A partire dai primi anni del novecento i robot e l’intelligenza artificiale hanno popolato le opere di fantascienza e stuzzicato l’immaginario collettivo sulla possibilità di vivere quotidianamente a stretto contatto con macchine intelligenti che si comportano come esseri umani, o che addirittura superino l’intelligenza umana, a volte con conseguenze disastrose per l’uomo.
Oggi la robotica è sempre più realtà, ma quanto si discosta dalla fantascienza?
È davvero possibile realizzare macchine in grado di pensare, o addirittura avere una coscienza?
Che benefici può avere per l’uomo?
Cerchiamo di scoprirlo insieme partendo dalle origini fino ai giorni nostri.
Cos’è la robotica? La robotica è la branca dell’ingegneria che interessa la progettazione (hardware e software), lo sviluppo e lo studio dei robot, macchine pensate per svolgere autonomamente dei compiti specifici.
In essa si incontrano varie scienze e discipline, quali automazione, elettronica, fisica, informatica, matematica e meccanica. A queste si aggiungono scienze naturali e sociali da cui trae ispirazione, come la biologia, la fisiologia e la psicologia.
Il termine robot è stato usato per la prima volta nell’opera teatrale «I robot universali di Rossum», dello scrittore ceco Karel Capek. Esso deriva dalla parola ceca «robota», che significa lavoro pesante, ed è derivata a propria volta dall’antico slavo ecclesiastico «rabota», servitù.
In origine utilizzata nei romanzi di fantascienza per indicare degli automi, spesso con sembianze umane, oggi la parola «robot» identifica una qualsiasi macchina in grado di svolgere un dato compito con un determinato livello di autonomia, indipendentemente dalla sua forma o dimensione.



Le origini: i protoautomi

«In effetti l’uomo si dimostra essere cosa divina perché dove la natura finisce di produrre le sue spetie l’uomo quivi comincia colle cose naturali a fare coll’aiutorio d’essa natura infinite spetie» Leonardo da Vinci (1452-1519).
L’uomo fin dalle sue origini si è distinto per la sua creatività e capacità di plasmare l’ambiente e, a conferma di questo, gli studiosi identificano la comparsa della specie «homo» con la capacità di inventare ed utilizzare attrezzi (Homo habilis).
Nel corso della storia lo sviluppo tecnologico ha portato all’utilizzo di strumenti sempre più complessi ed alla realizzazione di macchine che hanno reso possibili cose prima impensabili, come il volo o la conquista dello spazio. L’idea apparentemente moderna di realizzare dei sistemi meccanici autonomi e intelligenti era già presente nei miti e nelle leggende delle culture di tutto il mondo.
Il primo progetto di robot umanoide a noi noto, il cavaliere meccanico, si deve a Leonardo da Vinci e porta la data del 1495. Colui che invece realizzò il primo robot funzionante fu Jacques de Vaucanson, che nel 1738 fabbricò un androide suonatore di flauto in grado di riprodurre movimenti complessi.
Nel 1769 Wolfgang De Kempelen, un inventore ungherese al servizio dell’imperatrice Maria Teresa di Vienna, sviluppò il «Turco meccanico», un automa apparentemente in grado di giocare automaticamente a scacchi. In realtà, il «Turco» era azionato da un giocatore umano nascosto all’interno del congegno.
A Kempelen si possono ricondurre numerosi contributi in termini della ricerca in robotica, compresa la macchina parlante descritta nel «Mechanismus der menschlichen Sprache nebst Beschreibung einer sprechenden Maschine» (1791). Tali proto-automi, tuttavia, restavano meccanismi non programmabili, e di fatto non autonomi.



Da sinistra a destra e dall’alto in basso troviamo vari esempi di automi: l’anatra meccanica di de Vaucanson, il turco di De Kempelen, il suonatore di flauto di de Vaucanson, il leone di Leonardo da Vinci e gli automi di Jaquet-Droz.

La robotica oggi: una realtà molto diversificata

La robotica, così come la intendiamo oggi, fa la sua comparsa negli anni ’70 come supporto alla produzione industriale.

