William Shakespeare fa dire a Prospero, nel dramma La Tempesta, che «Siamo fatti anche noi della materia di cui son fatti i sogni». È una frase immaginifica, che suggerisce in maniera poetica l’immanenza del desiderio e della visione che portano alla realizzazione pratica.
È anche uno spunto poetico per iniziare a parlare di materia. La scienza dei materiali studia infatti come trasformare la materia in qualcosa di utile, e quindi, in un certo senso, mette in pratica la frase di Shakespeare.
La natura finale dell’oggetto risiede almeno per quelle caratteristiche più fondamentali, già nella natura della materia che lo costituisce. È il materiale che definisce le caratteristiche e le prestazioni dei prodotti, ne limita i processi di fabbricazione e ne determina l’impatto ambientale.
Così le età della tecnologia nella preistoria sono classificate dai materiali in uso. I processi di fabbricazione evolvono nel tempo, e possono cambiare e migliorare anche di molto i prodotti, ma ci sono alcune caratteristiche fondamentali che sono conferite dal materiale e restano invariate.
Per esempio un oggetto di pietra sarà sempre pesante, avrà poche o nessuna parte mobile e difficilmente sarà costituito da componenti assemblati, perché «incollare» la pietra è difficile. Come conseguenza un oggetto in pietra sarà grande, anche molto grande, tipo case e palazzi, una dimensione congeniale al materiale che permette di superare alcune delle difficoltà dette sopra.
Certamente a determinare il successo di un materiale contribuiscono la sua abbondanza e la sua disponibilità (quanto è facile procurarselo). Ma non sono solo questi i fattori che contano. L’età della pietra non è finita per mancanza di pietre. Così la ricerca di nuovi materiali continua incessantemente, e nuovi materiali sostituiscono o si aggiungono ai vecchi. Gli scienziati continuano a sognare.
Uno storico del futuro avrà forse difficoltà a decidere se la nostra epoca sia quella del silicio o quella della plastica. Entrambi questi materiali hanno rivoluzionato la tecnologia, accompagnati da processi sempre più evoluti di fabbricazione, e hanno invaso la nostra vita quotidiana. Eppure entrambi sono ben lontani dal mondo naturale, in conflitto con il sogno sempre più ricorrente degli scienziati di copiare la natura nei suoi meccanismi più fondamentali.
Un circuito integrato è fatto da silicio, arsenico, metalli e plastiche non biodegradabili. Sostanze spesso tossiche, non biocompatibili, molto diverse da ciò che la natura usa per fabbricare la vita e che troviamo nel piatto di insalata. Possiamo andare oltre questa separazione netta e gettare un ponte tra questi due mondi?
Per farlo incominciamo a guardare i componenti della vita. Avendo a disposizione più di 100 elementi, la natura ne usa prevalentemente solo sei, O, C, H, N, Ca, P. Un uomo è fatto al 99% da questi sei elementi.
Tra questi il carbonio ha un ruolo speciale, perché la struttura di tutte le molecole biologiche è fatta da atomi di carbonio. Il motivo non è tanto la sua abbondanza, piuttosto la sua ecletticità. Il carbonio è un trasformista eccezionale. Ha quattro elettroni nelle orbite più esterne che si organizzano a seconda della situazione per formare legami chimici molto diversi tra loro. È come se uno potesse scegliere di avere due, tre o quattro braccia, a seconda di chi incontra.
Il carbonio costituisce materiali brillanti, duri, trasparenti e isolanti come i diamanti o neri e opachi, friabili e conduttori come la grafite. Può essere esfoliato in strati sottili come il grafene, o formare nanotubi e nanosfere del diametro 10.000 volte più piccolo di un capello. Tutto dipende dal tipo di legame chimico. In natura è spesso «coniugato», in catene o anelli in cui gli elettroni sono liberi di muoversi. Questa caratteristica comporta la capacità di condurre l’elettricità.
Un aneddoto mi aiuta a ricordare questo: l’avventura della «tenda rossa». Quando sotto la guida di Umberto Nobile il dirigibile Italia perse il controllo e si schiantò sui ghiacci del Polo Nord nel 1928, una parte dell’equipaggio e della strumentazione finì sulla banchisa, dove fu montata la famosa tenda rossa.
