Anche dopo aver visto la seconda parte della quarta stagione di Emily in Paris la domanda rimane sempre la stessa: cos’è che rende un prodotto privo di originalità un successo planetario? O se volete, usando una formulazione ancora più aggressiva: possibile che l’uso così sfacciato di tutti, ma proprio tutti, i cliché disponibili su Parigi – e purtroppo adesso, anche su Roma – renda la patinata serie tv americana un prodotto così gradito ai sempre difficili palati dei “consumatori” di Netflix?



Premesso che abbiamo sempre considerato la visione di Emily in Paris un piccolo obolo alla completezza della disamina di quello che oggi è l’offerta reale dal mercato, ammetto che vi sono stati momenti in cui ho cercato di capirne il contenuto sottostante, il messaggio, e di accettare l’idea – io così estraneo e lontano dal target di riferimento – che tutto sommato l’operazione avesse un senso, per di più riuscita proprio in virtù di una rilettura – certamente non critica ma a volte ironica – di quelle che sono diventate le grandi città europee, sconvolte dal turismo di massa causato dai voli low-cost e dall’esplosione della moda dei B&B.



Ma purtroppo le cose non stanno così. Emily in Paris rappresenta tutto quello che di scontato gli americani pensano dell’Europa, e allo stesso tempo, quello che di sbagliato gli europei pensano di una giovane donna americana: decisamente svampitella, sostanzialmente ignorante, magra oltre ogni immaginazione, e quindi poco elegante, con occhi giganteschi pronti a sgranarsi davanti a uno scorcio di un panorama mozzafiato o ai pettorali di un giovanotto indigeno (chef o imprenditore di successo, poco cambia).

La quarta stagione scorre veloce tra eventi, idee di comunicazione e improbabili marchi da promuovere, mentre Emily deve fare i conti con le sue delusioni amorose. Ma se il “fronte” francese lascia a desiderare ecco comparire dal nulla, su una pista di sci giusto in tempo a salvarle la vita, un giovanotto italiano di bell’aspetto e dai modi gentili. Ecco aperto il “fronte” italiano con relativa missione a Roma. Il viaggio nella città eterna nasce come una vacanza (“romana” appunto, e vi basta a tal proposito sapere che il giro turistico in vespa è compreso), ma finisce come una ghiotta occasione di lavoro per l’agenzia di comunicazione per cui ora Emily lavora.



Così nel cast, fino a oggi composto da attori americani e francesi, con in testa la coppia affiatata composta dalla giovanissima Lily Collins (sempre più simile e inspirata al mito di Audrey Hepburn) e dall’affascinante ma meno giovane Philippine Leroy-Beaulieu, fanno la comparsa due attori italiani, Eugenio Franceschini, nei panni del rampollo di una storica azienda di cachemire che usa le pecore dell’agro romano (sic!), e il sempreverde Raoul Bova, inutile dire perfetto per la situazione.

Che altro dire oltre che in ordine trovano posto tutti i nostri peggiori cliché: dal caffè più buono del mondo alla pasta cacio e pepe, dalle feste sulle terrazze romane al cannone del Pincio. Ma anche in questo caso, sembra confermarsi la regola che piace quel che piace, e non ha molto senso giudicare con la puzza sotto il naso.

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