Lo studio della storia della scienza è essenziale per il progresso delle scienze e la formazione dell’uomo. Una disciplina procede verificando continuamente i paradigmi di riferimento. Il lavoro degli scienziati è tanto più creativo e valido quanto più essi hanno coscienza della tradizione su cui si fonda. Una proposta controcorrente rispetto alle schematizzazioni della cultura contemporanea, spesso acriticamente assunte dai divulgatori scientifici più in voga.



A che può servire coltivare la storia della scienza? È utile farvi riferimento quando si presenta ai giovani una disciplina scientifica o un suo capitolo? Questa domanda ricorre spesso nella nostra Europa, divisa fra il rigido rifiuto del passato di matrice anglo-americana e la tradizione storicistica (historia magistra vitae).
Una risposta è possibile e direi doverosa, se non altro perché, secondo l’esperienza di chi insegna all’università, la generazione dei giovani che la frequentano in questi anni vorrebbe capire come si è giunti alla situazione culturale di oggi, specialmente per quanto riguarda la scienza. Forse tutti intuiscono che tale risposta non può essere che positiva; ma una riflessione sui suoi contenuti e sulle possibili applicazioni è da farsi quasi ex novo, perché la cultura dei mass media e le esigenze di mercato non hanno granché incoraggiato gli studi in questa direzione.
La stessa domanda posta all’inizio, in quanto sembra sottendere l’utilità come valore primario, è influenzata dalla mentalità dei nostri tempi. Ma non val la pena di dar peso a questa considerazione; piuttosto, se l’acquisizione di nozioni deve rispondere ad una scelta di utilità, restano da definire gli obbiettivi. Se essi sono il progresso della scienza e la formazione dell’uomo, viva l’utilitarismo. Ciò premesso, partiamo dalla domanda: che relazione c’è fra coscienza storica e progresso della scienza? Vi è chi risponde: nessuna. La scienza, si dice, è tale perché corregge i propri errori man mano che si sviluppa; perciò non avrebbe senso perder tempo a studiare il passato che, per la parte valida, è contenuto nella scienza di oggi.
Ma è davvero così?



Coscienza storica e progresso della scienza

Quest’argomentazione contiene in realtà ipotesi tacite e del tutto ingiustificate, soprattutto quella che, malgrado i meccanismi di controllo che pure esistono, la scienza non possa deviare, non possa imboccare vicoli ciechi, non possa costruire edifici che si rivelano incoerenti o instabili come castelli di carte. Invece questi sono pericoli che minacciano continuamente il progresso della scienza, il quale richiede una continua verifica delle ipotesi, dei modelli, della fedeltà ai programmi.
Per capirlo meglio, richiamiamoci a due filosofi della scienza che, pur dovendo molto del loro successo al favore di ideologie alla moda alcuni decenni fa, ebbero alcune intuizioni interessanti: parlo di Lodovico Geymonat e Thomas Kuhn.
Il primo scrisse nel 1977 un libro dal titolo Scienza e realismo. In esso, pur con attribuzioni un po’ forzate alla letteratura marxista-leninista, Geymonat proponeva molte idee interessanti. Fra l’altro, scriveva che «l’insieme perennemente fluido delle teorie scientifiche non può venir considerato come un edificio a se stante, isolato dai vari fattori che incidono sul suo arricchimento (le innovazioni della tecnica, i dibattiti metodologici, le stesse concezioni generali del mondo). Proprio per tener conto di questa composita struttura della totalità delle teorie scientifiche qui si propone […] di indicarla col nome di patrimonio scientifico-tecnico.» Il termine «patrimonio» è ben trovato, perché chi vive la ricerca sa meglio di tutti che ogni ricercatore sceglie i suoi problemi prendendo in considerazione la problematica esistente e gli studi passati, per poter apportare un contributo personale e originale; in altri termini, egli vede come suo compito l’apporto di sempre nuovi elementi a un insieme di conoscenze in continuo accrescimento e (aggiungiamo) in continua integrazione tra acquisizioni vecchie e nuove, di una disciplina e di altre.
Thomas Kuhn, dal canto suo, nel libro La struttura delle rivoluzioni scientifiche(1), introdusse un concetto non molto rigorosamente definito, ma certamente molto importante, quello di «paradigma» della scienza. Lasciando da parte il termine «rivoluzione», che egli applicava a supposte transizioni brusche da un paradigma ad un altro del tutto diverso, si deve riconoscere che egli aveva visto giusto in una cosa molto importante: la costruzione del patrimonio scientifico-tecnico avviene di regola in base a un sistema di ipotesi, modelli e canoni che restano abbastanza stabili per tempi più o meno lunghi, fino a che non emerge la necessità di rivederli. Si devono allora prendere le misure necessarie a conservar loro la capacità di guidare una corretta descrizione della realtà sensibile – gli enti che la costituiscono e le loro relazioni nello spazio e nel tempo.