Tra i superstiti c’erano fortunatamente il marconista e la sua radio che tuttavia non funzionava. Mancava un componente indispensabile: una resistenza elettrica che potesse essere aggiustata per ottenere la sintonizzazione sulla frequenza di trasmissione corretta.
Decine di migliaia di chilometri da qualsiasi forma di vita umana, procurarsi una resistenza variabile non sembrava davvero un’impresa possibile. Nessun aiuto naturalmente da parte degli orsi che pure giravano curiosi e affamati attorno alla tenda.
La salvezza venne da una matita, semplice e umile cilindro di grafite rivestito di legno. Fu utilizzando la grafite che il marconista poté fabbricare la resistenza che gli serviva e, come nelle migliori favole, chiamare i soccorsi.
Ecco dimostrato: la grafite conduce. La grafite è un multistrato di grafene, che è un singolo strato di atomi di carbonio. Infatti per ora la matita resta la più importante applicazione del grafene. Anche il grafene conduce l’elettricità, per altro in maniera esemplare.
Nel grafene gli atomi di carbonio sono sistemati in un reticolo esagonale, cioè l’organizzazione più stabile e naturale di un insieme di sfere rigide tutte a contatto tra loro in un piano. Tre dei quattro elettroni di ciascun atomo sono coinvolti nei legami chimici che creano la struttura. Il restante quarto elettrone è libero di muoversi sopra e sotto il piano atomico. Complessivamente un mare di elettroni riveste lo strato atomico, conferendogli molte delle proprietà attualmente allo studio.
Sembra una magia, ma è invece una conseguenza della meccanica quantistica, che gli elettroni nel grafene abbiano massa quasi nulla, e tendano a comportarsi come fotoni. Inoltre il grafene è il materiale più sottile cui possiamo pensare, e con soli 6 grammi di grafene si può coprire la superficie di un campo di calcio.
Restando in tema di nanotecnologia e parlando di calcio, il più piccolo pallone da calcio è fatto da 60 atomi di carbonio organizzati nella tipica struttura con 20 esagoni e 12 pentagoni, ed è la molecola di fullerene.
Una tecnologia «che si mangia»
I colori del mondo naturale derivano da pigmenti colorati, i carotenoidi, che sono molecole costituite da una catena di atomi di carbonio coniugati. Sono come segmenti rivestiti da una guaina di elettroni liberi di muoversi. Questa caratteristica determina la risposta ottica di queste molecole, perché il campo elettrico della luce mette in oscillazione gli elettroni.
A partire dagli anni Settanta del secolo scorso è stata sviluppata la tecnologia dell’elettronica a base di carbonio. Ora sono arrivati sul mercato i primi prodotti che contengono semiconduttori organici, tipicamente gli schermi dei telefoni portatili o più recentemente anche quelli televisivi. A breve forse anche celle fotovoltaiche, come diremo poi. In questa tecnologia si utilizzano molecole simili a quelle che si trovano in natura, ma sintetizzate in laboratorio.
I dispositivi contengo spesso anche vetro, metalli e plastiche. Anche la plastica è fatta dal carbonio, ma si tratta di macromolecole (polimeri) molto grandi e non-coniugate, cioè che sono isolanti dal punto di vista elettrico. Tra questi materiali e quelli bio-organici naturali c’è ancora un divario ampio e non possiamo certo pensare di mangiarceli, ma abbiamo tutte le premesse per fare il passo successivo. Pensiamo ad altre sostanze, quali gomma lacca, zuccheri, coloranti alimentari, albume, che sono naturali e sono fatte da catene di atomi di carbonio coniugati.
Uno dei sogni che vogliamo realizzare presso il centro IIT di Milano parte da qui: vedere in questi elementi naturali non la dispensa di un cuoco, ma il magazzino di un ingegnere. Impariamo a costruire dispositivi con sostanze naturali che siano biocompatibili, ingeribili e perfino commestibili. Ho mostrato per esempio che possiamo fabbricare un transitor, che è un interruttore 0/1, l’unità fondamentale dell’elettronica digitale, fatto solo da materiali commestibili.
Una tecnologia che si mangia, per dire che è biocompatibile, è un cambio di paradigma che ci permette di affrontare nuove sfide.
