Avete inviato il vostro manoscritto di circa 25000 parole all’editore che lo sta leggendo per decidere eventualmente di pubblicarlo. Ci sono però degli «errori»: per esempio a pagina 25, alla quarta riga, invece di «notte» c’è scritto «nolte» e l’editore si affretta a correggere. Ma anche a pagina 48, quando parlate dei fossili siete imprecisi e l’editore vi consiglia di riscrivere la frase, e poi quella parola a pagina 82 è francamente sbagliata: rende la frase incomprensibile.
Che cosa sta succedendo al vostro manoscritto? Sta subendo una revisione editoriale. È proprio quello che il genome editing, il nuovo metodo per introdurre «correzioni» nel DNA, si propone di fare su quel libro che è il genoma, cioè l’insieme delle molecole di DNA che ogni organismo vivente possiede.
Non si deve tuttavia pensare che il DNA subisca modificazioni solo con il genome editing: da sempre, fin da quando sono esistite le prime cellule sulla Terra, il DNA ha subito modificazioni.
Per esempio, quando una cellula si divide, il suo DNA viene duplicato e la sequenza nucleotidica è replicata: nel batterio E. coli la copiatura procede a un ritmo di circa duemila nucleotidi al secondo e l’enzima deputato alla copiatura è abbastanza accurato introducendo in media un errore ogni centomila nucleotidi.
Ci sono però sistemi di correzione degli errori, basati su proteine che eliminano il nucleotide «sbagliato» sostituendolo con quello «giusto», in modo tale che la frequenza finale di errore è in media di un errore ogni miliardo di nucleotidi. Anche fattori ambientali, radiazioni UV, raggi X, agenti chimici, possono introdurre mutazioni nel DNA. In questo caso però la cellula ha più di un sistema di sorveglianza di eventuali danni e sistemi di riparo delle mutazioni.
Il genoma tuttavia non cambia solo per «mutazione», ma anche tramite trasposizioni, trasferimento orizzontale di DNA da organismo a organismo. In tempi in cui si parla di organismi geneticamente modificati (OGM), cioè della possibilità da parte dei biotecnologi di modificare in laboratorio il genoma di un organismo per inserimento di geni provenienti da specie diverse, ci possiamo chiedere se ciò avviene spontaneamente anche in natura.
Un buon esempio ci viene offerto dai batteri. Tutti sappiamo che i batteri possono diventare resistenti agli antibiotici: la resistenza però non è acquisita in genere attraverso mutazioni nel DNA del batterio, ma mediante acquisizione da altri microorganismi di interi segmenti di DNA che portano informazioni multiple per inattivare gli antibiotici.
Si tratta di un trasferimento orizzontale (non quindi da progenitore a progenie) di informazione, tale e quale quello che operano i biotecnologi nel produrre gli OGM; un trasferimento frequente sia nei microorganismi sia nelle cellule superiori anche tra organismi molto diversi tra loro (per esempio trasferimento da batteri a piante). D’altra parte è ben noto che i virus quando infettano le cellule possono integrare il loro materiale genetico nel genoma dell’ospite, inserendo quindi nuova informazione: nel genoma dei mammiferi, uomo compreso, sono presenti numerose tracce di sequenze virali integrate nel genoma a seguito di infezioni avvenute nei progenitori.
L’acquisizione di nuova informazione genetica segue anche altre strade. Tutti i frumenti coltivati per esempio, originano da due eventi spontanei di ibridazione interspecifica tra specie selvatiche con evidentissime modificazioni della forma e anche della produttività degli ibridi risultanti. Ma tutte le piante e gli animali che noi coltiviamo e alleviamo non sono «naturali» nel senso che non potrebbero sopravvivere senza le cure dell’uomo e sono tutti geneticamente modificati in modo da soddisfare le nostre necessità.
Che cosa c’è di diverso allora tra le mutazioni genetiche spontanee o indotte dall’uomo tramite trattamenti mutageni e il genome editing?
