L’architettura è, al contempo, sintesi delle arti, contesto di vita umana, insieme di modifiche e alterazioni della superficie terrestre: conoscerla e tracciarne la storia significa abbracciare «un patrimonio immenso di realtà fisiche e di conoscenze, tanto vasto e vario da non essere mai del tutto esperibile da una sola persona, persino nel corso di una lunga vita di studio»1.
C’è dunque una complessità che si presenta, non soltanto al gesto scientifico dello storico di professione, dell’architetto e dell’ingegnere, ma ancor prima e con più radicalità all’esperienza stessa dell’essere, umano nella sua elementare spontaneità. Grazie a essa si consolidano tradizioni di popoli e creatività individuali.
Quello dell’architettura è un patrimonio immenso, che vive di tradizioni rispetto alle quali vale l’avviso di Thomas S. Eliot (1888 – 1965): «chi vuole impossessarsene deve conquistarla con grande fatica»2.



L’architettura come mondo umano

Molti interrogativi affollano oggi la sua interpretazione: a che condizioni essa può essere intesa come convergenza di arte e servizio? Cosa sono forma e immagine in architettura?
Più precisamente, quale è il legame in essa tra forma, immagine, spazio e tempo, fattori tutti indispensabili per poterne dar ragione?
In un’architettura disegnata e costruita è rintracciabile il valore di segno e di simbolo di qualcosa o qualcuno, che ne trascenda la materialità?
A quali condizioni? L’architettura può realmente essere ‘parlante’?
Il suo principio costruttivo copre effettivamente tutte le varianti dell’abitare, dalla casa al territorio, al paesaggio? Le copre con stretto riferimento agli uomini o in rapporto a tutti i viventi?
Anche gli animali e le piante abitano il pianeta, quali sono le differenze evidenti tra abitare, esperienza che accomuna tutti i viventi, e costruire, atto nel quale si riscontrano distinzioni specifiche tra uomini e animali?
Chi è costruttore in senso pieno? Un uomo, un’ape, uno scoiattolo lo sono in termini paritetici?
Si possono oggi trovare, nel nostro pianeta, situazioni di netta distinzione tra natura e paesaggio antropizzato, modificato direttamente o indirettamente dall’uomo secondo un proprio progetto abitativo?
Conseguentemente: l’architettura è solo un artificio, un oggetto nettame
nte distinto dal mondo naturale o è qualcosa di intrinsecamente a questo connesso, contrassegnato da comune destino?
Che essa sia stata sempre indispensabile, per abitare il pianeta, lo attesta la storia dei popoli, dei quali in termini oggi persino ovvi risulta, se inserita nel quadro ricostruttivo del passato, elemento di identificazione, di distinzione sia geografica sia temporale.
Ma è tale ancora oggi? Cosa le sta accadendo, nella sfuggente eppure vitale dinamica tra ‘locale’ e ‘globale’ che caratterizza il mondo attuale?
Tentando di rispondere in modo semplice all’affollarsi di queste cruciali domande, si può affermare che: l’architettura è mondo indispensabile all’uomo, è un ‘mondo umano’ in uno spazio e in un tempo, determinati secondo un ordine rispondente a esigenze individuali e collettive, che si contrappone a un mondo esclusivamente ‘oggettivo’ (la natura, potremmo anche dire).
Quest’ultima, in ragione del suo spazio illimitato, del suo tempo che scorre senza fine, dell’infinità delle cose che lo popolano, è per l’uomo un flusso di vita disorientante e ingestibile, nel quale egli si perde.
Al contrario la costruzione di luoghi che consentono ritmi di vita specifici genera organismi architettonici percepiti come ‘corpi dilatati’, ricchi di spiritualità corale, che compongono un ambiente con propria autonomia. Esso, a sua volta, si impone alle generazioni che si susseguono come fenomeno strutturante, rispetto al quale ogni persona si percepisce di fronte e al tempo stesso al suo interno.
Spazio e tempo così ‘individualizzati’ e ‘localizzati’ invitano gli uomini a dipendenza e servizio reciproco, secondo forme ogni volta peculiari per storia e localizzazione geografica.
Per queste ragioni abitare è, non solo percepirsi protetti e ben organizzati, ma anche aver coscienza, stando in un contesto singolare, di ‘possedere’ una cultura che dice chi siamo.
Per questo abitare un’architettura è possedere il ‘senso’ di una stanza personale, di una casa, di un giardino, di una strada, di una città, di un territorio, di una patria. Sorgono da questo ‘possesso’ le identità culturali e i luoghi di incontro e scambio tra culture.