Per esempio mettere informazione e comunicazione nel cibo, per tracciarlo, riconoscerlo, metterlo «in rete», un Internet of Things (IoT) degli alimenti per la filiera agro-alimentare del futuro, il supermercato del futuro o il frigorifero del futuro. Oppure realizzare il sogno di Asimov, il «viaggio allucinante» dentro il corpo umano fatto con dispositivi, sonde, sensori che da dentro al corpo comunicano con l’esterno.
Portiamo il medico dentro al paziente. Per misurare pH, Ossigeno, temperature locali, infezioni batteriche, rilascio locale di medicine. Sistemi totalmente riassorbili in grado di raccogliere e inviare informazioni, che sono bio-mimetici, e riescono a riprodurre non solo funzioni meccaniche, ma anche biochimiche. Senza preoccuparci di dove vanno a finire, perché riassorbibili e digeribili. Possiamo sostituire organi degenerati.
Per esempio pensiamo a un problema non risolto: la cecità indotta dalla degenerazione dei fotorecettori naturali. Vi sono due patologie principali: la retinite pigmentosa e la degenerazione maculare. Le protesi retiniche (in realtà protesi dello strato dei fotorecettori) che sono attualmente allo studio utilizzano dispositivi a base di silicio ed elettrodi metallici. Noi abbiamo realizzato una protesi retinica che è costituita da materiali bio-mimetici, a base di carbonio.
La protesi, per ora impiantata nell’occhio di ratti geneticamente modificati, viene inserita in posizione sub retinica, a contatto delle cellule bipolari da un lato e l’epitelio pigmentato dall’altro. Si tratta di un sottile «petalo» di seta, coperto da due strati polimerici, uno dei quali assorbe la luce. Il meccanismo di funzionamento non è ancora noto, ma la sua funzionalità sembra accertata. I ratti recuperano sensibilità alla luce e anche acuità visiva, ovvero la capacità di distinguere i contrasti.
Il progetto di ricerca della retina artificiale organica è altamente interdisciplinare, spazia dalla scienza dei materiali alla fotofisica, fotobiologia, neuroscienza fino alla medicina. Ovviamente molti ricercatori con background diversi sono coinvolti nello sforzo. Oltre al gruppo di Milano che fabbrica la protesi, vi lavora il Center for Synaptic Neuroscience dell’IIT di Genova, guidato da Fabio Benfenati, e l’equipe medica di Grazia Pertile, dell’ospedale Sacro Cuore di Verona. Altri gruppi ancora sono stati coinvolti, come la stazione della sete di Milano e il gruppo di biochimici dell’Aquila guidati da Silvia Bisti.
La frontiera della conoscenza è oggi al confine tra molte discipline, in un area multiculturale difficile da gestire, in cui competenze specifiche devono integrarsi attraverso un linguaggio comune ancora in buona parte da sviluppare. Un po’ come nel progresso di una frontiera geografica, dove lingue, culture e paesaggi si mescolano in un unico nuovo calderone da cui uscirà una nuova nazione.
Spazi per l’innovazione nel fotovoltaico
L’utilizzo di molecole e polimeri coniugati offre anche un vantaggio nella fase di processo, perché è possibile stampare i dispositivi elettronici. La stampa da inchiostri è un processo a basso costo che permette la produzione di grandi volumi in tempi limitati e consente notevole flessibilità di design. Presso il nostro centro è nata una start up, Ribes Tech, che ha come scopo lo sviluppo di celle fotovoltaiche organiche stampate da inchiostri.
Parlare di fotovoltaico oggi significa parlare di una tecnologia ben nota e matura, diffusa largamente e visibile sulle nostre case o nei campi di produzione elettrica. C’è ancora spazio per soluzioni innovative in questo campo? Si può inventare qualcosa di nuovo? Secondo noi sì, perché non sempre le grandi rivoluzioni nascono dalla scoperta di nuovi oggetti: a volte è fare le cose note in un modo nuovo la più grande rivoluzione.
L’esempio migliore è proprio dato dall’invenzione della stampa. Sicuramente non possiamo dire che Gutenberg abbia inventato un nuovo oggetto, il libro. Non possiamo nemmeno dire che abbia scoperto come realizzare libri migliori: i manoscritti miniati a mano sono dei capolavori, delle opere d’arte che nessuna stampa può replicare.