La differenza fondamentale sta nel fatto che le mutazioni spontanee o indotte provocano alterazioni casuali nella sequenza del DNA e quindi l’esito non è predicibile a priori: bisognerà selezionare nella progenie quegli individui che a causa della mutazione presentano caratteri utili per noi.
Il genome editing invece opera come un correttore di bozze: modifica il DNA nei geni che vogliamo, inattivandoli, potenziandone l’espressione o introducendo nuovi geni e lo fa non a caso ma in modo preciso e proprio secondo il nostro volere.
Una storia cominciata milioni di anni fa
Il genome editing ha delle radici profondamente piantate nella storia evolutiva degli organismi viventi. Tutti gli organismi viventi, dai batteri più semplici agli organismi più complessi, sono continuamente esposti all’invasione di materiale genetico, frammenti di DNA, portati da virus, plasmidi, trasposoni che, non essendo in grado di replicarsi autonomamente, devono assolutamente «infettare» una cellula ospite per proliferare.
Ovviamente l’ospite ha sviluppato diverse barriere per difendersi da questi invasori, attivando una serie di meccanismi anti-invasione che a sua volta l’invasore cerca di superare. L’esito di questa battaglia è incerto: a volte vince l’invasore e la cellula ospite è distrutta, a volte è distrutto l’invasore, a volte la battaglia finisce in pari e parte del materiale genetico dell’invasore è integrato nel genoma dell’ospite.
Uno dei sistemi di difesa dei batteri, che risulterà decisivo per lo sviluppo del genome editing, è costituito da:
- Una serie di segmenti di DNA con sequenza nucleotidica ripetuta intervallati da segmenti con sequenza unica presenti nella gran maggioranza dei genomi dei batteri e denominato con l’acronimo CRISPR (Clustered Regularly Interspaced Short Palindromic Repeats);
- Una sequenza di DNA, adiacente a CRISPR, che codifica per una proteina capace di tagliare i due filamenti di DNA, cioè una nucleasi denominata Cas (CRISPR associated) e che è anche in grado di legarsi a molecole di RNA.
CRISPR-Cas è uno dei sistemi immunitari dei batteri e sembra strano scoprire che anche i batteri possiedono dei sistema immunitari, ma quelle sequenze uniche intersperse tra gli elementi ripetuti del sistema CRISPR sono frammenti di sequenze virali integrati nel genoma dell’ospite, conseguenza di passate invasioni di virus che i progenitori degli attuali batteri hanno subito e combattuto; un po’ come la memoria di passate infezioni che il nostro sistema immunitario conserva nelle cellule deputate alla produzione di anticorpi.
In seguito a un nuovo attacco virale, quella sequenza di DNA interspersa nel CRISPR corrispondente al virus infettante è trascritta, l’RNA si lega alla proteina Cas e la guida sulla sequenza complementare del virus dove la nucleasi può agire degradando il DNA virale.
Come abbiamo imitato la natura per i nostri scopi
I due componenti essenziali per il genome editing sono la nucleasi in grado di tagliare contemporaneamente i due filamenti del DNA e l’RNA associato ad essa. Di nucleasi di questo tipo ne esistono varie in natura e possono essere estratte e purificate. Il frammento di RNA può essere invece sintetizzato per via chimica con una sequenza nucleotidica scelta da noi.
A questo punto disponiamo di un complesso costituito da una forbice molecolare (la nucleasi) associata a un RNA che, una volta iniettato in una cellula, guida la forbice sulla sequenza di DNA complementare alla sequenza del nostro RNA, provocando il taglio della doppia elica.
Tutte le cellule invariabilmente riparano le rotture nel DNA. Una volta che la nucleasi ha tagliato i due filamenti del DNA, il meccanismo di riparo si attiva e può operare essenzialmente in due modi alternativi:
- Il taglio può essere riparato riavvicinando e legando tra loro i nucleotidi terminali in un processo chiamato Non Homologous End-Joining (NHEJ) che frequentemente genera errori tramite inserzione di un nucleotide in più o tramite perdita (delezione) di qualche nucleotide in modo che la sequenza originaria non è più ristabilita;
- Il riparo avviene in presenza di un segmento di DNA stampo introdotto assieme al complesso Cas che viene ricopiato e inserito nel sito di taglio (Homology Directed Repair, HDR). In questo caso la sequenza originaria del DNA viene modificata in parte o sostituita del tutto.