Questi punti fermi, semplici da formulare e comprensibili, devono essere oggi ripensati a fondo, in un momento di grandi mutamenti, di globalizzazione galoppante, di evidenza di contraddizioni sociali e di sperequazioni di modi di vita tra le diverse parti del pianeta a tutti visibili.
L’architettura infatti deve essere ritenuta strettamente connessa alle sfide ecologiche non solo tramite il paradigma tecnologico che in essa trova sperimentazione e sviluppi, ma anche, anzi innanzi tutto, rispetto al senso del vivere, ai suoi significati e alle direzioni di civiltà che si vogliono prendere.
Come è possibile altrimenti, a ognuno di noi, riflettere, in modo adeguato, all’entità delle responsabilità attuali, per agire conseguentemente con consapevolezza dei propri gesti, sui grandi problemi dell’ecologia umana?
Le sfide ecologiche attuali portano dunque in primo piano la questione del senso (significato e direzione) del vivere delle comunità umane e dei singoli, sulla terra e con la Terra, come questione universale e ineludibile.



 

 

Architettura come ecologia umana integrale

 

Occorre in primo luogo aver presenti alcune semplici definizioni di ecologia, ecologia umana ed ecologia integrale.
Per ecologia, si intende, in senso generale lo «studio delle interrelazioni che intercorrono fra gli organismi e l’ambiente che li ospita. Essa si occupa di tre livelli di gerarchia biologica: individui, popolazioni e comunità».
Riguarda dunque tutti i tipi di viventi, non solo gli uomini e i loro habitat. «Per habitat si intende la facies ambientale in cui una specie vive, mentre per nicchia ecologica si intendono i limiti delle condizioni ambientali entro le quali una specie sopravvive e si riproduce all’interno dell’ecosistema a cui appartiene».
A loro volta: «Gli ecosistemi hanno la proprietà di mantenere costanza di funzionamento nonostante i cambiamenti dell’ambiente, per la presenza di meccanismi, come i controlli bio-geochimici e bio-demografici, di autoregolazione delle popolazioni».
Emerge, da queste indicazioni, l’identità tra insieme di viventi e loro ecosistemi, con la natura, a sua volta «sistema totale degli esseri viventi, animali e vegetali, e delle cose inanimate che presentano un ordine, realizzano dei tipi e si formano secondo leggi»3.
A partire dalla precedente definizione di ecologia e staccandoci dalla sua generalità, con ecologia umana possiamo intendere lo studio e il perseguimento dell’inviolabilità della vita umana in ogni sua fase e in ogni sua condizione, del rispetto della dignità della persona cui si collega anche quello della natura.
Ecologia dunque che, nelle sue diverse dimensioni, integra il posto specifico che l’essere umano occupa in questo mondo e le sue relazioni con la realtà che lo circonda4.
Infine la formula ‘ecologia integrale’ è stata lanciata con forza da papa Francesco nell’Enciclica Laudato si’.
Per essa tutto, tutt’intera la realtà di vita e ‘cose’ è in una relazione di coesistenza e dipendenza reciproca; nulla può essere considerato isolato, monadico. In particolare c’è un legame tra questioni ambientali e questioni sociali e umane che non può essere spezzato se non a danno sia degli uomini sia dell’ambiente. Conseguentemente non si può parlare di ecologia integrale senza mettere in gioco la nozione di bene comune.
Occorre a questo punto esplorare le componenti dell’architettura per individuare analiticamente le sue connessioni con l’ecologia.
Ha scritto Marco Vitruvio Pollione nel De Architectura (I.o secolo d.C.): «In tutte queste cose che si hanno da fare devesi avere per scopo la solidità, l’utilità, e la bellezza (Haec autem ita fieri debent, ut habeatur ratio firmitatis, utilitatis, venustatis)».
Attentamente esaminata questa formula resta tuttora valida guida per un progetto d’architettura, nel doppio registro delle tre componenti – firmitas, utilitas, venustas – non intese come fattori autonomi, ma in quanto coordinate da una regola – una ratio – che è anche il loro esito leggibile e quindi dicibile nell’opera compiuta. Nella ratio emerge l’orizzonte di senso che le forme architettoniche interpretano, esprimono e contribuiscono a istituire in vita vissuta.
A firmitas si connettono materiali, tecniche, tecnologie; contesto fisico, suolo, clima; funzionalità, economia; tutto ciò quindi che riguarda la costruzione di un’architettura.
A utilitas: contesto sociale, condizioni di lavoro, mercato, modi di vita.
A venustas: estetica collettiva, poetica individuale; qualità dell’abitato; capolavoro d’arte.
Da questo breve esame terminologico emerge chiaramente la possibilità di collegare strettamente tra loro il mondo dell’architettura e quello dell’ecologia umana integrale, fino a una sostanziale e sempre possibile loro identificazione.

