Caro direttore,
il premier Giuseppe Conte ha scelto il segretario di Stato della Santa Sede, cardinale Pietro Parolin, come discussant sul futuro delle politiche del governo italiano sul fronte migratorio. La presentazione del volume Essere mediterranei di padre Antonio Spadaro – presso la sede di Civiltà Cattolica – ha offerto ieri al capo del governo italiano l’opportunità di un primo update dopo lo sblocco del calendario politico nazionale segnato dal doppio voto regionale di domenica scorsa.
Al Segretario di Stato di Papa Francesco che ha insistito sulla “cittadinanza come parola chiave del processo di integrazione di coloro che sbarcano” e sulla necessità che “il Mediterraneo sia un luogo di incontro e di speranza per tutti i popoli, nessuno escluso”, Conte ha risposto con un intervento di ampio respiro.
Al suo centro è stata posta la crisi libica e il ruolo dell’Italia dopo la recente Conferenza di Berlino per la de–escalation militare a Tripoli. Il fenomeno migratorio verso le coste italiane è stato quindi ricollocato da Conte nella nuova cornice politico–diplomatica, emersa con forza nelle ultime settimane attorno alle rotte dei barconi. Il premier ha ribadito la necessità di un “impegno europeo coeso”, laddove soluzioni “nazionali o nazionalistiche” appaiono impraticabili e perdenti. Conte ha citato l’operazione “Mare Nostrum”, il passato recente di un intervento strutturale delle forze aeronavali italiane. Ha confermato l’attenzione dell’Italia “a chi ha diritto alla protezione internazionale e all’asilo” e ha detto di essere fiducioso sulla possibilità di governare i flussi “salvando vite umane” pur senza trascurare il contrasto alle “illegalità”. Ha espresso un cauto ottimismo sullo sviluppo del recente “protocollo di Malta” a livello Ue. Ha ringraziato l’impegno di molte realtà della società civile – anche d’ispirazione religiosa – per tenere aperti canali umanitari.
Nel febbraio 2020 il dossier migranti rimane in ogni caso spinoso e divisivo nel Paese e nella stessa maggioranza di governo. A cinque mesi dal suo insediamento, il Conte 2 non ha ancora cancellato o riformato i decreti sicurezza: nonostante l’impegno sia stato centrale e simbolico nel rovesciamento di maggioranza e nel cambio di esecutivo. Il vertice di settembre a Malta, al di là delle dichiarazioni di principio di Ue, Francia e Germania, non ha finora partorito un meccanismo funzionante di solidarietà europea nell’accoglienza ed è stato oscurato dalla complicata escalation geopolitica in Libia. Quest’ultima ha vanificato le premesse dei precedenti “accordi” fra Italia e Libia e fatto riemergere conflittualità di interessi fra Francia e Italia.
Nel frattempo la linea di parziale disapplicazione di fatto del decreto sicurezza–bis contro le Ong, adottata dal nuovo ministro tecnico dell’Interno Luciana Lamorgese, sta mostrando i suoi limiti: operativi e politici. Con l’inizio dell’anno i barconi hanno preso a riaffollare il canale di Sicilia e le navi delle Ong – cariche di centinaia di migranti – tornano a chiedere con urgenza approdi in Italia. Non ricevendo talora dal governo Conte 2 risposte realmente più pronte di quelle offerte dal Conte 1. E’ in questa cornice che il Parlamento si accinge a votare la processabilità dell’ex vicepremier Matteo Salvini per ipotesi di reato di sequestro di persona nel caso della nave Gregoretti, su istanza del Tribunale dei ministri di Catania (e proprio ieri a Salvini è stato notificato un nuovo avviso di indagine dalla Procura di Palermo).
Non sorprende, quindi, che Conte abbia optato per un contesto “extraterritoriale” per tornare ad esprimersi su una questione di estrema delicatezza per la “fase 2” del suo secondo governo. Si è peraltro dovuto soffermare su principi, attese ed auspici più che su decisioni in preparazione a Palazzo Chigi.
Due Italie continuano intanto a confrontarsi sul dossier-migranti. Entrambe rimangono a rischio permanente di irrigidimento ideologico o di periodica strumentalizzazione elettorale delle proprie premesse socioculturali, valoriali, non di rado di fede. Nell’escalation della contrapposizione di parte, ambedue queste Italie si ritrovano a duellare spesso con il realismo politico. Senza riuscire a rispondere, in particolare, a una domanda: come la gestione dei flussi migratori dall’Africa può rientrare in un’azione strategica di governo in un Paese come l’Italia?
