L’autore propone un interessante «viaggio» nel mondo dei raggi cosmici. Si parte dalla loro scoperta, sostanzialmente casuale, per poi approfondire, in un contesto storico ben delineato, le implicazioni importantissime della fisica dei raggi cosmici in campi diversi quali le particelle elementari, l’astrofisica e la geofisica. È certamente questo uno degli aspetti più intriganti della scoperta dei raggi cosmici: l’aver permesso uno sviluppo e una collaborazione in settori diversi della fisica, portando a risultati estremamente importanti.
Nata nel 1912 dalla scoperta casuale di Victor F. Hess e W. Kolhörster, la fisica dei raggi cosmici rappresenta un esempio tipico dell’intreccio tra fisica e astronomia che ha caratterizzato lo sviluppo di queste due discipline negli ultimi centocinquant’anni. [Immagine a sinistra: Victor Franz Hess (1883 – 1964)]
Dallo studio dei raggi cosmici infatti è venuta sia la scoperta di importanti fenomeni fisici sia una migliore conoscenza dell’ambiente che circonda la Terra, da distanze ridotte, inferiori ai minuti ed alle ore luce, come quelle che ci separano dagli oggetti che popolano lo spazio interplanetario fino a distanze cosmologiche di parecchi miliardi di anni luce come quelle che ci separano dalle galassie più distanti.
Ripercorrendo la storia si possono individuare una serie di periodi caratteristici.
1912 – 1930. La scoperta
Nel tentativo di scoprire la causa della conducibilità dei gas, nel 1912 Hess montò una camera a ionizzazione su un pallone aerostatico con l’intento di misurare la variazione della conducibilità del gas contenuto nella camera con la quota: se la causa della ionizzazione e quindi della conducibilità del gas fosse stata la radioattività naturale del terreno e più in generale dell’ambiente che circondava la camera, si sarebbe dovuto constatare una graduale diminuzione della conducibilità fino alla sua totale scomparsa una volta raggiunta una quota sufficientemente elevata.
Hess constatò invece che, dopo una iniziale diminuzione, a partire da 700 m circa sopra il livello del terreno, la conducibilità del gas cominciava a crescere senza mai diminuire almeno fino a quote di alcuni chilometri raggiungibili con palloni aerostatici.
Ciò suggeriva l’esistenza di una radiazione ionizzante proveniente almeno da strati atmosferici più esterni a quelli raggiunti dai palloni aerostatici o forse addirittura dall’esterno dell’atmosfera terrestre. [Immagine a destra: schema del percorso dei Raggi Cosmici]
Ulteriori osservazioni mostrarono poi che questa radiazione era molto più penetrante di quella emessa dalle sostanze radioattive naturali scoperte pochi anni prima: forti spessori di materiali di ferro e piombo erano infatti insufficienti ad assorbirla completamente, mentre era noto che spessori anche modesti degli stessi materiali erano estremamente efficienti nel bloccare la radiazione emessa dalle sostanze radioattive naturali scoperte solo pochi anni prima da Henry Becquerel (1852 – 1908).
Inoltre fu ben presto evidente che, a parità di quota, l’intensità di questa radiazione sconosciuta diminuiva e la radiazione diveniva più «dura» se le osservazioni erano condotte in vicinanza dell’equatore geomagnetico (effetto latitudine) e mostrava una distribuzione asimmetrica rispetto al meridiano, con un eccesso di radiazione da direzioni poste a ovest del meridiano stesso.(effetto Est–Ovest).
Questi risultati portavano a pensare che la sorgente di questa radiazione fosse esterna alla Terra, per questo venne chiamata «radiazione cosmica» e i suoi componenti «raggi cosmici».
Per quanto riguarda la natura dei raggi cosmici, il fatto che la radiazione fosse influenzata dal campo magnetico della Terra suggeriva che i raggi cosmici fossero particelle energetiche di piccola massa dotate di carica elettrica prevalentemente positiva. Inoltre, il forte potere penetrante suggeriva che la radiazione avesse la stessa natura dei raggi gamma emessi da molte sostanze radioattive e fossero quindi onde elettromagnetiche.
