È il quinto anno consecutivo che la Somalia viene colpita dalla siccità, un flagello che, secondo l’Agenzia umanitaria dell’Onu, sta portando il paese alla peggiore carestia di sempre. “Quello di oggi è l’ultimo avvertimento”, ha detto Martin Griffiths, capo dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari. Il tutto in un quadro di destabilizzazione politica e sociale che dura da decenni, in un paese devastato da guerre civili e dal terrorismo jihadista. “Quello che le Nazioni Unite lanciano è un allarme importante” ci ha detto Marco Di Liddo, responsabile dell’Area Geopolitica e analista responsabile del Desk Africa e del Desk Russia e Balcani del Cesi (Centro Studi Internazionali), “perché pone l’accento su conflitti e instabilità climatica, un dossier che è ancora in fase ‘adolescenziale’, ma che secondo l’Onu la comunità internazionale deve cominciare a trattare in maniera adulta”.
Conosciamo la tragica situazione di quello che molti analisti hanno definito un Paese fallito: questo allarme delle Nazioni Unite sulla Somalia che valenza ha? Cadrà ancora una volta nel vuoto?
L’allarme lanciato dall’Onu serve a sensibilizzare quanto più possibile i decisori internazionali, in un momento in cui la maggior parte è rivolta agli impatti del conflitto in Ucraina. Il messaggio è quello di ricordare alla comunità internazionale che esistono al mondo tantissimi altri focolai di crisi non meno importanti di quello.
Anche prima della guerra in Ucraina la situazione in Somalia era grave, però sembra non si sia fatto molto, non è così?
Noi diamo per scontato che quel Paese sia sempre in quelle condizioni e questo è pericolosissimo. In secondo luogo, l’avvertimento dell’Onu è rivolto a tutta la regione del Corno d’Africa, che è pericolante, basti pensare al conflitto nel Tigray, che nelle ultime settimane ha conosciuto una nuova escalation, o alle incertezze elettorali in Kenya, un Paese che non sta attraversando una fase tranquilla. Il punto più rilevante è porre l’accento sul collegamento tra conflitti e instabilità climatica: questo è un punto molto importante. Parliamo di un dossier che è ancora non abbastanza diffuso a livello politico, siamo ancora in una fase, direi “adolescenziale”. L’obiettivo dell’Onu è far sì che questa pericolosa connessione passi dallo stato adolescenziale a quello tale per cui venga trattato a livello di agenda politica. Si comincia dalla Somalia, sperando si arrivi poi a passare alla questione dell’acqua in Medio Oriente o a quella del Nilo.
Un Piano di risposta umanitaria a cura dell’Unione Europea è stato varato nel 2021, ma pare finanziato solo al 70%. Le risulta?
Dal punto di vista economico viviamo a livello globale un momento di grande preoccupazione. C’è una inflazione galoppante, subiamo gli scossoni al mercato energetico, scattano nuovi lockdown in Cina, assistiamo all’incremento dei costi dei beni alimentari. In questo momento i Paesi sono impegnati a destinare risorse per mitigare questi fattori nel loro mercato interno. Questo può spingere a una maggior prudenza nell’erogazione di fondi all’estero. Il che è anche legittimo, non dobbiamo dimenticare, per quanto possa sembrare egoistico, che le priorità dei governi vanno prima verso i propri cittadini.
Però situazioni di crisi come quella somala portano a ondate migratorie che poi ci interessano direttamente, non crede?
Assolutamente sì. È uno dei cosiddetti push factor che spinge la gente a lasciare il proprio Paese per andare in un altro. Non dimentichiamo però che oltre il 70% della migrazione in Africa è intra-continentale, non extra-africana. Quello che arriva da noi è la punta di un iceberg, in contesti in cui i Paesi di accoglienza hanno enormi difficoltà nel gestire emergenze umanitarie, avendo già loro problemi politici ed economici enormi.
In Somalia c’è anche la presenza del terrorismo jihadista, una presenza ormai radicata. Forse la paura che gli aiuti cadano in mani sbagliate fa sì che i Paesi occidentali ne riducano l’invio?
Sì, questo è un rischio da non sottovalutare, ma non è il rischio principale. In Somalia c’è una lunga tradizione di attacchi ai convogli umanitari, l’ultimo si è verificato appena una settimana fa. E va detto che al Shabaab è uno dei gruppi jihadisti più sui generis.
In che senso?
È quello che vanta il maggior collegamento con il tessuto sociale per via dei clan che dividono il Paese. In molti casi intercettano quei carichi e li redistribuiscono alla popolazione locale, arrogandosi così il merito dell’aiuto umanitario. In altri casi impongono loro i canali di distribuzione alle organizzazioni umanitarie, ponendo condizioni. Non è sempre una presenza esplicita, ma implicita, con un modus operandi che ricorda le organizzazioni criminali.
(Paolo Vites)
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