavorare”».



La pandemia prima e la crisi generata dalla guerra in Ucraina, secondo molti dati e analisi, sta creando un panorama drammatico per quanto riguarda il mondo del lavoro. Sarà sempre più difficile trovarne uno. Come si spiega, secondo lei, questa disaffezione giovanile per il lavoro?

Il quadro è pessimo. Però sul tema che i giovani non vogliano andare a lavorare mi sembra si ragioni un po’ troppo a slogan e non si entri invece nel problema reale.

Ci dica.

Intanto vale la pena soffermarci su qualche dato. Tra il 2008 e il 2018, cioè prima della pandemia, si sono trasferiti all’estero 550mila italiani, di cui 250mila giovani. Attualmente nella media Ocse i laureati italiani che lavorano in Italia sono il 68%mentre in Europa si arriva all’85%.



Come interpreta questi dati?

Non è tutto. Nel 2019 poco prima della pandemia sono andati all’estero 50mila persone tra i 15 e i 34 anni. Anche in questo caso il numero dei laureati è molto alto ed è cresciuto il numero delle donne che si trasferiscono all’estero.

Sì, ma sappiamo bene che chi va all’estero trova lavori molto meglio retribuiti di quelli che si trovano in Italia, è così?

Certo. Trovano lavori meglio pagati sia i laureati, che hanno anche la possibilità di trovare un lavoro corrispondente a quello che hanno studiato, ma anche i non laureati. Chi va a Londra a fare il cameriere mediamente trova un lavoro pagato un 30% in più o anche il doppio di quanto pagato in Italia. Per questo dico che il problema è complesso. Se è vero che c’è una quota elevata di giovani Neet, che non studiano e non cercano lavoro per scelta, accanto c’è un problema ugualmente serio: quello di coloro che studiano ma non trovano un lavoro adeguato al percorso formativo fatto. Se ci si prepara e non si trova un lavoro adeguato, perde senso la laurea stessa, che è un costo per la famiglia e per lo Stato. Chi investe su se stesso, se sa che difficilmente troverà un lavoro che non gli permetterà di riguadagnare quanto ha investito?

È vero, ma proprio perché abbiamo detto che siamo entrati in un periodo di enorme contrazione e di difficoltà, se guardiamo alla nostra storia, quando i nostri genitori nel dopoguerra si sono rimboccati le maniche accettando qualunque tipo di lavoro, non pensa che oggi abbia preso piede una mentalità rinunciataria, tendente alla pigrizia?

È vero quel che dice lei, ma l’Italia del boom economico era un paese in rapida crescita, dove insieme al fattore economico aumentava anche la fiducia nel poter migliorare la propria condizione. Il primo lavoro che si trovava spesso rimaneva lo stesso per tutta la vita. Oggi difficilmente un lavoro dura più di sei mesi o un anno, e non costruisce quegli skills che nell’Italia del dopoguerra diventavano l’architrave per la propria carriera. Oltre tutto la mobilità sociale era molto più dinamica di oggi. Adesso se si entra in un posto, difficilmente si riuscirà a fare carriera nello stesso posto.

La pandemia ha inciso in qualche modo rispetto ai dati che ci ha dato? C’è un peggioramento?

La pandemia ha inciso su due fronti, il primo dei quali è psicologico. Due anni di lockdown hanno ridotto le relazioni sociali e hanno peggiorato l’attitudine psico-sociale dei giovani. Due anni di riduzione delle relazioni hanno ridotto la percezione del poter costruire delle strade professionali, anche perché oggi non esistono più le grandi reti: ad esempio, chi va ancora a cercare lavoro all’ufficio di collocamento? Si cerca nelle piccole reti sociali.

L’altro aspetto?

Le imprese hanno visto ridotti a zero gli utili, quelli che vengono investiti per assumere nuove persone e per formarle. Adesso ci sono la guerra e l’incertezza, tanto che è aumentata nella gente la propensione al risparmio. Si era ridotta quando si vedeva una via d’uscita alla pandemia, adesso si è di nuovo ridotta. Questo vale anche per le imprese: chi investe oggi se non sa se domani potrà riaprire?

Come rilanciare la voglia e le opportunità di lavoro?

Con un cambiamento forte del mercato di lavoro, che va ripensato profondamente. Vanno migliorate le condizioni economiche dei giovani, va fatta crescere la formazione professionale. Le imprese italiane sono quelle che hanno meno margine operativo lordo dopo le tasse. Come fanno ad assumere un laureato con uno stipendio più alto? E’ tecnicamente impossibile. Inoltre spesso si esce dall’università troppo tardi per quanto viene richiesto dal mercato del lavoro e si esce anche senza possedere conoscenze specifiche.

(Paolo Vites)

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