Galileo e i «solennissimi buoi»

Armati di questi concetti, possiamo proporre una risposta più precisa alla domanda sull’importanza della storia della scienza. Facciamo anzitutto un esempio di portata generale.

Tra i non giovanissimi non vi è chi non ricordi il personaggio manzoniano di don Ferrante. Egli era uno di quegli scienziati che Galileo, da buon toscano, chiamava senza mezzi termini «solennissimi buoi». Ecco come ragionava, prima di morire vittima della spaventosa epidemia di peste descritta dal Manzoni: secondo Aristotele il mondo è fatto di sostanze (enti aventi una propria identità) e di accidenti (proprietà delle sostanze); ora, la peste non è né una sostanza né un accidente; pertanto non esiste.
La distinzione sostanza-accidente faceva parte di quello che Kuhn avrebbe chiamato il paradigma della scienza pre-galileiana, paradigma che, come tutti sanno, privilegiava il ricorso all’auctoritas rispetto all’osservazione e all’accettazione critica dei fatti. Se si leggono Galileo e gli altri grandi da lui ispirati (per esempio Robert Boyle, che preparò la transizione dall’alchimia alla chimica), si vede bene che la cosiddetta rivoluzione copernicana consistette effettivamente nel cambiamento dell’ordine di priorità fra osservazione e tradizione.
Alcuni pensano che proprio quest’esempio provi che il continuo ritorno alla riflessione sulla storia della scienza sia inutile. [Immagine a sinistra: Roberto Boyle (1627-1691)]
In realtà, si può dimostrare il contrario; e cioè che, se gli aristotelici del Seicento e lo stesso Galileo avessero guardato con occhio attento la storia, i primi avrebbero corretto il paradigma seguito, il secondo non avrebbe dato il famoso consiglio di «non tentar le essenze». Quel consiglio equivaleva a mettere in parentesi l’idea, di derivazione aristotelica e a quel tempo accettata acriticamente, secondo cui ogni cosa, in quanto è distinta dalle altre, deve la sua identità a una realtà intrinseca caratteristica (appunto l’essenza), non necessariamente coincidente con ciò che si osserva.
Il ritorno alle origini avrebbe rivelato che Aristotele era in realtà ben convinto della priorità dell’osservazione, anzi la sua «metafisica» era in parte un’estrapolazione della sua esperienza di biologo; anzi, era giunto al concetto di essenza nel tentativo di render conto del fatto che un organismo vivente cambia continuamente, dalla nascita alla morte, eppure rimane lo stesso organismo. Con il passare del tempo, si era dimenticato il referente biologico dei concetti aristotelici di ente e di essenza, potenza e atto, e l’applicazione di quei concetti era guidata da un’ibrida miscela di scienza e metafisica.
Più tardi, essendosi spostato l’interesse degli uomini di scienza sul moto dei pianeti e sulle macchine, si era affermato come esclusivo il paradigma della meccanica, sotto il nome ben noto di meccanicismo. Oggi, dopo la rinascita degli studi biologici e le grandi conquiste recenti (struttura del sistema nervoso, codice genetico, ecc.), è sorta la biologia integrazionista, che sta riscoprendo, sia pure in forma nuova e con un bagaglio di conoscenze specifiche molto più ricco, ciò che Aristotele aveva detto ventitré secoli fa.

