L’originale esperienza di uno scienziato, che non si lascia imprigionare dall’apparente analiticità del suo lavoro: la bellezza è ciò che fa cogliere un nesso, un senso, attraverso l’impatto con un particolare. Può essere un’opera d’arte come la basilica di Sant’Ambrogio, ma anche la scoperta dell’esistenza dei vortici solitonici, oggetti strani e meravigliosi dell’ottica non – lineare.
Vorrei raccontare del mio lavoro. Ma in modo naif, come un bambino direbbe a chi gli chieda come va la vita. Che cos’è la bellezza? Un business da miliardi di dollari. Ma perché? E perché molti hanno cercato l’immortalità nell’opera d’arte? Non certo solo per paura! Ci deve essere un’esperienza, un fatto che accade, qualcosa per cui l’evento del bello si presenti a ciascuno come una questione cruciale, di vita o di morte, o meglio come la questione della vita di fronte alla domanda posta dalla morte. In effetti, che cosa c’è di più drammatico della bellezza? La bellezza è già una storia d’amore: svela l’oggetto del desiderio, tanto bramato quanto messo in dubbio dal triste sospetto del nulla eterno.
Ma che cos’è quest’oggetto?
Osservandomi in azione direi che la bellezza rivela l’unità dell’ io, e la rivela nell’impatto con un particolare, unico, concreto, affascinante, un particolare da fronteggiare perché tale unità sussista.
Anche nella ricerca scientifica è l’unità dell’io, cioè dell’esperienza, l’oggetto misterioso in cui mi imbatto nella inseguita e riscoperta unità tra i fenomeni naturali. Avere fiducia nella oggettiva esistenza dell’unità dei fenomeni e quindi di sé, rivoluziona il metodo di lavoro portandomi sull’orlo del «successo», di ciò che è accaduto e accade ora, di fronte alla bellezza dal volto umano.
Partiamo da un giudizio di valore. L’esasperata specializzazione del mio lavoro fa insorgere il ragionevole sospetto che io stia spendendo tutto il mio tempo lavorando in «università» per qualcosa di ben poco «universale». Per affrontare questa drammatica questione, per dar credito all’ambizione che mi trovo addosso, che cioè il mio lavoro sia posto al centro dell’universo, devo chiarire e chiarirmi i termini del problema: che significa «universale»? O meglio: pur nella mia abissale ignoranza, io che esperienza faccio dell’universo?
L’universo nella Basilica di S. Ambrogio
Il 25 Marzo 1985 capitò anche a me, come all’Alesa di Dostoevskij(1) e, immagino, a moltissimi altri, di trovarmi a desiderare di baciare e abbracciare la terra; mi accadde dopo avere fatto i miei primi passi nel quadriportico della basilica di S. Ambrogio in Milano.
[A sinistra: Basilica di Sant’Ambrogio, Milano]
Anni dopo, in una visita guidata da un geniale architetto, ho intuito che l’accaduto poteva non essere una stranezza, ma aveva anzi direttamente a che fare con il significato stesso di quell’opera d’arte. Diceva l’architetto: «La Basilica non è una moschea. Essa rompe l’isotropia per porre una precisa direzione, un verso unico. Un uni – verso, appunto: dal cortile esterno per i non battezzati, al quadriportico, alle navate fino al punto di luce nel tiburio davanti all’altare. Entrando nel quadriportico si percepisce fisicamente l’accoglienza dell’ambiente, non troppo grande né troppo piccolo. È una percezione di spazio, in qualche modo connessa a una estensione della percezione del proprio corpo. Ma appena uno riprende il cammino verso le navate ecco che la percezione si estende e coinvolge il dominio del tempo. Che cos’è il tempo? Se ascolto in silenzio, sento il mio cuore che batte, circa una volta al secondo. Così il susseguirsi periodico delle arcate nel quadriportico, e poi ancora delle volte nelle navate, pone nel tempo la direzione del cammino, suggerendo al fedele la domanda: da dove vieni? dove vai?»
Di fronte a tale domanda avrei potuto sentirmi perso nell’universo. E invece ero lì, nella mia casa accogliente, solidamente piantata in centro all’universo. Tutta «l’infinità» di spazio e tempo era presente, e la chiesa come una madre diceva: io ti conosco, riposati; il tuo passato esiste, non è un sogno; la verità di te esiste da sempre e anche il tuo futuro; passato e futuro sono così reali che ne puoi fare esperienza adesso, per la prima volta, e ciò grazie a uomini (coloro che hanno progettato e realizzato la basilica) vissuti molti secoli fa. Questo intendo per unità dell’io.