Caratteristica fondamentale di queste applicazioni è la separazione tra uomo e robot fisicamente isolati al fine di garantire la sicurezza degli operatori. I primi robot industriali inoltre operavano in ambienti completamente strutturati, ovvero dove le posizioni di tutti gli oggetti con cui il robot doveva interagire erano note a priori.



 

I robot industriali hanno solitamente una base fissa, e compiono la stessa operazione sempre negli stessi punti

 

L’interazione uomo-robot e la capacità di compiere azioni in ambienti dinamici o situazioni non prestabilite sono tutt’ora oggetto di ricerca in ambito robotico.
Oggi i robot trovano impiego al fine di affiancare o sostituire l’uomo, ad esempio nella manipolazione di materiali pesanti e pericolosi, in ambienti proibitivi o non compatibili con la condizione umana o semplicemente per liberare l’uomo da compiti gravosi o sgradevoli.
Orientarsi nel panorama della robotica può essere complesso data la vastità della materia e la varietà di applicazioni. Una prima distinzione può essere fatta a partire dal tipo di compito che i diversi robot assolvono. Secondo questo criterio è possibile individuare tre grandi aree:

  1. Field robotics

    Il cui scopo principale è sostituire l’uomo nelle attività che comportano un alto rischio per la vita umana, secondo la definizione americana, nelle missioni DDD («Dull, Dirty & Dangerous», «ripetitivo, sporco e pericoloso»). A questa categoria appartengono ad esempio i robot artificieri, i rover spaziali, i droni, ma anche robot sottomarini, quadrupedi ed umanoidi.

    Da sinistra a destra e dall’alto in basso troviamo: il cane robotico HyQ (IIT), un quadrotor, il robot umanoide Atlas (Boston Dynamics), il robot umanoide Walk-Man (IIT), Wall-e (Disney-Pixar), il rover spaziale Spirit (NASA), il quadrupede BigDog (Boston Dynamics) ed un robot artificere.

  2. Robot di servizio

    Pensati per assistere l’uomo nella sua quotidianità, nell’immaginario comune sono spesso identificati con i robot umanoidi, oggi ancora poco diffusi e prerogativa dei laboratori di ricerca. Robot dedicati a compiti più specifici sono invece già nelle nostre case, come gli aspirapolvere intelligenti, i sistemi di domotica e i robot da cucina.

    Da sinistra a destra e dall’alto in basso troviamo ICUB (IIT), R2-D2 e C-3PO (Star Wars), Asimo (Honda), Baymax (Disney), Roomba (iRobot), e ARMARX (KIT).

  3. L’ultima categoria, più attinente alla medicina, si può definire come sistemi riabilitativi o di potenziamento e comprende esoscheletri, protesi, dispositivi per assistere le operazioni chirurgiche e per la riabilitazione. Come si può intuire ricadono in questa categoria tutti i sistemi robotici che mirano a sostituire parti o funzioni dell’uomo o che collaborano alla loro riabilitazione.

    Da sinistra a destra e dall’alto in basso troviamo: la mano prostetica Soft-Hand (Pisa-IIT), il sistema di chirurgia assistita «Da Vinci» (Intuitive Surgical), l’esoscheletro per la mano Soft glove (Harvard Biodesign Lab), la gamba esoscheletro (MIT), la piattaforma riabilitativa Arbot Platform (IIT), il mouse per non vedenti TAMO3 (IIT).

 

 

Quanta autonomia?

 

«Ho detto «vostra civiltà» di proposito, perché non appena noi cominciammo a pensare per voi diventò la nostra civiltà, e questa naturalmente è la ragione per cui noi ora siamo qui» (Agente Smith, The Matrix, 1999).
La caratteristica distintiva dei robot moderni è l’autonomia. Quando si parla di autonomia, si intendono in realtà molte cose diverse, per esempio: la durata delle batterie (autonomia energetica), la capacità di mantenere l’equilibrio da soli (autonomia posturale) o trovare la strada di casa (navigazione autonoma).
In generale, si può definire l’autonomia come la capacità di definire i propri obiettivi e il modo di raggiungerli senza l’intervento dell’uomo, o col minimo intervento possibile (David Vernon, Artificial Cognitive Systems – A primer).