Sottolineano questo nesso le recenti caratterizzazioni dell’architettura espresse da uno storico di vaglia, Curtis: «arte complessa che abbraccia forma, funzione, simbolo e fine sociale, tecnica e fede», essa risulta «radicata nei processi e nei paradossi della società» secondo procedure di assorbimento e modifica degli stessi «nella propria terminologia», in «regole parallele, non differenti».
Nel racconto storico, a suo dire, occorre un «giusto equilibrio tra la logica interna della disciplina e l’influenza di forze culturali, tra la dimensione sociale e quella personale, tra l’ordine unico dell’invenzione individuale e quello normativo e tipico»5.

 

 

Il patto uomo-natura e artificio-natura nella storia dei popoli

 

Scrive Annunziato: «Ogni volta che mi è capitato di visitare uno degli innumerevoli splendidi paesi medievali italiani mi sono chiesto come fosse possibile che l’uomo, molto tempo fa, seppure agendo individualmente, era in grado di creare insiemi urbani come se tutto facesse parte di un disegno funzionale ed estetico già predisposto da un grande artista. Era come se le particelle d’acqua di un vortice trovassero tra loro un accordo per girare tutte nello stesso verso. [… queste conoscenze] hanno consolidato la convinzione che quello che è successo ha a che fare con ‘la rottura di un patto evolutivo’ che abbiamo operato verso quella natura che sta dentro e fuori di noi»6.

 

 

Insediamenti Anasazi nel Parco nazionale di Mesa Verde (Colorado)

 

 

In effetti, nel passato molti popoli, nel costruire abitazioni, borghi e città, nell’ordinare e coltivare le campagne, nell’abitare colline e montagne hanno sviluppato una grande cultura ambientale, nella modernità sottostimata fino a essere dimenticata. La costruzione che oggi chiamiamo ‘casa passiva’, vale a dire energeticamente autosufficiente, ha importanti antenate, di cui richiamo tre significative.
Nel Parco nazionale di Mesa Verde, nel Colorado, area protetta negli USA di 211 km2 e patrimonio UNESCO, sono presenti i resti di numerosi insediamenti costruiti a partire dal XII secolo da popolazioni Anasazi, incassati entro tagli orizzontali della roccia, esposti a Sud, al riparo dai raggi del sole in estate ma non in inverno. Protetti dalla massa della roccia, ovviamente dotata di enorme inerzia termica, essi garantivano ai loro abitanti condizioni di comfort pressoché costanti lungo tutto l’anno.
Nei celebri Sassi di Matera si trova una intera città scavata nel tufo con abitazioni, chiese, labirinti sotterranei, meandri cavernosi, emergenze di campanili e spazi aperti. L’insieme ha dato luogo, grazie a complesse stratificazioni nel corso dei secoli, a uno straordinario paesaggio urbano, nel quale le costruzioni ipogee sfruttano l’inerzia termica del terreno; le acque piovane vengono raccolte in un sistema di cisterne; la conformazione del terreno e delle costruzioni ottimizza le potenzialità dell’irraggiamento solare.
Le torri del vento, magnifiche architetture tuttora presenti in molte aree dell’Europa orientale e dell’Asia, sfruttano l’energia eolica e il principio di convezione per mitigare il caldo estivo tramite ventilazione e raffrescamento passivo degli ambienti interni.