 

 

Lo spirito critico

 

La lezione sembra chiara. Quando la continuità storica diventa una tradizione apodittica, acritica, e paralizza la ricerca, o si fa un riesame del modo in cui certe idee sono emerse o si deve fare un’azione di rottura, come fu quella di Galileo. In questo caso, però, si rischia di perdere qualcosa d’importante, come avvenne con il concetto di organismo.
Basti pensare che il vitalismo, l’idea che vi sia nei viventi una sorta di forza o fluido che sfugge alle leggi valide per la materia non vivente, non avrebbe fatto presa e non avrebbe ostacolato lo sviluppo della scienza, se ci si fosse resi conto che il paradigma meccanicista lasciava fuori tutto un campo di problemi ritrovati al giorno d’oggi addirittura dalla tecnica elettronica (si pensi al feedback) e dalla termodinamica dei processi irreversibili (si pensi alle strutture dissipative di Ilya Prigogine). [Immagine a destra: Rappresentazione del moto del Pendolo Sferico in condizioni caotiche]
Quanto abbiamo detto vale per meccanismi tuttora all’opera nella ricerca scientifica, in cui spiegazioni e problemi sono scelti molto spesso dando per certo e corretto solo e tutto ciò che è stato pubblicato da pochi anni.
Sembra evidente perciò che la presa in considerazione della storia, creando una coscienza chiara e critica del modo in cui si è andato formando il patrimonio della scienza nel corso del tempo, è la via maestra per conservare freschezza allo spirito critico, recuperare linee di sviluppo perdute, correggere tendenze a perdere di vista i problemi di fondo; insomma, per garantire creatività e validità al lavoro degli uomini di scienza, interesse per la ricerca seria e costruttiva alla riflessione degli uomini di cultura.
Questa conclusione riguarda sia la scienza vista come un tutto che le singole discipline. Si possono dare molti esempi, ma qui forse non è il caso di presentarli, perché sarebbe necessario entrare in questioni tecniche.

 

 

Le macromolecole di Staudinger

 

Veniamo piuttosto a un’altra domanda: è interessante ed utile soltanto la storia delle idee scientifiche, o anche quella dei singoli uomini di scienza? Forse basterebbe una risposta brevissima, anche se un po’ retorica: i primi versi dei Sepolcri di Foscolo. Ma poiché la moda intellettuale di oggi ha fatto dimenticare il valore dei grandi, è utile ricordare che tutti noi, anche secondo la psicanalisi, per fare delle scelte sia morali che intellettuali, cerchiamo un’imago, un riferimento a persone che stimiamo.

Le loro esperienze, difficoltà, successi sono per noi non solo una guida di vita, ma un aiuto per capire meglio la strategia da seguire (e i sacrifici che val la pena di affrontare) per la conquista della conoscenza.
Facciamo un esempio poco noto ai non specialisti: quello di Hermann Staudinger, il chimico tedesco che per primo si rese conto che certe sostanze erano fatte di molecole enormi, che chiamò macromolecole. [Immagine a sinistra: Hermann Staudinger (1881-1965)]
Per questa scoperta ebbe un tardivo premio Nobel nel 1953, dopo una resistenza di decenni contro i colleghi, convinti che molecole così grandi non potevano esistere. È famosa la sua dichiarazione, un giorno che tutto l’uditorio era contro di lui: «Hier steh’ ich, ich kann nicht anders (questa è la mia conclusione, non posso pensare altrimenti)». Se Kuhn avesse conosciuto un po’ di chimica, probabilmente avrebbe incluso fra le sue rivoluzioni questa di Staudinger; giacché questi mostrò che le proprietà che il paradigma corrente attribuiva a una molecola potevano rivelarsi troppo limitate quando, pur restando un edificio di atomi tenuti insieme da legami chimici, la molecola in studio era lunga centinaia di volte una molecola ordinaria.
In realtà, Staudinger vinse non perché si era messo contro la «scienza ufficiale», ma perché era restato più fedele degli altri al concetto originario di molecola, senza lasciarsi confondere da risultati secondari accumulatisi nel tempo.
La storia dell’uomo Staudinger (come quella di molti grandi scienziati più noti di lui) fa anzitutto vedere che certe virtù umane, oggi considerate superate, sono fra l’altro una condizione perché si possa dare un contributo valido alla scienza. In secondo luogo, è un invito agli uomini di scienza in atto e in formazione perché, quando incontrano fatti nuovi, ricerchino nel passato l’origine di certi concetti e principi, per seguire il filo della loro applicazione e affrontare con umiltà, ma senza vigliaccheria, l’eventuale disapprovazione di chi guarda solo alle ultime acquisizioni.