La sua grande intuizione è stata fare qualcosa di noto, di farlo forse peggio, ma con un processo molto più intelligente: la stampa. Cambiare il processo di produzione dei libri ne ha trasformato l’utilizzo, da oggetti di nicchia riservati a poche menti illuminate a mezzo di comunicazione di massa. Ne ha espanso la diffusione abbattendo le barriere che limitavano il sapere in pochi circoli ristretti. Ha cambiato le gerarchie sociali portando la filosofia, la teologia, la scienza e le arti alla portata di ogni essere umano. Gutenberg non ha inventato nulla di nuovo ma ha scoperto un nuovo mondo.
Un percorso simile ha caratterizzato la nascita della tecnologia fotovoltaica. La prima osservazione del principio fotovoltaico ovvero che la luce può essere trasformata in corrente elettrica è avvenuta nel 1839 grazie al fisico francese Edmond Becquerel. I primi dispositivi funzionanti vengono dimostrati cento anni dopo nei Bell Laboratories in America grazie all’avvento dell’elettronica.
Tuttavia seppure quei moduli fotovoltaici fossero già molto simili all’attuale tecnologia al silicio, in pochi pensavano ai tempi che con questa tecnologia si sarebbe potuto generare elettricità con costi competitivi. Le celle fotovoltaiche al tempo erano troppo costose anche solo per pensarlo e di fatto le applicazioni erano limitate all’alimentazione dei satelliti e delle boe oceaniche.
La vera svolta è avvenuta venti anni più tardi quando questa domanda è stata posta ad Elliott Berman. Berman si mette allo studio delle tecnologia disponibile al tempo e capisce presto che aumentare l’efficienza di questi moduli non può portare a nessun salto di qualità: le efficienze di allora erano già molto buone e seppure ci fossero ancora margini di miglioramento questi non sarebbero stati sufficienti.
Si accorge che le celle fotovoltaiche erano fatte molto bene, anzi fin troppo. Semplificando il processo produttivo, eliminando le lavorazioni più costose, utilizzando materiali di bassa qualità si potevano comunque realizzare celle fotovoltaiche decenti, meno efficienti forse, ma decisamente molto più economiche.
Grazie a questa intuizione Berman semplifica il processo produttivo con la conseguenza di ridurre il prezzo dell’energia fotovoltaica di un fattore cinque in pochi anni. Questo attirerà finalmente l’interesse dei primi investitori avviando l’evoluzione costante della tecnologia che pochi anni fa ha permesso il raggiungimento della grid parity. Come Gutenberg, Berman aveva capito che scegliere la strada migliore può essere sbagliato se non impari prima a camminare meglio.
Questo stesso approccio è quello che in Ribes Tech abbiamo scelto per portare innovazione nel campo fotovoltaico e non a caso proprio la stampa è il cuore tecnologico del nostro processo. Stampare è un concetto rivoluzionario per il mondo dell’elettronica, abituato a processi produttivi diametralmente opposti. Questi tipicamente utilizzano materiali inorganici, a volte tossici o rari, processi termici ad altissime temperature e lavorazioni in vuoto. Di conseguenza questi permettono lavorazioni molto precise ma lente e costose, adatti a integrare molte funzionalità in oggetti piccoli come un chip di silicio. La stampa al contrario nasce per trattare grandi superfici in tempi rapidi sfruttando lavorazioni veloci che avvengono in aria e a temperature che non superano le poche centinaia di gradi.
Qual è il punto di contatto tra questi mondi diametralmente opposti? L’anello di congiunzione sono i materiali, materiali che hanno la proprietà di condurre o meno la carica elettrica, come gli elementi costitutivi dei dispositivi elettronici, ma che allo stesso tempo possono essere sciolti in un solvente per formare un inchiostro.
Questi inchiostri speciali possono essere trattati come un inchiostro qualsiasi ma, una volta stampati, non solo trasformano il colore della superficie su cui vengono depositati ma possono conferirle proprietà elettriche. Questi materiali sono proprio quei polimeri speciali studiati nei laboratori dell’IIT di Milano.