 

 

Paradigmi culturali contemporanei

 

Propongo qui di seguito in sintesi tre modelli concettuali o paradigmi cui tendono le attuali istanze ecologiche, individuandone anche le principali ricadute nei progetti di architettura e disegno urbano.

 

Il paradigma di equità sociale
Il paradigma di equità sociale è stato perseguito nell’Europa del XX secolo, con importanti ricadute nelle scelte architettoniche e di pianificazione urbana (si pensi alla grande diffusione di case popolari, di carattere pubblico e semipubblico, ma anche alla distribuzione di edifici con funzioni pubbliche come le scuole). sempre accompagnato da squilibri tra Nord e Sud nel pianeta e in più ristrette aree locali.
In architettura il tema del diritto di tutti alla casa e a condizioni igieniche di vita è stato il più dibattuto lungo tutto il XX secolo e il più perseguito fino ai suoi anni Sessanta-Settanta.

 

 

Il Karl Marx-Hof di Vienna

 

 

Per fare due celebri esempi, ricordo in primis il Karl Marx-Hof di Vienna, il più famoso complesso di edilizia popolare pubblica europeo, realizzato all’inizio degli anni Venti nel periodo della ‘Vienna Rossa’ su progetto di Karl Ehn, allievo di Otto Wagner.
In Italia, tra i moltissimi, cito il milanese Quartiere Harar-Dessié di edilizia economica popolare pubblica, realizzato tra 1951 e 1955, con il quale gli architetti Luigi Figini, Gino Pollini e Gio Ponti trasformarono i vincoli imposti dall’INA-Casa in occasione per configurare un sistema insediativo caratterizzato da un disegno urbano di grande qualità e a scala umana. Il quartiere fu dimensionato per accogliere 5.500 abitanti distribuiti in 942 alloggi.

In tempi recentissimi l’architetto Alejandro Aravena (premio Pritzker 2016, artefice della svolta marcatamente sociale della Biennale di architettura di Venezia del 2016) ha fatto risorgere Constitución, città colpita nel 2010 da terremoto e tsunami, con case pronte a metà, lasciando agli abitanti il compito di completarle: la rinascita venne iniziata subito coinvolgendo tutti.

 

Il paradigma tecnologico
Il paradigma tecnologico è questione di rilevanza mondiale oggi, emerso con prepotenza a partire dalla metà del XX secolo, in varie parti del mondo detto occidentale e presto divenuto paradigma caratterizzante l’intero mondo abitato.
Nella società industriale la grande disponibilità di energia a basso costo e la rapida evoluzione dei sistemi impiantistici di controllo climatico ha portato presto, tra fine XIX e inizio XX secolo e con grande diffusione dopo la metà di quest’ultimo, alla perdita del rapporto tra abitante e ambiente, edificio e clima, tipologia edilizia e luogo.
La forte componente di omogeneità internazionale dell’architettura moderna d’altro canto, benché molto attenta ai temi dell’igiene e del comfort, ha dato luogo alla realizzazione di edifici sostanzialmente identici in ogni parte del mondo, indipendentemente dalle differenze di clima, dei suoli, delle storie e culture locali.
In architettura tale processo è tuttora in pieno sviluppo; parzialmente contrastato sul piano teorico, resta tuttavia fenomeno estremamente pervasivo. Sua icona è il sistema addensato di grattacieli, anche tramite mediazione dell’orientamento ecologico (nei grattacieli infatti si applicano sperimentalmente principi di bio-architettura).
Nell’impossibilità, per ragioni di spazio, di riprendere i diversi tentativi di mediare tecnologia ed ecologia richiamo qui due episodi importanti: il progetto di Dymaxion House, ideata negli anni Quaranta del Novecento come prototipo, casa ad alta efficienza energetica che non entrò mai in produzione, una delle case costruite da Richard Buckminster Fuller (1895-1983), inventore, architetto, filosofo statunitense.