La bellezza e l’eredità ritrovata
La visione dell’ultimo film di Massimo Troisi, Il Postino, mi ha chiarito come la bellezza sia la scoperta dell’unità di sé, della verità di sé, di fronte alla morte.
[A destra: Massimo Trisi, Il postino]
Amicizia densa di eventi e scoperte ma alla fine gravemente ferita da un sospetto di inganno e di illusione: «Tu sei venuto, mi hai aperto occhi e cuore, e poi te ne sei andato via, lasciandomi solo», potrebbe dire Mario all’amico. Ma per affermare la consistenza dei fatti accaduti, per affermarne la verità, per far arretrare il nulla che avanza, Mario scommette invece, nella sua libertà, sull’esistenza del senso, spendendo la propria vita per affermare la verità di un altro.
Così egli si scopre figlio ed erede delle cose del padre: il paese, la gente, il mare, la barca, tutto ciò di cui grazie a Neruda riscopre la bellezza, sono gli stessi oggetti verso i quali, nella prima scena, Mario aveva ostentato davanti al padre l’estraneità più totale. Un padre muto, che non diceva parola, la cui opera Neruda porta, in un certo senso, a compimento: insegna a Mario il valore e il potere della parola; gli mostra come della vita e della morte sia possibile parlare. Non a caso il registratore su cui Mario registra per Neruda la bellezza del luogo, segno della ritrovata unità di sé, è installato su una carrozzina, simbolo della vita nuova.
La bellezza è quindi la riscoperta unità di sé, interamente ricostruita come in un perdono. Se il passato fosse un mero ricordo psicologico, il futuro avesse un termine ultimo e quindi il presente fosse una lama sottile tra due nulla, allora l’uomo altro non potrebbe essere che un replicante, come mi pare sostenga Philip Dick nel romanzo da cui è tratto il film Blade Runner. La bellezza, invece, è segno dell’unità dell’io.
Il mio lavoro: la ricerca nell’ambito dell’ottica non lineare
Sebbene i fenomeni fisici siano in generale descritti in termini del loro comportamento lineare, perché trattabile a partire da semplici modelli analitici, è evidente che in natura la dinamica non lineare è quella più frequente e che dà luogo a effetti di maggiore interesse. Intuitivamente, il comportamento di un sistema è non lineare quando differenze di tipo quantitativo sullo stato iniziale danno luogo a comportamenti qualitativamente diversi o, in modo equivalente, quando l’evoluzione di uno stato risente criticamente della presenza di un altro stato, con cui esso interagisce.
Per esempio, viale Fulvio Testi alle 5.30 del mattino della domenica mostra un traffico lineare, in cui il flusso delle poche auto è regolato solo dai semafori. Purtroppo è per tutti più frequente essere intrappolati nelle code serali sulle tangenziali, fenomeno questo chiaramente non lineare.
Il mio lavoro consiste nello studio di fenomeni non lineari in campo ottico. In particolare mi occupo della generazione e controllo di «solitoni» in materiali con una risposta non lineare di tipo quadratico, utilizzando intensi impulsi di luce della durata di pochi milionesimi di miliardesimi di secondo.
I «solitoni ottici» sono impulsi (o fasci) di luce in cui la non linearità impedisce ai fotoni di disperdersi, facendoli «correrere » auto – intrappolati uno nella scia dell’altro, come un gruppo di affiatati ciclisti.
Un esempio di solitone in ambito diverso è quello degli tzunami, enormi onde marine non dispersive che originano i famosi maremoti.
[A sinistra: L’uragano Mitch fotografato dal satellite il 26 ottobre 1998]
L’ottica non lineare consente di realizzare esperimenti relativamente semplici e di costo contenuto in cui gli effetti non lineari siano dominanti e di facile rilevazione. Infatti, grazie alla brevissima durata degli impulsi laser disponibili, si possono oggi ottenere intensità di campi ottici enormi per valori piccolissimi di energia, senza quindi rischio di danneggiamento dei materiali. L’ottica costituisce pertanto un ideale banco di lavoro per la comprensione della fisica non lineare in genere.
