Anno 1948, in un dialogo radiofonico si affronta un tema di grande interesse sia per filosofi che per scienziati.
Per la prima volta Turing definisce le modalità del suo famoso test di intelligenza, per stabilire se si può distinguere un uomo da una macchina. Alla fine del secolo con lo sviluppo della tecnologia e con la diffusione di personal computer sempre più veloci, la risposta a questo interrogativo diventa fondamentale per un corretto rapporto con le «macchine pensanti» che usiamo quotidianamente.
Questa conversazione pone, con grande lucidità per il tempo in cui si è svolta, questioni su cui vale la pena di riflettere.



I partecipanti al dialogo radiofonico:

– Alan M. Turing (1912-1953), matematico;

– Richard B. Braithwaite (1900-1990), filosofo della scienza;

– Maxwell H. A. Newman (1897-1984), matematico;

– Geoffrey Jefferson (1898-1954), fisiologo.

Braithwaite
Oggi siamo qui per discutere se si possa dire che le macchine calcolatrici pensano in un qualche senso proprio del termine.
Di solito si considera talmente il pensiero come una peculiarità dell’uomo, e forse di altri animali superiori, che la questione può sembrare troppo assurda per meritare una discussione. Ma, naturalmente, tutto dipende da cosa si debba includere nel concetto di pensiero.
La parola è usata per coprire una quantità notevole di attività diverse. Lei, Jefferson, come fisiologo, quali direbbe che siano gli elementi più importanti coinvolti nel pensare?



Jefferson
Non credo che ci sia bisogno di sprecare molto tempo sulla definizione di pensiero dal momento che sarebbe difficile andare oltre frasi di uso comune, come avere idee nella mente, meditare, riflettere, deliberare, risolvere problemi o fare supposizioni.
I filologi dicono che la parola «uomo» è derivata da un termine sanscrito che significa «pensare», probabilmente nel senso di giudicare tra un’idea e un’altra.
Convengo che non potremmo più usare la parola pensare, in un senso che la restringe all’uomo. Nessuno negherebbe che molti animali pensano, benché in un modo molto limitato. Manca loro l’intuito. Per esempio, un cane impara che è sbagliato salire su cuscini o sedie, con le zampe inzaccherate, ma lo impara soltanto in quanto condotta che non paga. Non ha nessuna idea della ragione vera, cioè che facendolo rovina la tappezzeria.
La persona media forse si accontenterebbe di definire il pensiero in termini molto generali come considerare idee nella mente, avere nozioni nella testa, avere la mente occupata da un problema e così via. Ma è giusto aggiungere, che le nostre menti perdono la gran parte del tempo dietro a questioni di nessuna importanza. Si può dire alla fine che pensare sia il risultato generale di avere un sistema nervoso sufficientemente complesso.
Quelli molto semplici non procurano alla creatura nessun problema che non sia risolto da un semplice meccanismo riflesso. Pensare allora diventa l’insieme delle cose che accadono nel cervello, cose che, spesso terminano in un’azione, ma non necessariamente. Potrei dire che è la somma complessiva di ciò che fa il cervello di un uomo o di un animale.
Turing, cosa ne pensi? Hai una definizione meccanica?



Vai al PDF dell’intero articolo

A cura di Vittorio Sacchi
(Docente di Matematica nelle Scuole Secondarie di Secondo Grado. Membro della Redazione di Emmeciquadro)

© Pubblicato sul n° 05 di Emmeciquadro

Leggi anche

SCIENZA&STORIA/ Deum Creatorem Venite Adoremus. L’attività della Specola VaticanaSCIENZA&STORIA/ Prima della macchina a vaporeSCIENZA&STORIA/ La sonda Huygens – Cassini: un lungo viaggio tra i pianeti