 

 

Prototipo di città di Paolo Soleri

 

 

Matura e complessa proposta è l’ecologia umana di Paolo Soleri (1919–2013), architetto torinese, vissuto per lo più in America, nel deserto dell’Arizona dove, a partire dal 1970, iniziò la costruzione di un prototipo di città come ‘strumento’ per concepire nuove città fondate sull’arcologia, sintesi di architettura ed ecologia. Auspicò frugalità di risorse e di energia, per vivere sfruttando il meno possibile l’ambiente e impostando un percorso etico per il futuro’7.
Due drammatici episodi della seconda metà del Novecento hanno segnalato i pericoli terribili che incombono sull’umanità qualora ci si affidi senza prudenza alle moderne tecnologie: l’episodio dell’ICMESA di Meda (Italia) e quello di Černobyl’ (Ucraina).
Il 10 luglio 1976 nell’azienda ICMESA di Meda vi fu la fuoriuscita e la dispersione di una nube della diossina TCDD, sostanza chimica fra le più tossiche. Il veleno investì una vasta area di terreni dei comuni limitrofi della bassa Brianza particolarmente quello della cittadina di Seveso. Il disastro ebbe notevole risonanza pubblica e a livello europeo portò alla creazione della direttiva 82/501/CEE, nota anche come ‘direttiva Seveso’.
Černobyl’ città dell’Ucraina settentrionale, a circa 100 km a nord di Kiev. Attualmente quasi disabitata dopo l’incidente nucleare del 1986, è stato un importante centro industriale e commerciale. La città, a solo 15 km dalla centrale, è stata relativamente poco colpita dagli effetti delle radiazioni, che si sono diffusi velocemente verso Nord, in Bielorussia. Il livello della radioattività locale è ancora oggi altissimo.

 

Il paradigma della vulnerabilità della natura e della responsabilità
Il paradigma della vulnerabilità della natura e della responsabilità delle comunità contemporanee, e dei singoli, nei confronti dell’ambiente e della sua trasmissione alle generazioni future, è tema filosofico e ecologico molto dibattuto, oltre che componente fondamentale della bioarchitettura.
Quest’ultima è l’insieme delle discipline dell’architettura che presuppongono un atteggiamento ecologicamente corretto nei confronti dell’ecosistema. In una visione caratterizzata dalla più ampia interdisciplinarietà e da un utilizzo parsimonioso delle risorse, la bioarchitettura tende a integrare le attività dell’uomo alle preesistenze ambientali e ai fenomeni naturali, per un miglioramento della qualità della vita attuale e futura.

Pratica architettonica rispettosa dei principi della sostenibilità, essa ha l’obiettivo di instaurare un rapporto equilibrato tra l’ambiente e il costruito, soddisfacendo i bisogni delle attuali generazioni senza compromettere, con il consumo indiscriminato delle risorse, quelli delle generazioni future.

 

 

Esempi di bioarchitettura

 

 

Suoi principali principi progettuali, che esigono il coinvolgimento di numerosi specialisti, sono:

  1. Ottimizzare il rapporto tra l’edificio e il contesto;

  2. Privilegiare la qualità della vita e il benessere psico-fisico dell’uomo;

  3. Salvaguardare l’ecosistema;

  4. Impiegare le risorse naturali (acqua, vegetazione, clima);

  5. Non causare emissioni dannose (fumi, gas, acque di scarico, rifiuti);

  6. Concepire edifici flessibili, riadattabili nel tempo con interventi di ampliamento o cambiamento d’uso;

  7. Prevedere un diffuso impiego di fonti energetiche rinnovabili;

  8. Utilizzare materiali e tecniche ecocompatibili, preferibilmente appartenenti alla cultura materiale locale.

 

 

Una domanda: cosa è per noi natura?