Il secondo aspetto consegue dalle rilevanti applicazioni di tale ricerca. Infatti, le proprietà ottiche di un dispositivo non lineare sono influenzate dalla luce medesima, fatto questo che consente di realizzare il controllo della luce con la luce, passaggio fondamentale per la possibile sostituzione dell’elettronica con la «fotonica». Anche se nella nostra cultura scienza e tecnica sono spesso contrapposte, il mio parere è che il paragone con una applicazione, con l’utilizzo reale di un bene derivante dalla scoperta scientifica, induca lo scienziato alla massima serietà verso il contenuto del proprio studio.(2)
Nel mio lavoro, conoscere non significa solo individuare i fattori che mi consentono di riprodurre un fenomeno, o verificare un modello con un esperimento. Conoscere è riconoscere in un nuovo fenomeno un tratto famigliare, qualcosa di cui si è già fatto esperienza.
La scoperta scientifica è scoperta del significato, l’accadere cioè del nesso tra il particolare e l’infinito, inteso come l’attuale, contemporanea e sperimentata infinità del dato della mia esperienza. La scoperta scientifica svela quindi l’unità di sé.
La domanda del bello e la scoperta dei vortici solitonici
Alla fine di agosto, dopo molti tentativi, quando stavamo ormai per lasciare il campo, ecco finalmente il risultato atteso.
Walter mi chiama in laboratorio dove sul video della telecamera appare nitida l’immagine di un vortice solitonico, identica a quella vista un anno prima sul video del computer, nelle simulazioni. Corriamo subito da Gintaras, il collega lituano che aveva fatto il calcolo, a dirgli che la sua idea era corretta, che davvero era possibile ottenerli.
L’avvenimento è tutt’altro che ovvio.
Infatti i vortici ottici solitonici erano ritenuti degli oggetti tanto interessanti quanto impossibili da osservare in sistemi reali, perlomeno nel caso in cui il meccanismo di sostegno per il solitone è la risposta quadratica non lineare del mezzo in cui essi si propagano.
Interessanti perché solitoni, cioè un modo in cui la luce viaggia senza disperdersi, come una particella, come un bit indistruttibile di informazione. Interessanti perché vortici, forme in cui il campo di luce si avvita su se stesso a spirale, portando inscritto un numero intero, la carica topologica, e cioè il numero, e il segno, di avvitamenti per lunghezza d’onda. Interessanti perché nello scontro tra vortici le cariche si sommano e sottraggono, consentendo di realizzare operazioni algebriche in futuribili dispositivi interamente ottici (senza elettronica!) ad altissima velocità (THz o più). Ma impossibili per la loro prevista instabilità che dovrebbe portarli ad autodistruggersi ancora prima di formarsi.
Ma torniamo ai fatti. Gintaras, invece che «baciarmi le mani», mi dice provocatoriamente: «Dato che i tuoi esperimenti, dopo innumerevoli sforzi, alla fine danno esattamente quanto io ho calcolato, mi spieghi che bisogno hai di farli? A me bastano i miei calcoli e le mie simulazioni. Tutto era già chiaro senza che tu me lo comprovassi con il tuo esperimento.» In effetti il codice da lui sviluppato è perfetto, per questi sistemi, e in tutti gli esperimenti che abbiamo fatto nel corso degli anni non ha mai sbagliato un colpo. Proprio questa certezza mi aveva fatto pazientare per un anno, fiducioso che se Gintaras aveva visto i vortici solitonici sul suo computer, prima o poi li avremmo dovuti scovare anche nel nostro laboratorio.
La sua provocazione mi trova spiazzato. In effetti, trovare un accordo tra esperimento e modello è banale, una volta che il modello è testato. Passo al contrattacco: «Secondo me, anche se tu hai trovato il trucco per stabilizzare i vortici, non hai capito davvero come funziona.» Lo avevo colpito al cuore. Dopo qualche attimo, mi dice: «Una teoria è bella, un lavoro ha senso se scopre qualcosa in un fenomeno che è comune ad altro, in campi diversi, che non si era mai notato prima.»