Vale la pena di ricordare a questo proposito che, al momento della scoperta, i raggi gamma noti avevano energie massime di qualche MeV (106 ev) e che le uniche particelle (elementari) note erano gli elettroni, i protoni (nuclei di idrogeno), le particelle alfa (nuclei di elio) e i nuclei dei diversi elementi.
1920 – 1950. I raggi cosmici come sorgenti di particelle elementari
Allo scopo di studiare la natura dei raggi cosmici gli sperimentatori cominciarono a interporre, tra i contatori utilizzati per rivelare i raggi stessi, spessori diversi di materiali assorbenti diversi. Inizialmente si utilizzarono come rivelatori solo camere a ionizzazione, poi contatori di Geiger, quindi sistemi in grado di rendere visibile il percorso fatto da una particella carica come la camera a nebbia di Wilson e le emulsioni nucleari. [Immagine a sinistra: Un positrone dei raggi cosmici fotografato in una camera di Wilson immersa in un campo magnetico]
Questi studi mostrarono l’esistenza di una componente molle della radiazione cosmica, facilmente assorbita anche da materiali leggeri come l’alluminio, e una componente dura, in grado di attraversare forti spessori di materiali pesanti come il ferro o il piombo.
Si constatò anche che il rapporto tra componente molle e componente dura variava con la quota, suggerendo che la radiazione osservata a una determinata quota non era altro che il risultato prodotto dalle interazioni dei raggi cosmici con gli strati atmosferici posti al di sopra del luogo di osservazione.
Infine fu presto evidente che, mentre la componente molle poteva essere considerata come un insieme di particelle note come elettroni, protoni di bassa energia e raggi gamma, la componente dura conteneva raggi gamma e particelle di energia molto più elevata di quella delle particelle e dei raggi gamma associati alla radioattività naturale, ma soprattutto conteneva particelle di natura sconosciuta, soggette a interazioni sconosciute: spesso infatti queste particelle, al momento in cui si fermavano all’interno di un materiale assorbente, producevano una stella o uno sciame di nuove particelle [Immagine sopra a destra: la traiettoria (in rosso) di un postrone in una camera a bolle che si annichila creando un fotone (in giallo) che a sua volta si distrugge creando una copia elettrone-positrone che spiraleggiano in direzioni opposte poichè la loro carica è opposta]
Per analizzare ulteriormente questi fenomeni furono realizzati nuovi rivelatori e loro combinazioni (alla base dei metodi ancor oggi usati negli acceleratori) che portarono alla scoperta di nuovi fenomeni e particelle, prima sconosciute e allora considerate elementari. [Immagine a sinistra: collisione di un nucleo di azoto ad alta energia con un atomo in una emulsione nucleare, che dà luogo a uno sciame di mesoni]
In particolare, nel 1932 si ottenne la produzione di coppie da parte di un raggio γ e si scoprì il positrone; nel 1936 – 38 il mesone µ; nel 1947 il mesone π; nel 1947 – 49 le prime «particelle strane» come i mesoni K e agli inizi degli anni Cinquanta i primi iperoni come le particelle Λ e Σ. Si ebbero inoltre le prime evidenze di interazioni nucleari di alta energia con produzione di nuove particelle e il successivo decadimento di quelle instabili.
Essenziale in questo periodo fu l’attività di Giuseppe Occhialini e lo sviluppo della tecnica delle emulsioni nucleari.
I raggi cosmici vennero quindi, in breve tempo, considerati sorgenti di particelle elementari di alta ed altissima energia utilizzabili per studiare le interazioni nucleari, senza preoccuparsi generalmente della loro origine.