 

C’è tuttavia una domanda, semplice all’apparenza ma priva oggi di risposte chiare e concordi: cosa è per noi natura? Che esperienza ne abbiamo?
Nella storia del pensiero occidentale il termine natura ha avuto diverse interpretazioni. Essa è stata riconosciuta, fino a tempi recenti, soprattutto come principio generativo, in coerenza con il significato etimologico della parola (dal latino nascor, ‘sono generato’). Parlare di natura è parlare della vita, è chiamare in causa la responsabilità di ogni uomo nei confronti di ogni vita.
«Agisci in modo tale che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla Terra»: ha scritto H. Jonas nel suo celebre libro Principio di responsabilità8. Il filosofo non parla di responsabilità dell’uomo nei confronti di Dio, ma semmai della responsabilità di ogni uomo nei confronti del «creato», ciò a cui l’uomo deve rendere conto è il mondo e la vita. Da questo non consegue una affermazione postuma della nietzschiana «morte di Dio», il Dio di Jonas non muore ma certamente ne esce depotenziato, sofferente a causa dell’irresponsabilità umana9.
Come affrontare questo rovesciamento culturale? Può dunque l’uomo, con l’insieme organizzato delle forze da lui calcolabili, proteggere la vita, averne cura? Si profila qui la necessità di ripensare a fondo la condizione umana rispetto al lascito illuminista, aprendosi al tempo stesso alla presa di coscienza ormai matura della sua profonda connessione con la vita del cosmo.
Tornano d’attualità e in una nuova luce le interpretazioni della condizione umana formulate da Pierre Teilhard de Chardin (1881 – 1955).
Affermando che l’uomo, fenomeno umano chiave dell’Universo è «punto di fuga centrico nella natura», «cuspide dell’albero della vita», «vetta di un mondo in crescita», «freccia lanciata verso il centro di un Universo in via di raccolta», «onda frontale di un Universo che si illumina riunendosi in se stesso»10, non richiamava alla memoria un ‘uomo nuovo’, definito ideologicamente e autonomo, ma la posizione di una creatura consapevole di un destino positivo che lo accomuna al cosmo, al mondo naturale del quale è punto di fuga, vetta, freccia, centro, onda frontale, mai dimentica con tutto il creato del suo Creatore.

 

 

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Maria Antonietta Crippa
(Politecnico di Milano)

 

Note

  1. M. A. Crippa, Avvicinamento alla storia dell’architettura. Racconto, costruzioni, immagini, Jaca Book, Milano 2016, p. 8.

  2. Ibidem, p. 13.

  3. Si veda l’insieme di queste definizioni ulteriormente precisare nelle relative voci, in: www.treccani.it

  4. Oltre a indicazioni generali in www.treccani.it, si veda, anche per le riflessioni di Papa Benedetto XVI, E. M. Tacchi, Per una nuova ecologia umana: problemi, proposte e buone pratiche: www.educazionesostenibile.it/portale/images/stories/notizie_formazione/tacchi_8.pdf.

  5. W. J. Curtis, Introduzione e Conclusione, a: L’architettura moderna dal 1900, Phaidon, New York, 2006.

  6. M. Annunziato, Approccio sistemico ed energia diffusa. Una strada possibile verso la costruzione di ecosistemi urbani, in: A. I. Lima (a cura di), Per un’architettura come ecologia umana. Studiosi a confronto, Jaca Book, Milano2010, p.94.

  7. Per questi temi, cfr.: A. I. Lima (a cura di), Per un’architettura come ecologia umana. Studiosi a confronto. Scritti in onore di Paolo Soleri, Jaca Book, Milano 2010.

  8. H. Jonas, Principio di responsabilità, Einaudi, Torino 1990.

  9. S. Procacci, Hans Jonas: confrontarsi con la finitezza. Natura, etica e storia nel silenzio di Dio, Perugia, Morlacchi, 2012.

  10. Per queste formule si veda: H. De Lubac, Il pensiero religioso del padre Teilhard de Chardin, Jaca Book, Milano 1983.

 

 

 

 

 

 

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