 

 

Conoscenze o surrogati?

 

Quanto all’inserimento della storia della scienza nella didattica di ogni giorno, nulla di più lineare e di più affascinante.
Perché non parlare della composizione dei moti cominciando dal famoso esempio di Galileo sulle mosche che volano avanti e indietro nella stiva di una nave? Perché non introdurre il concetto di elemento chimico riassumendo la critica di Boyle al concetto alchemico di elemento e raccontando come Lavoisier risolse il problema? Perché non spiegare che cos’è il campo elettromagnetico raccontando gli esperimenti e le teorie di Michael Faraday, James Clerk Maxwell, Hertz e altri? Perché non parlare di microbiologia cominciando da Francesco Redi, che nel 1668 sfatò il mito secondo cui le mosche nascevano spontaneamente dalla carne, o raccontando come Pasteur fu condotto a scoprire i vaccini? [Immagine a destra: James Clerk Maxwell (1831-1879)]
Non mancano testi su cui formarsi una coscienza storica e preparare delle bellissime lezioni. Ma, forse, anche chi ci ha pensato è stato scoraggiato dal fatto che si tratta di vecchi testi, e bisogna avere il tempo di trovarli e di studiarli con attenzione critica. Del resto, non sembra che l’idea di cultura scientifica che si ha oggi contempli questa possibilità. I formatori d’opinione pensano ancora che per presentare la scienza siano più valide immagini spettacolari, come le ricostruzioni visive dei dinosauri. A parte che, per chi opera nella ricerca e nella didattica, è difficile esser d’accordo con loro, c’è da domandarsi se le generazioni in arrivo, per quanto costituite da esigui manipoli di figli unici o quasi, saranno ancora disposte a lasciarsi gestire con questi surrogati di formazione scientifica, piuttosto che pretendere un ritorno a una cultura in cui la storia ha una parte essenziale.
A questo proposito, proprio un giovane studente ci ha segnalato una considerazione dell’illustre fisico Ernst Mach (1838- 1916) che riassume magistralmente la tesi che abbiamo sostenuto in questa nota: «La ricerca storica sullo sviluppo di una disciplina è indispensabile, se non si vuole che i principi che essa mette in gioco degenerino a poco a poco in un sistema di prescrizioni capite solo a metà, o addirittura in un sistema di dogmi.»

 

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Giuseppe Del Re
(Ordinario di Chimica Teorica presso l’Università di Napoli “Federico II”)

 

 

 

Note

  1. Il testo originale, del 1962, è stato pubblicato nella traduzione italiana nel 1969: T. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 1969.

 

 

 

Indicazioni Bibliografiche

  1. L. Geymonat (a cura di), Storia del pensiero filosofico e scientifico, Garzanti, Milano 1970.
  2. M. Mamiani, Storia della scienza, Laterza, Bari 1998.
  3. J. Jeans, Il cammino della scienza, Bompiani, Milano 1963.
  4. A. Masani, La cosmologia nella storia, La Scuola, Brescia 1996.
  5. P. De Kruif, Cacciatori di microbi, A. Mondadori, Milano 1963.
  6. J. Read, Dall’alchimia alla chimica, Longanesi, Milano 1960.
  7. R. Olby, Storia della doppia elica, Mondadori EST, Milano 1978.
  8. M. Gargantini, Uomo di scienza, uomo di fede, LDC, Torino 1991.

 

 

 

 

© Pubblicato sul n° 02 di Emmeciquadro