1940 – 1960. Scoperta della natura e dell’origine dei raggi cosmici
Tale atteggiamento di disinteresse non era però di tutti: fisici di valore come Enrico Fermi (1901 – 1954) e Bruno B. Rossi (1905 – 1993), e prima di loro Arthur H. Compton (1892 – 1962), si posero il problema della natura e dell’origine dei «raggi cosmici primari», quelli cioè che giungevano ai limiti dell’atmosfera terrestre dallo spazio esterno e che, interagendo con l’atmosfera stessa, producevano i «raggi cosmici secondari». [Immagine che segue a destra: Bruno Rossi e Giuseppe Occhialini]
Grazie all’aiuto di palloni stratosferici in grado di portare i rivelatori fino a quote superiori ai 30 km, dove lo «spessore» dell’atmosfera è ridotto a pochi g/cm2, fu ben presto chiaro che:
i) il flusso di raggi cosmici non aumentava indefinitamente con la quota, ma raggiungeva un massimo a una quota di 15 – 20 km (il cosiddetto massimo di Pfotzer), per poi diminuire fino a raggiungere un valore praticamente indipendente dalla quota, confermandone la provenienza dallo spazio esterno alla Terra;
ii) i raggi cosmici primari sono composti essenzialmente da protoni (90% circa, in numero) con flussi tipici di alcune centinaia di particelle/m2 sec sr (numero di particelle per unità di superficie, per unità di tempo e per unità di angolo solido misurato in steradianti), dipendenti dalla latitudine geomagnetica del luogo di osservazione, particelle α (10% circa, in numero) e tracce di nuclei L(eggeri), cioè Li, Be, B, nuclei M(edi), cioè C, N, O, F e nuclei P(esanti) cioè con Z > 9;
iii) caratteristico è il fatto che l’abbondanza dei nuclei L tra i raggi cosmici sia superiore all’abbondanza degli stessi nuclei osservate in altre situazioni astrofisiche;
iiii) gli spettri di energia tipici di tutte queste componenti sono leggi di potenza, N(>E) dE = K E-a dE con indice spettrale «-a» ~ -2.5, mentre le energie/nucleone tipiche sono nella regione dei GeV (109 eV), ma con energie massime (riscontrate in casi estremamente rari e usando metodi di rivelazione molto particolari) fino a 1020 eV.
La rivelazione della componente elettronica dei raggi cosmici primari richiese più tempo: la certezza della sua esistenza, suggerita dalle prime osservazioni radioastronomiche fu infatti ottenuta solo agli inizi degli anni Sessanta dopo lunghi sforzi, che videro ancora una volta un forte coinvolgimento del gruppo di ricerca di G. Occhialini.
La componente elettronica, composta per il 70% circa da elettroni negativi e per il restante 30% da positroni, pur rappresentando solo l’1% circa della radiazione cosmica primaria totale, riveste una importanza fondamentale in astrofisica: il moto di questi elettroni nei campi magnetici che permeano il mezzo interstellare all’interno delle galassie dà luogo alla radiazione di sincrotrone (emissione di radiazione elettromagnetica da parte di elettroni altamente relativistici in moto in un campo magnetico) rivelata dalla radioastronomia. [Decadimento π – e – μ osservato in un’emulsione nucleare]
Il fatto che tutte le galassie che osserviamo, anche le più distanti presentino tutte emissione di sincrotrone con un unico tipo di spettro ci dice che la componente elettronica dei raggi cosmici, e più in generale i raggi cosmici, non sono un fenomeno isolato, tipico di una particolare galassia, la nostra, ma sono prodotti e presenti in tutte le galassie e che in ciascuna di esse è presente un campo magnetico. Il fatto poi che accanto agli elettroni siano presenti positroni e che tra i raggi cosmici i nuclei L siano in eccesso rispetto all’abbondanza universale mostra che:
i) i raggi cosmici sono intrappolati dal campo magnetico entro le galassie. Combinando la massima energia osservata tra i Raggi Cosmici, circa 1020 eV, con le dimensioni tipiche della nostra Galassia, circa 100 000 anni luce di diametro, si può stimare per l’intensità del vettore induzione magnetica B nella Galassia un valore di qualche micro gauss;
ii) lo spazio interstellare non è vuoto ma contiene materia diffusa (~1 atomo/cm3) che interagendo con i nuclei M e P li frammenta producendo l’eccesso di nuclei L osservati;
iii) i protoni ad alta energia, interagendo con questa stessa materia, danno luogo a reazioni nucleari con produzione di mesoni i quali, decadendo, producono elettroni e positroni.