Neppure io, d’altronde, avevo capito. Me ne ero accorto subito, scrivendo la pubblicazione da mandare «di corsa» a un’importante conferenza. Avevamo infatti ottenuto il risultato il giorno prima della scadenza per inviare i contributi per la posteadline section e io ci tenevo moltissimo ad arrivare in tempo. Desideravo che i miei giovani collaboratori potessero avere un’occasione di verificare nel rapporto con altri scienziati il valore del loro lavoro. Certo del risultato avevo già prenotato per tutti, vendendo in un certo senso la pelle dell’orso prima di averlo ucciso. Ma scrivere si rivelava una impresa ancora più difficile dell’esperimento stesso: nel tentativo di proporre una «pittura fisica» del fenomeno finivo sempre a dire delle cose non certe, non supportate dai dati, non chiare. Alla fine arriva l’impiegato della DHL (non era possibile mandare il lavoro per posta elettronica), mezz’ora prima dell’ora stabilita. «Mi spiace – dico – ho appena finito di stampare, dobbiamo rileggerlo. Torni tra mezz’ora.» Per fortuna è stato via due ore.
Dopo aver letto il testo, Walter mi dice: «Peccato che non abbiamo misurato la velocità di scorrimento trasverso dell’instabilità. Sarebbe stato utile per capire meglio il meccanismo.»
Bisogna sapere che il trucco di Gintaras per stabilizzare i vortici, almeno per quello che credevo di aver capito io, era ottenere il solitone mediante la mutua interazione di due campi di luce propaganti in modo leggermente disassato, così da avere uno scorrimento trasverso della struttura di uno su quella dell’altro. Pensavo che questo continuo «cambiare le carte in tavola» avrebbe dovuto frenare la crescita dell’instabilità. Se ogni giorno il KGB avesse spostato le sue spie di qualche chilometro, queste avrebbero avuto un bel da fare a istigare rivolte e attentati. Intuitivo, pensavo. Ma falso.
Dopo la domanda di Walter, guardiamo insieme le simulazioni: le instabilità si muovono esattamente alla velocità di traslazione di uno dei due campi, senza nessuna apparente resistenza per il fatto che l’altro campo è fermo. Se questo meccanismo di slittamento mutuo dei campi stava davvero frenando la crescita della instabilità, mi sarei allora aspettato che esso dovesse ridurre anche la sua velocità traslazionale. In effetti, pensando a Garibaldi, non avrebbe fatto tutto quel che ha fatto se fosse stato fermo a casa sua. L’instabilità, viaggiando, trova nuova forza lavoro, mano d’opera fresca, da aggiungere alle squadre.
Gintaras esegue rapidamente un paio di simulazioni; io due telefonate ai massimi esperti del settore. È prorio così: le instabilità crescono meglio se viaggiano.
Ma allora perché i nostri vortici si erano stabilizzati?
A questo punto era però chiaro il motivo: i nostri fasci erano sufficientemente piccoli perché le instabilità finissero per essere rapidamente espulse fuori da essi, auto – spegnendosi. Come se mettessimo Garibaldi a Lampedusa: dopo un po’ che corre, va in mare!
La cosa era così chiara che in due minuti ho modificato il testo dell’articolo e l’ho spedito corretto (e in tempo). E al congresso, poi, è andata davvero bene, un successo.
Era bastata l’affermazione implicita nelle parole di Gintaras: il senso, la bellezza, è cogliere, o raccogliere, un nesso.
Era bastato il desiderio di tale nesso, la fiducia nella sua esistenza (non era possibile che tutto un anno di lavoro non avesse senso) per guardare al fenomeno in modo da comprenderlo. In modo da accorgerci che avevamo lavorato nella cieca certezza di un pregiudizio, convinti di un’ipotesi errata, senza neppure porci il problema di verificare la nostra intuizione.
E se lo avessimo fatto? Se ci fossimo accorti subito che la traslazione relativa aumenta l’instabilità invece che diminuirla? Probabilmente avremmo rinunciato all’esperimento.
Infatti, la scelta di fasci di piccole dimensioni è stata dettata da motivi contingenti, cioè dall’esigenza di rapidità di calcolo nelle simulazioni e dalla limitata energia degli impulsi, nel caso dell’esperimento. Non si pensava fosse determinante.
Se Cristoforo Colombo non avesse sbagliato nel calcolo delle reali dimensioni del globo, sarebbe partito ugualmente per le Indie, scoprendo le Americhe?
