Trovo fondamentale che si cominci a riflettere seriamente su quanto sta accadendo, pur consapevoli che ci vorrebbe una certa distanza storica per favorire una buona lettura critica. Tuttavia, non abbiamo il tempo di attendere la “nottola di Minerva” di hegeliana memoria: il suo volo notturno rischierebbe di non avere più nulla da osservare. Fuor di metafora, il virus è un potente acceleratore di processi storici, sociali ed economici, un po’ come se una forte esplosione mobilitasse la materia a velocità prossime a quella della luce, causando nuove esplosioni.
Da questo punto di vista, il dibattito politico europeo sembra surreale, come se nel bel mezzo di un incendio che sta devastando il Paese, uno si preoccupasse dei tulipani piantati nel vaso in terrazzo. Abbiamo visto le banche centrali attuare misure eccezionali, anche la Bce, nonostante gli errori di comunicazione iniziali. È, però, importante, focalizzare la differenza che c’è tra altri istituti centrali e la Bce, che non può intervenire, diciamo, direttamente a sostegno di famiglie e imprese; per far ciò, occorrerebbero modifiche statutarie e regolamentari da tempo discusse, ma senza alcuna volontà politica.
Negli Stati Uniti, ad esempio, oltre ad ampliare il programma di acquisto titoli di 700 miliardi di dollari, la Fed ha introdotto agevolazioni per sostenere il credito a famiglie e imprese e offrire finanziamenti potenziali fino a 300 miliardi di dollari. Anche la Bank of England, oltre al taglio dei tassi per un totale di 65 punti base (ora allo 0,1%) e all’incremento del programma di acquisto titoli (governativi e corporate) per un totale di 645 miliardi di sterline, ha varato programmi di sostegno all’erogazione di credito alle Pmi e di acquisto diretto di commercial paper, per soddisfare le esigenze di finanziamento delle imprese. La Bce può “solo” potenziare il programma di acquisto titoli, cosa, del resto, di fondamentale importanza che ha fatto con l’avvio del Pandemic emergency purchase programme (Pepp), eliminando i consueti limiti all’acquisto di titoli di stato e sovranazionali, per reagire in modo proporzionato alla circostanza; ciò ha avuto un impatto immediato e positivo sui mercati.
Inoltre, negli Stati Uniti è stato raggiunto un accordo su misure fiscali eccezionali del valore di 2000 miliardi di dollari, una cifra maggiore del Pil del nostro Paese, per dare un’idea. Le nuove richieste di sussidio occupazionale hanno superato i 3 milioni: la situazione è di gravità inaudita, se si pensa che il record precedente, raggiunto nel 1982, è di circa 700 mila domande! Il dato segnala il forte crollo del mercato del lavoro statunitense, con una significativa crescita del tasso di disoccupazione (visibile già tra un mese), che, ovviamente, sarà uno tsunami di portata globale.
Venendo all’Europa, dicevo, il dibattito sembra concentrarsi sulle due tradizionali visioni, già emerse durante la crisi del 2008. La prima, che incontra un timido consenso anche dei Paesi del nord, è rappresentata dalle Enhanced Conditions Credit Lines (Eccl), ossia linee di credito a condizioni rafforzate erogate dal Mes, che potrebbero mobilitare risorse intorno al 2% del Pil del Paese istante (per noi circa 40 miliardi di euro), sottoposte a una serie di condizioni, legate -parrebbe -, da una parte, all’utilizzo delle risorse specificamente per i costi sanitari ed economici dell’epidemia, dall’altra a garantire un percorso di risanamento della finanza pubblica.
Una seconda visione è quella degli eurobond (o “coronabond”), ossia emissioni obbligazionarie Ue – sebbene non sia chiaro quale sia il soggetto emittente – garantite in solido dai Paesi dell’Unione. È un’ipotesi fortemente osteggiata dal “blocco nordico” rigorista, che, persuaso della radicale inerzia economica e politica, non ne vuole sapere di ogni genere di mutualizzazione del debito (“un dibattito fantasma”, lo ha definito il ministro agli Affari economici tedesco, Peter Altmaier).
La tragica miopia di entrambe le posizioni viene accusata dal recente intervento sul Financial Times dell’ex Presidente della Bce, Mario Draghi, che, guardando in faccia alla realtà, ha definito la pandemia come “una tragedia umana di proporzioni potenzialmente bibliche”, paragonandone gli effetti a quelli tipici delle guerre (“il precedente più rilevante”), invocando potenti immissioni di denaro da parte di Stati e istituti centrali: “È chiaro – scrive Draghi – che la risposta [alla pandemia] deve comportare un notevole incremento del debito pubblico. La perdita reddituale sostenuta dal settore privato deve essere assorbita, in tutto in parte, dal bilancio pubblico. Livelli di debito pubblico assai più elevati diventeranno una caratteristica permanente delle nostre economie e saranno accompagnate dalla cancellazione del debito privato”.
Per far fronte alle ingenti esigenze di liquidità per proteggere i popoli dalla malattia e dalla perdita dell’occupazione ed evitare un vertiginoso depauperamento globale non saranno più sufficienti le tradizionali manovre finanziarie e politiche di bilancio che abbiamo visto finora, neppure, in fondo, quelle da lui stesso pensate e attivate quando era al timone della Bce. Questo perché lo shock che stiamo affrontando “non è ciclico”, scrive ancora, e “la perdita economica non è soltanto di coloro che ne soffrono […]. Il costo di ogni esitazione può essere irreversibile”.
Diversamente dal 2008 – l’antecedente più prossimo a noi – questa crisi non è nata da un’economia compromessa o malata, che si può sempre affrontare con le proprie forze più o meno stanche; è stata generata da un fattore esogeno, un virus, che attacca la salute, il corpo, le energie: se si spengono definitivamente, non potranno più lavorare.
Ecco, forse questo è – detto po’ cinicamente – il merito del virus: aver riportato al centro il soggetto dell’economia e di tutto il resto. L’uomo.