Già oggi robot di uso comune sono in grado di svolgere alcuni compiti con un certo livello di autonomia: i robot aspirapolvere possono orientarsi all’interno delle nostre case per spazzolarle da cima a fondo, per poi tornare alla base di ricarica; i sistemi domotici regolano automaticamente temperatura e illuminazione della casa sulla base delle abitudini di chi vi abita; le automobili a guida autonoma possono percorrere migliaia di chilometri su strade trafficate, riconoscendo la segnaletica stradale, le altre automobili e i pedoni.
Ma fino a che punto un robot dovrebbe essere autonomo?
Se da una parte è evidente che per facilitarci un compito un robot dovrebbe richiedere meno tempo a essere istruito che a svolgere il compito stesso, lasciar «decidere» alla macchina cosa svolgere e come potrebbe avere delle conseguenze impreviste e controverse: di fronte all’inevitabilità di un incidente, con quale criterio una automobile a guida autonoma dovrebbe decidere chi salvare?
Dovrebbe salvaguardare prima di tutto i propri passeggeri, cercare di salvare chi ha più probabilità di sopravvivere o scegliere casualmente?
Questa e molte altre domande etiche sulla robotica (roboethics) sono al centro di grandi dibattiti, segno che la questione etica sia ancora molto aperta e difficile da esaurire in poche leggi o regole. È importante non lasciare che di queste domande se ne occupino solo gli esperti, ma che ognuno di noi si chieda quali siano i limiti di autonomia decisionale vorremmo vedere in un robot, superati i quali inizieremmo ad avvertire un senso di insicurezza o disagio nel nostro rapporto con gli automi.

 

 

Ma i robot sanno davvero pensare?

 

«Alan M. Turing pensò a un criterio per chiedersi se le macchine possano pensare, una domanda che oggi sappiamo avere la stessa pertinenza dell’interrogarsi se i sottomarini possano nuotare» (E. Dijkstra, informatico olandese, 1930-2002).
Alti livelli di autonomia impongono che un robot impari ad elaborare ciò che percepisce del mondo, anticipi i bisogni dell’uomo, pianifichi delle azioni per soddisfarli e preveda le conseguenze di queste azioni. In poche parole, la macchina dovrebbe saper «ragionare» per poi prendere delle decisioni di cui prevede l’esito.
Robot dotati di queste abilità sono esempi di sistemi cognitivi artificiali, un campo di ricerca molto ampio che abbraccia non solo l’ingegneria ma anche soprattutto la psicologia e le neuroscienze, in quanto molti concetti relativi alla cognizione umana confluiscono nella realizzazione di robot con capacità cognitive artificiali, e talvolta questi ultimi vengono costruiti proprio per poter studiare meglio l’uomo e la sua capacità di pensare.
Nei suoi pioneristici studi sui computer, Alan Turing immaginò un test per quantificare la capacità di una intelligenza artificiale: l’idea fu quella di istruire un soggetto umano ad iniziare una conversazione con un altro soggetto attraverso lo scambio di messaggi utilizzando la tastiera di un terminale senza sapere se a rispondere fosse una macchina o un altro essere umano.
Il test consisteva nel verificare quante volte la macchina fosse in grado di «ingannare» l’uomo. In realtà, una macchina in grado di superare il test, ovvero che possa passare per umana con una certa percentuale di successo, dimostrerebbe solamente di poter imitare la capacità umana di pensare, e non effettivamente di pensare.
«La vera questione non è capire se le macchine pensino, ma se siano gli uomini a farlo. Il mistero che avvolge una macchina dotata di pensiero avvolge prima quello di un uomo che pensa» (B. F. Skinner 1904-1990).

Sebbene il funzionamento e il significato del pensiero umano sia ancora parzialmente avvolto da mistero e oggetto di studio per filosofi, psicologi e neuroscienzati, chiedersi se una macchina sia in grado di pensare è in effetti un problema mal posto.
Per capirlo si può andare a vedere cosa accade all’interno degli algoritmi di apprendimento automatico usati per far «ragionare» una macchina.
I metodi di apprendimento automatico si dividono in tre grandi categorie:

  1. Apprendmento supervisionato
    Alla macchina vengono posti tanti esempi positivi e negativi di ciò che la macchina dovrebbe imparare. Se lo scopo è riconoscere volti umani, gli forniranno fotografie che mostrano volti umani come esempi positivi e immagini con altri soggetti come esempi negativi.
    Dopo una fase di «addestramento», l’algoritmo è in grado di genereralizzare, cioè di dare una risposta sensata di fronte a un nuovo campione mai analizzato prima (una nuova fotografia). Già da anni questi sistemi vengono impiegati con successo per riconoscere automaticamente cifre dei codici postali scritti a mano, o il riconoscimento di assegni.