La sfida del nostro progetto è stata raccogliere questi semi di conoscenza innovativa per farli fruttare con applicazioni concrete sfruttando processi industriali maturi come appunto la stampa. Il punto di contatto da cui nasce Ribes Tech non è solo quello tra la stampa e l’elettronica, ma anche tra i luoghi dell’eccellenza scientifica e la realtà industriale.
Se l’invenzione dei caratteri mobili ha permesso la penetrazione della letteratura nella società rinascimentale, quali conseguenze può avere l’elettronica stampata?
Stampare significa trasformare una superficie conferendole nuove proprietà. La stampa elettronica trasforma una superficie qualsiasi conferendole proprietà elettroniche. Attualmente siamo abituati a dividere gli oggetti di uso comune in due categorie, distinguendo gli oggetti «intelligenti» (computer, cellulari, sonde e sensori) da quelli comuni (una bottiglia di plastica, una finestra, un tavolo).
La nostra visione è colmare questa differenza per trasformare ogni oggetto in un oggetto intelligente. Per esempio abbiamo brevettato un’etichetta intelligente, del tutto uguale a quelle convenzionali ma in grado di mostrare informazioni che cambiano dinamicamente adattandosi a condizioni esterne. Una bottiglia di latte può adeguare la scadenza alla temperatura di conservazione, un flacone di medicinali può “contare” quante medicine sono state prese, la vaschetta della carne monitorarne il deterioramento. Oppure finestre o pareti possono diventare attive nella produzione di energia, i vestiti possono ricaricare dispositivi elettronici portatili. Tutte queste applicazioni non possono essere soddisfatte dalla tecnologia elettronica standard ma richiedono processi in grado di realizzare dispositivi fotovoltaici sottili, leggeri e flessibili, che siano a basso costo e che possano essere riciclabili o biodegradabili. Necessitano di un’elettronica stampabile.
Il motivo per cui Ribes Tech nasce proprio ora è la consapevolezza che queste applicazioni non sono più solamente idee futuristiche ma concrete possibilità che la tecnologia attuale già permette. Le pellicole fotovoltaiche da noi realizzate sono già da ora in grado di soddisfare le richieste di diverse applicazioni commerciali, integrandosi in oggetti presenti sul mercato.
La loro prima applicazione riguarda la possibilità di trasformare la superficie esterna di qualsiasi dispositivo elettronico in una superficie che possa generare l’energia necessaria ad alimentarlo. Oltretutto i nostri moduli sono particolarmente efficienti negli ambienti indoor sfruttando efficientemente l’illuminazione artificiale delle lampade anche quando non vi è un’esposizione diretta alla luce solare.
Gli ambiti di utilizzo sono quelli dell’Internet of Things, della domotica e dell’automazione che richiedono un sempre crescente numero di oggetti wireless, ognuno di loro alimentato con batterie. Le nostre pellicole fotovoltaiche possono rendere questi dispositivi davvero indipendenti eliminando la necessità di sostituirle o ricaricarle.
Questo risolve uno dei principali limiti alla diffusione di tali sistemi che attualmente devono essere costantemente monitorati con elevati costi di gestione. A breve, grazie alle nostre pellicole fotovoltaiche, non correremo più il rischio di rimanere con la batteria scarica, riducendo i costi economici e ambientali legati al loro utilizzo.
Se l’applicazione indoor, per IoT, è auspicabile in occidente, altre applicazioni quali portare l’energia dove non arriva la rete, con celle fotovoltaiche leggere, facilmente trasportabili e poco costose, può essere l’applicazione giusta per i paesi meno sviluppati, quali l’Africa.
Ricaricare un cellulare o alimentare un piccolo frigorifero per delle medicine, sono azioni normali per noi ma possono diventare vitali in certe situazioni.
È un esempio di come la tecnologia, e quindi la ricerca che l’ha generata, servono all’uomo in generale, aiutandolo a migliorare le sue condizioni di vita a prescindere dall’ambiente in cui si trova.
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Guglielmo Lanzani
(Professore Ordinario presso il dipartimento di Fisica del Politecnico di Milano e coordinatore, dal 2009, del Center for Nano-Science and Technology dell’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT) di Genova)
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