È evidente che nel primo caso il genome editing può essere considerato a tutti gli effetti un metodo di mutagenesi simile alla mutagenesi spontanea o indotta, con la differenza sostanziale però che la mutazione avviene in un unico sito e proprio nella sequenza del gene che noi vogliamo modificare, mentre con la mutagenesi spontanea o indotta si generano mutazioni multiple in siti casuali. L’esito generalmente è quello di inattivare un gene.
Nel secondo caso invece, con il genome editing si ottengono mutazioni precise e volute, che possono consistere in specifiche sostituzioni di nucleotidi, oppure inserzione di interi nuovi segmenti di DNA, in funzione della sequenza che viene usata come stampo. In questo caso, il genome editing può essere considerato un metodo di mutagenesi biologica mirata e predeterminata: può portare a generare per uno specifico gene una variante già esistente in natura oppure una nuova variante ma, comunque, con caratteristiche predefinite dallo sperimentatore, oppure generare un nuovo gene.
In ambedue i casi, comunque, non si potrà distinguere se la mutazione ottenuta è una mutazione casuale, avvenuta spontaneamente, oppure una nuova varietà di una specie preesistente in natura, o una mutazione creata in laboratorio: infatti nell’organismo modificato non resta traccia della nucleasi e del RNA guida che vengono rapidamente degradati.
Benvenuti nello zoo del genome editing
Da più di diecimila anni l’uomo manipola geneticamente le piante per trarne cibo e per far ciò ha utilizzato la selezione massale, l’incrocio, la mutagenesi indotta e, dalla fine del secolo scorso, la transgenesi che ha dato origine agli OGM, con tutte le polemiche che ne sono derivate. Ma ora con il genome editing si spalancano le porte a infinite manipolazioni per resistenza a malattie, alla siccità, alle alte e basse temperature, tolleranza a erbicidi, miglior valore nutrizionale, nuove fragranze e, quel che più conta, senza che si possa distinguere queste nuove varietà dalle varietà «naturali».
E per gli animali? C’è solo l’imbarazzo della scelta: mucche da latte senza corna per inattivazione del gene responsabile della loro crescita così non si fanno del male tra loro e si evita di tagliare le corna ai vitelli, procedura costosa e dolorosa; capre con il pelo più lungo in modo che possano meglio resistere al freddo e possano prosperare in climi più freddi; per chi ama il maiale o il cane arrosto, maiali e beagle super muscolosi; e infine, perché no, anche un mini maialino da compagnia?
E con l’uomo?
Le potenzialità del genome editing di correggere quelle mutazioni di singoli geni che causano malattie nell’uomo sono apparse subito evidenti. Gli studi sono stati condotti su cellule umane estratte da soggetti affetti da malattie genetiche, modificate nel gene alterato ed eventualmente reintrodotte nel paziente.
Alla fine del 2013 un gruppo di ricerca olandese prelevò alcune cellule staminali intestinali da due bambini affetti da fibrosi cistica, una malattia dovuta all’alterazione di un singolo gene. Le cellule staminali furono coltivate in vitro e trasformate con la versione sana del gene con la tecnica del genome editing.
Il successo fu impressionante: il gene alterato fu corretto in più di metà delle cellule trattate. Altre malattie genetiche sono state prese in considerazione, come l’anemia falciforme, la tirosinemia di tipo I e altre alterazioni metaboliche su base genetica, ma anche modifiche di un recettore posto sulla superfice di cellule immunitarie che rendono l’individuo resistente al virus HIV.