Se quegli studenti di liceo che hanno voluto verificare sperimentalmente la formula della capacità equivalente dei condensatori in serie e in parallelo(3) avessero saputo che il tempo di scarica del condensatore è infinito, avrebbero lo stesso realizzato il loro esperimento? Difficile a dirsi.
Ciò che appare chiaro è che l’errore non è affatto un brutto punto di partenza. A ben guardare, tutte le scoperte cui mi è capitato di partecipare sono sempre derivate da idee completamente sbagliate.
È quindi interessante capire come succeda, e succede sempre, che da un errore si giunga ad una comprensione adeguata. Io non ero stato neppure in grado di scovare dei fenomeni analoghi. È bastato il desiderio di tale nesso per riuscire a porre la domanda giusta: «le instabilità crescono o si spengono quando viaggiano?»
Quando si arriva a formulare una domanda del tipo vero o falso, allora si è giunti alla meta: il fenomeno è compreso. Esiste un criterio preciso per cui gli innumerevoli dettagli prima osservati e rimossi perché estranei, indifferenti, inutili rispetto al modello che si vuole affermare, diventano tutti preziosi indizi per discernere tra le due opzioni. In una domanda di tipo vero – falso, in una «verifica», ogni particolare diviene significativo nel suo ambito.
E porre la domanda è, in un certo senso, già comprendere, perché stabilisce la condizione operativa in cui è possibile prendere insieme tutta l’infinita ricchezza dei particolari. Un infinito altrimenti incomprensibile, irraggiungibile, mai contemporaneo allo scienziato.
Per porre una tale domanda è necessario un coraggio, una fiducia, che a volte mancano anche per un anno intero.
Fiducia in che? Nell’interlocutore.
È necessario essere certi dell’esistenza oggettiva del nesso tra il fenomeno particolare e tutto il resto, essere certi della comprensibilità del fenomeno per fissarlo, per stargli di fronte a lungo, per non ridurlo al modello.
La differenza tra i due approcci è certamente evidente quando l’oggetto di indagine è, per esempio, la salute della propria persona: è evidente quando un medico mi tratta per il modello che ha in testa (la malattia che pensa io abbia) o per l’infinita complessità di tutti i fattori che mi costituiscono, l’infinito attuale che sono io.
Pensiamo anche a un detective: se c’è il morto, c’è l’assassino; c’è un nesso tra gli avvenimenti; il senso c’è. In base a questa fiducia, mettendosi nei panni dell’assassino, Maigret risolve i suoi casi.
E chi mai dice al bambino che gli innumerevoli suoni che sente uscire dalla bocca di chi gli sta intorno debbano avere qualche correlazione? Un bambino scopre piano piano (ma neanche tanto) tutti i nessi tra i suoni delle parole; li scopre perché ci sono e impara quindi la lingua.
Il nesso è oggettivo, la realtà è «bella», e lo scienziato, come il bambino, impara piano piano il «linguaggio della natura». Ma per un beneficio: che la sua esperienza rimanga, sia conservata, perché il fatto di ieri possa riaccadere, oggi, nel suo significato.
E se persi in terra straniera, camminando di lato a una pozza col sole un po’ basso, vedessimo mai un raggio di luce riflesso dall’acqua fermarsi su un muro…..forse capiterà anche a noi di fermarci, e di chiederci stupiti perché questo secondo raggio se ne voglia tornare in su, da dove è venuto.
E se questo ci ricorderà la nostra casa lontana, dove vorremmo presto tornare, se ci ricordasse di noi?
Io direi che è proprio una «bella» pozzanghera.
L’autore ringrazia Maria Antonietta Crippa e Giacomo B. Contri per (spera) utili provocazioni.
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Paolo Di Trapani
(Dipartimento di Scienze Chimiche, Fisiche e Matematiche – Università dell’Insubria – Como)
Note
- Cfr.: F. Dostoevskij, I fratelli Karamazof, nel capitolo intitolato Cana di Galilea
- Per maggiori dettagli su recenti risultati della mia ricerca, cfr.: P. Di Trapani et Al., Phys. Rev. Lett. 80 (1998) 265; Phys. Rev. Lett. 81 (1998) 570; Phys. Rev. Lett. 81 (1998) 5133
- Cfr.: M.Cesana, M. Ferracane, Un esperimento sui condensatori, in: Emmeciquadro n. 5, aprile 1999.
© Pubblicato sul n° 07 di Emmeciquadro