A causa di queste interazioni i raggi cosmici hanno una vita media, prima di venire distrutti o perdere completamente la loro energia, di circa 10 milioni di anni.
Pertanto, poiché la vita di una galassia è molto superiore, è necessario ipotizzare un meccanismo che mantenga sostanzialmente inalterato il flusso dei raggi cosmici stessi, producendone di nuovi e/o riaccelerando quelli che hanno perso energia.
Due sono i processi di produzione dei raggi cosmici che sono comunemente accettati: le esplosioni di Supernovae a cui segue la formazione di Resti di Supernovae, che con la loro forte emissione di radiazione di sincrotrone, mostrano che al loro interno esistono effettivamente elettroni altamente relativistici simili a quelli esistenti nella radiazione cosmica primaria, e i Nuclei Galattici, cioè i motori (sostanzialmente ancora sconosciuti) che, attraverso la combinazione di processi gravitazionali ed elettromagnetici, sviluppano l’energia che poi viene iniettata nella galassia che circonda il nucleo stesso.
Una esplosione di Supernova per galassia ogni 30 – 100 anni è in grado di spiegare il flusso osservato di raggi cosmici ed è consistente con la frequenza osservata di Supernovae nelle galassie esterne alla nostra. [Immagine a destra: Nebulosa del Granchio. Nel suo centro esiste una radiosorgente pulsante che potrebbe essere il residuo dell’esplosione di una Supernova]
Un punto critico di questi modelli è il modo in cui l’energia sviluppata in questi processi, certamente sufficiente a rendere conto del processo complessivo, possa essere parzialmente concentrata su poche particelle (i raggi cosmici) conferendo loro una energia media di qualche GeV, corrispondente a temperature di ~1013 K (T = E/k dove k è la costante di Boltzmann).
Tale energia è enormemente superiore a quella della maggior parte delle altre particelle presenti nello spazio le cui energie termiche difficilmente superano 103 K.
Si tratta di una sorta di «acceleratore cosmico», i cui meccanismi di funzionamento sono stati inizialmente studiati, per mezzo di modelli statistici, da Enrico Fermi. Sulla base delle ipotesi del fisico italiano sono stati successivamente sviluppati modelli più dettagliati.
1960 – 2000. Raggi cosmici, astrofisica, fisica delle particelle elementari
È evidente da quanto fin qui detto lo stretto legame esistente tra fisica dei raggi cosmici, astrofisica e fisica delle particelle elementari. Ma non è sempre stato così.
Fino alla fine degli anni Cinquanta, quando nel tentativo di interpretare le prime osservazioni radioastronomiche fu avanzata l’ipotesi che il principale meccanismo di radioemissione di interesse astrofisico fosse la radiazione di sincrotrone, l’astrofisica ufficiale, pur con le debite eccezioni, aveva dimostrato totale disinteresse per i raggi cosmici, erroneamente considerati un fenomeno secondario e quindi inadatto a sondare le proprietà del cosmo. Questa visione piuttosto miope fu superata solo dopo i primi anni Sessanta.
Dall’altro lato, agli inizi degli anni Sessanta, la nascente fisica delle particelle elementari, con l’avvento delle prime grosse macchine acceleratrici in grado di produrre fasci di particelle di natura ed energia ben note, con direzioni di moto ben definite, ha di fatto smesso di ricorrere ai raggi cosmici per studiare le interazioni nucleari di alta energia, cedendo quindi completamente il campo dei raggi cosmici all’astrofisica. [Immagine a sinistra: Ernest O. Lawrence (1901 – 1958), con in mano uno dei primi ciclotroni, di dimensioni enormemente più piccole di quelli realizzati in tempi successivi]
Questo atteggiamento si è protratto fino ai primi anni Novanta, quando ci si rese conto che le macchine acceleratrici praticamente costruibili non erano in grado di raggiungere le energie estreme necessarie a sottoporre a verifica le nuove teorie di fisica fondamentale. Iniziò così il riavvicinamento tra fisica delle particelle elementari e osservazioni dei raggi cosmici.