Ma, quando nel maggio 2015 un gruppo di ricerca cinese ha pubblicato il risultato di un esperimento di genome editing su embrioni umani non vitali, la comunità scientifica non ha potuto non interrogarsi sulle conseguenze di applicare l’editing agli embrioni umani o alle cellule germinali.
Infatti, quando le modifiche al genoma sono eseguite sulle cellule non riproduttive, queste si manifestano nella persona trattata e non sono trasmesse alla progenie.
Ma se l’editing è compiuto sulle cellule riproduttive o su embrioni a uno stadio in cui le cellule germinali non si sono ancora differenziate, le modificazioni saranno trasmesse alle generazioni future.
Ma non tutti sono dello stesso parere e anche le legislazioni in merito alle modificazioni genetiche degli embrioni umani sono variabili tra le nazioni del mondo e, anche quando esistono restrizioni, esse sono facilmente aggirabili o non sono applicate.
Proprio per le implicazioni etiche e sociali del genome editing, le Accademie nazionali delle Scienze americana, inglese e cinese hanno promosso un summit internazionale per discutere l’uso appropriato di questa tecnica in campo agricolo, ambientale, ma soprattutto sull’editing della linea germinale umana per il suo potenziale di sradicare le malattie genetiche, ma anche di alterare la natura umana.
Lo Human Gene Editing Summit, tenutosi dal 1 al 3 dicembre 2015 a Washington alla presenza di più di quattrocento tra scienziati, esperti di bioetica e storici provenienti da venti paesi di sei continenti, è stato aperto da David Baltimore (1938-…), premio Nobel per la medicina nel 1975 che nella sua dichiarazione di apertura ricordava che Aldous Huxley (1894-1963), nel suo libro Brave New World, immaginava una società costruita selezionando geneticamente le persone per svolgere specifici ruoli nella comunità.
«Dobbiamo fare attenzione che le nuove e potenti tecniche di manipolazione genetica della natura della popolazione umana non rendano possibile un mondo siffatto. Oggi il genome editing è ancora nella sua infanzia, ma è prevedibile che la pressione per utilizzarlo crescerà sempre di più col tempo e le decisioni e azioni che prenderemo oggi guideranno il suo uso nel futuro. Come vogliamo usare e dove vogliamo andare con questa nuova capacità?».
Il vertice internazionale si è concluso con la raccomandazione che l’alterazione genetica delle linee germinali umane per ora rimanga confinata alle ricerche di laboratorio, che devono però proseguire, con le dovute cautele e nel contesto di una discussione comune su come regolarle, in vista degli importanti progressi per la salute che potrebbero derivarne.
Ma le cose corrono veloci e presto anche il genome editing sarà superato. Nel 2004 si concludeva lo Human Genome Project –read, il progetto che aveva come obiettivo sequenziare (leggere) l’intero genoma umano. Ora (giugno 2016) si affaccia il nuovo progetto, lo Human Genome Project-write, cioè sintetizzare in laboratorio (scrivere) un intero genoma umano. Il progetto prevede un investimento di cento milioni di dollari e un tempo di dieci anni per completarlo.
Ma per che scopo? Per capire meglio il funzionamento dell’organismo umano dicono i proponenti: certamente, ma anche per costruire il superuomo, l’uomo esente da imperfezioni, esente dai mali della vecchiaia e, perché no, magari se non proprio immortale, quasi immortale.
Allora forse è opportuno ricordare quanto il coro chiedeva a Prometeo nel Prometeo incatenato di Eschilo scritto quasi duemilacinquecento anni fa:
«Coro: Nei doni concessi, non sei magari andato oltre?
Prometeo: Sì, ho impedito agli uomini di vedere la loro sorte mortale.
Coro: Che tipo di farmaco hai scovato per questa malattia?
Prometeo: Ho posto in loro cieche speranze».
Ma è proprio questo che desideriamo?
Perché «A cosa servirebbe una tecnica capace di renderci immortali, se poi non sapessimo quale uso fare dell’immortalità» (Platone, Eutidemo).
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Carlo Soave (già Ordinario di Fisiologia Vegetale presso l’Università degli Studi di Milano)
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