  2. Apprendimento non supervisionato
    In questo caso non esistono esempi completi, ma solo dati da analizzare. Normalmente algoritmi di questo tipo vengono usati per ricercare delle regolarità (o irregolarità) nascoste nei dati, o per dividere automaticamente i dati in categorie.
    Algoritmi di questo tipo potrebbero ad esempio imparare le stagioni analizzando come i valori di temperatura in un dato luogo cambino ciclicamente durante il corso degli anni.

  3. Apprendimento per rinforzo
    Questo tipo di algoritmi basano sul concetto di azione e ricompensa. Ogni azione o gruppo di azioni che la macchina compie è associata ad una valutazione delle sue prestazioni (la ricompensa) e dopo un certo numero di fasi esplorative il sistema è in grado di sfruttare quanto appreso per scegliere azioni che massimizzino le ricompense future.
    Algoritmi di questo tipo sono stati impiegati per sviluppare intelligenze artificiali in grado di giocare a scacchi, Go e ad alcuni videogiochi ad un livello pari o superiore a quello umano. Per ottenere questi risultati, l’algoritmo viene fatto giocare contro se stesso così tante volte da far sì che memorizzi la sequenza di mosse o di comandi che hanno più probabilità di vittoria.

 

Queste tre tipologie di apprendimento sono chiaramente ispirate ai modi che abbiamo per imparare (capire da esempi, vedere regolarità, prova ed errore), ma sono realizzate applicando formule matematiche che come obiettivo hanno sempre quello di ridurre al minimo l’errore rispetto a un risultato atteso.
Ha fatto scalpore l’algoritmo di Facebook in grado di riconoscere i volti delle persone con performance talvolta superiori a quelle di un essere umano, tuttavia non si può certo dire che l’algoritmo sappia cos’è un volto, semplicemente ha svolto in maniera efficiente ciò che gli è stato chiesto di fare: associazione tra foto e nomi, come che gli è stato impartito durante l’apprendimento.

 

 

Una questione aperta

 

Sono in molti a chiedersi se il progressivo automatizzarsi delle mansioni umane non abbia un impatto negativo sulla società, perché toglierebbe posti di lavoro. Fermo restando che è difficile fare previsioni a lungo termine sugli effetti di un uso di massa di robot avanzati, possiamo però guardare a quanto è successo in passato quando una tecnologia ha decretato l’estinzione di alcuni lavori.
L’automobile ha rimpiazzato il cavallo, riducendo drasticamente il numero di maniscalchi e allevatori, ma ha portato alla nascita di nuove professioni: meccanici, gommisti, ricambisti.
L’uso dei robot, che sono stati concepiti per sollevare l’uomo da lavori di fatica e ripetitivi, auspicabilmente porterebbe ad uno spostamento più che ad una riduzione dei posti di lavoro, in favore di nuove professioni che esaltino maggiormente le capacità creative e intellettive di chi lavora.
Oggi viviamo in un mondo dinamico, in cui tecnologie sempre nuove aprono molteplici orizzonti di sviluppo futuro, come per le automobili si è passati da sistemi completamente meccanici a sistemi ibridi elettro-meccanici (meccatronici) che rendono possibile la guida autonoma, allo stesso modo lo sviluppo di nuovi sensori, renderà i robot capaci di rilevare e gestire informazioni sempre più sofisticate e complesse.
È difficile prevedere come si svilupperà la robotica, come utilizzeremo i robot e quali potenzialità ci sono ancora da esplorare. Allo stesso modo con l’avvento degli smartphone abbiamo scoperto tutte le potenzialità della connessione in rete, prima confinato alle case e agli uffici e modificato le nostre esigenze ed aspettative nei confronti del cellulare.
Si potrebbe affermare che in quanto tecnologia, la robotica di per sé sia solo uno strumento e che non sia necessariamente buona o cattiva, e di conseguenza ogni possibilità debba essere esplorata.