Il “fronte dell’accoglienza” è certamente mosso da una solida cultura umanitaria e dalla convinzione di interpretare la migliore identità italiana (europea). Postula, comunque, che l’Italia debba accogliere “tutti e subito” coloro che si ritrovano su un barcone nel canale di Sicilia. Poco importa quanti sono o saranno; se sono merce del traffico di esseri umani; se l’Italia è obbligata ad accogliere da un’Europa che invece evita o si rifiuta di farlo; se dietro le flottiglie di barconi e navi Ong si agitano piccole o grandi manovre geopolitiche. Poco importano le compatibilità finanziarie (in Italia sempre critiche all’occhio della Ue) o le ricadute sugli equilibri sociali dei diversi territori italiani. E poco sembra importare, spesso, anche il destino dei migranti stessi, una volta assicurato loro di poter metter piede in Italia. Poco sembrano importare, al di là degli intenti, le reali opportunità offerte ai fini di un’integrazione stabile e della protezione dal pericolo che i viaggi della speranza abbiano per approdo ultimo un marciapiede piuttosto che la criminalità.
Il “fronte dell’accoglienza” ha trovato via via cemento supplementare nella volontà–esigenza di opporsi tout court a un secondo fronte, a sua volta sempre più radicalizzato: quello dei “porti chiusi”. Quest’ultimo parla – in parte – linguaggi duri, dai quali filtrano spesso paure a sfondo razziale e anche qualche fondamentalismo a sfondo religioso, legato a presunte minacce all’identità nazionale o continentale. Dietro la superficie di questo fronte, vi sono però pochi dubbi che stia – più o meno convinta e compatta – una porzione vasta di un Paese sotto oggettiva pressione socio–economica.
È l’Italia che deve ricorrere al reddito di cittadinanza ma anche quella soggetta a una pressione fiscale ormai oltre la linea rossa, mentre l’Azienda–Paese non riesce a riscuotersi da una lunga stagnazione. È un’Italia che – mentre centinaia di migliaia di migranti “accolti” vagano per le vie di tutti gli 8mila comuni della penisola – deve tuttora fare i conti con il 10% di disoccupazione, molto concentrata nelle fasce d’età più giovani. È un pezzo d’Italia sempre più deluso e scettico nei confronti della Ue e dei suoi Paesi leader. Sono italiani che nutrono più di un dubbio anche su quei magistrati che, ad esempio, lasciano tornare subito libera in Germania la “capitana Carola” dopo lo speronamento di Lampedusa e mettono invece sotto indagine un ministro dell’Interno nell’esercizio istituzionale delle sue funzioni di governo.
È peraltro evidente la grave miopia di questo fronte: anzitutto verso il drammatico declino demografico di tutti i Paesi europei, cui un’immigrazione ben gestita sembra proporsi come rimedio principale. Non da ultimo: al di là dei sussulti anti–globalizzatori, un Paese come l’Italia non può in alcun modo privilegiare l’isolamento su un pianeta sempre più connesso e interdipendente. L’integrazione planetaria non è solo quella indotta dalla tecnologia o dalla finanza, ma è anche quella portata dal migrante proveniente dall’Africa: spesso più evoluta di quella tuttora oggetto di “narrazioni” datate.
Il premier di un Paese come l’Italia non può non sentire sulle sue spalle la responsabilità primaria di ricomporre la frattura profonda aperta nel Paese dall’emergenza migranti. Ai fini di una nuova sintesi politica di reale impatto, Conte ha d’altronde nelle sue mani le leve di un capo dell’esecutivo di un paese del G7, fondatore della Ue. Ieri sera ha certamente confermato il suo impegno.
Nel luglio scorso – in giorni molto intensi sia sul fronte migranti, sia per gli sviluppi politici in Italia e in Europa – il Sussidiario ha avanzato in un suo editoriale una proposta: quella di un grande piano nazionale che possa associare il contrasto alla disoccupazione giovanile interna e l’integrazione dei (giovani) migranti dall’Africa.
Il governo italiano farebbe bene a investire tutti i miliardi (o le decine di miliardi) necessari per dare un futuro a tutti i giovani che vagano inattivi per le vie del Paese. Potrebbe riorientare una parte delle risorse al momento destinate al reddito di cittadinanza, moltiplicarle e pretendere (con ragioni fortissime) che la Ue garantisse un’ulteriore moltiplicazione (anche attingendo al Piano Verde annunciato per mille miliardi in dieci anni). Dovrebbe offrire a giovani disoccupati e migranti un assegno mensile a termine a fronte di un loro impegno di studio e di formazione professionale. Dovrebbe ripensare l’uso dell’infrastruttura scolastica pubblica e sussidiaria, con una riorganizzazione innovativa degli insegnanti in servizio e l’arruolamento di nuovi operatori dell’education. Dovrebbe funzionare da cabina di regia per un Terzo Settore fortunatamente forte, diffuso e radicato lungo l’intera pensiola. Dovrebbe infine coinvolgere attivamente il sistema delle imprese con gli strumenti della politica industriale e del lavoro. Dovrebbe puntare soprattutto delle piccole e medie aziende italiane che attorno ai valori costituzionali della libera iniziativa e del lavoro hanno sempre creato crescita complessiva per il sistema–Paese. Un progresso realmente sostenibile, fatto di inclusione interna non meno che di competitività esterna.