Sono stati sviluppati quindi metodi di indagine particolari o tecniche specifiche come lo studio degli sciami atmosferici estesi (cascate di milioni di particelle, generate attraverso una catena di interazioni successive, da raggi cosmici di altissima energia che colpiscono gli strati superiori dell’atmosfera) che superano il limite derivante dal fatto che il flusso atteso di raggi cosmici di altissima energia è bassissimo (lo spettro come detto è a legge di potenza con indice spettrale ~ -2.5) con il fatto che si usa come bersaglio per tali particelle l’intera atmosfera terrestre o parti sostanziali di essa.
Ciò ha dato vita all’attuale attività di fisica delle astroparticelle che, come dice il nome stesso, attraverso i raggi cosmici unisce gli studi in astrofisica con quelli in fisica delle particelle elementari, campi apparentemente separati perché centrati rispettivamente sull’infinitamente grande (l’Universo) e l’infinitamente piccolo (le particelle elementari).
1910 – 2000. Raggi cosmici, Terra e Spazio vicino
Come detto nell’introduzione, fin dalla scoperta è apparso evidente che i raggi cosmici, pur provenendo dallo spazio interstellare, nel giungere vicino alla Terra interagiscono con i campi e con l’ambiente che circonda la Terra, pertanto forniscono informazioni anche sulle condizioni esistenti in questo ambiente, in particolare sullo spazio interplanetario e sul campo magnetico terrestre.
Lo studio dell’«effetto latitudine» e dell’«effetto Est-Ovest» si sono dimostrati essenziali per capire la struttura del campo magnetico terrestre: in prima approssimazione questo è rappresentabile come un dipolo disassato rispetto all’asse di rotazione della Terra e spostato, rispetto al centro della Terra di circa 400 km. [Immagini a destra ed a sinistra: la differenza di angolazione tra l’asse magnetico e l’asse di rotazione della Terra]
La scoperta, avvenuta alla fine degli anni Cinquanta con il lancio dei primi satelliti, delle fasce di Van Allen (zone magnetiche che intrappolano attorno alla terra elettroni con energie prossime al KeV) ha ulteriormente contribuito a chiarire la natura del campo magnetico terrestre.
È stata poi scoperta l’esistenza di raggi cosmici di origine solare e l’interazione tra il vento solare (un flusso di particelle cariche di bassa energia che promana dal Sole e attraversa lo spazio interplanetario) con il campo magnetico terrestre.
Tale interazione produce una complessa struttura (la cavità geomagnetica) e modula (con un periodo caratteristico di 11 anni circa) il flusso dei raggi cosmici che dallo spazio interstellare penetra nello spazio interplanetario e giunge sulla Terra.
Lo studio di questi fenomeni è ormai un settore a cui collaborano fisici dei raggi cosmici, geofisici e fisici solari: esso ha trovato grande sviluppo con l’avvento dei satelliti artificiali e le sonde interplanetarie e sta producendo risultati utili anche sul piano pratico, come per esempio la previsione dei disturbi prodotti dall’attività solare sulle telecomunicazioni.
Conclusione
I raggi cosmici, oltre a essere interessanti per chiunque sia curioso del mondo naturale, hanno avuto un grande impatto sullo sviluppo della fisica, dell’astrofisica, della geofisica e dello studio del sistema solare, inducendo l’avvio di proficue collaborazioni tra settori apparentemente separati.
Tale risultato, totalmente imprevisto al momento della scoperta, mostra uno degli aspetti forse più divertenti della ricerca: l’imprevedibilità della natura.
Giorgio Sironi
(Ordinario di Radioastronomia presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca)
© Pubblicato sul n° 09 di Emmeciquadro