Questo giudizio rischia di distrarci dalle vere ragioni che ci portano a sviluppare una certa tecnologia e dunque dall’uso che ne deriva.
Dato il suo profondo impatto sulla vita di ciascuno di noi, occorre essere consapevoli del bene che la robotica potenzialmente offre in quanto al servizio dell’uomo, dell’uso che se ne intende fare e dei limiti che questo pone.
Senza questo punto critico ogni tecnologia diventa essenzialmente autoreferenziale, come scriveva C.S. Lewis in un suo romanzo in cui immagina uno scontro tra due schieramenti, tra chi vuole rendere il mondo «perfetto» (dal latino perfectus, «morto») e chi invece accoglie la realtà con tutte le imperfezioni e cerca faticosamente di amarla: «Non sono sicuro di capire…Lo capirà presto, se veramente le si darà la mano libera, la scienza potrà impadronirsi della razza umana e rimetterla in funzione rendendo l’uomo un animale davvero efficiente» (C.S. Lewis, «Quell’orribile Forza» 1945).
Avendo un diretto impatto sulla vita quotidiana, la robotica apre molte questioni e domande a cui dobbiamo e dovremo provare a dare una risposta, sia che ci accostiamo ad essa in qualità di sviluppatori (makers), sia come utilizzatori (users).
Da questo punto di vista è interessante leggere quello che ha scritto Papa Francesco nell’enciclica «Laudato si», all’inizio del capitolo terzo intitolato «La tecnologia: creatività e potere»:
«È giusto rallegrarsi per questi progressi ed entusiasmarsi di fronte alle ampie possibilità che ci aprono queste continue novità, perché «la scienza e la tecnologia sono un prodotto meraviglioso della creatività umana che è un dono di Dio». La trasformazione della natura a fini di utilità è una caratteristica del genere umano fin dai suoi inizi, e in tal modo la tecnica «esprime la tensione dell’animo umano verso il graduale superamento di certi condizionamenti materiali». La tecnologia ha posto rimedio a innumerevoli mali che affliggevano e limitavano l’essere umano. La tecnoscienza, ben orientata, è in grado non solo di produrre cose realmente preziose per migliorare la qualità della vita dell’essere umano, a partire dagli oggetti di uso domestico fino ai grandi mezzi di trasporto, ai ponti, agli edifici, agli spazi pubblici…
Tuttavia non possiamo ignorare che le potenzialità che abbiamo acquisito ci offrono un tremendo potere. Anzi, danno a coloro che detengono la conoscenza e soprattutto il potere economico per sfruttarla un dominio impressionante sull’insieme del genere umano e del mondo intero… Si tende a credere che «ogni acquisto di potenza sia semplicemente progresso, accrescimento di sicurezza, di utilità, di benessere, di forza vitale, di pienezza di valori», come se la realtà, il bene e la verità sbocciassero spontaneamente dal potere stesso della tecnologia e dell’economia.
Il fatto è che «l’uomo moderno non è stato educato al retto uso della potenza», perché l’immensa crescita tecnologica non è stata accompagnata da uno sviluppo dell’essere umano per quanto riguarda la responsabilità, i valori e la coscienza. Ogni epoca tende a sviluppare una scarsa autocoscienza dei propri limiti.
Per tale motivo è possibile che oggi l’umanità non avverta la serietà delle sfide che le si presentano, e «la possibilità dell’uomo di usare male della sua potenza è in continuo aumento» quando «non esistono norme di libertà, ma solo pretese necessità di utilità e di sicurezza»» (Papa Francesco, «Laudato sì», 2015).

 

 

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Francesca Negrello
(Laureata in Ingegneria Meccanica presso l’Università degli Studi di Genova. Attualmente sta svolgendo il dottorato di ricerca all’Istituto Italiano di Tecnologia nel dipartimento di Advanced Robotics)

Marco Camurri
(Laurea magistrale in Ingegneria Informatica presso l’Università di Modena e Reggio Emilia. Attualmente è studente di dottorato in Bioingegneria e Robotica presso il Dynamic Legged System Lab del dipartimento di Advanced Robotics all’Istituto Italiano di Tecnologia)

 

 

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