Un premio Nobel disponibile a parlare di sé e del suo lavoro, un tema di assoluta attualità e un incontro veramente cordiale sono alla base di riflessioni provocatorie sulla logica delle scoperte scientifiche. Esse testimoniano una concezione dello scienziato come un uomo che, più di altri, è capace di realismo nei confronti della realtà naturale. E documentano un modo di procedere delle scienze sperimentali che, costruito sulla sfida ad aprire campi di indagine alla frontiera della conoscenza, permette di compiere grandi scoperte. Dietro a ogni progresso della ricerca ci sono un’intensa riflessione critica e un duro e ostinato lavoro di sperimentazione.



Intervista rilasciata nel giugno 2000, in occasione di una conferenza tenuta a Milano nell’ambito dell’iniziativa Dieci Nobel per il futuro. Si ringrazia per la collaborazione Paola Emilia Cicerone di Hypotesis.

Si ringrazia Jessica Sa-Reed per la traduzione dall’inglese.

La sua formazione è nel campo della chimica. Come è passato alla ricerca sugli atomi di trizio e poi alla fotochimica e quindi alle scienze dell’atmosfera?



Per rispondere bisogna avere in mente un certo modo (una filosofia) di essere scienziati. Il divertimento è più grande e il lavoro è più difficile quando si affronta una ricerca di frontiera. Quando viene un’idea o si fa un esperimento per la prima volta, di solito non si ha l’attrezzatura adeguata, ma è veramente emozionante se l’esperimento riesce, o procede in modo soddisfacente. Allora si considerano i metodi e i materiali con cui si è lavorato, si migliorano le tecniche, si ripete l’esperimento e questo riesce anche meglio; si comprano attrezzature più sofisticate e la terza volta magari riesce ancora meglio. Verso la sesta volta si comincia a sentirsi molto felici perché si è in grado di prevedere quello che succederà e in effetti succede. A questo punto, con le attrezzature adeguate, quel tipo di esperimento può essere ripetuto e confermato dovunque.
Spesso c’è una forte tentazione di ripeterlo sette, otto, dodici volte perché si è diventati molto bravi e ci si diverte.
Allora è il momento di «fare le valigie» e andare da qualche altra parte ovvero, è ora di dedicarsi a un nuovo campo di ricerca. Ricominciano le difficoltà, perché i materiali e i metodi non sono adeguati e in più si ricomincia da capo anche a imparare cose nuove. Per fare un paragone legato all’esperienza che ho compiuto giocando nelle squadre di basket e di baseball negli anni dell’Università, è la situazione in cui si trova un giocatore esperto quando entra in una nuova squadra e i più giovani sono più bravi.
Ho sempre pensato che, volendo dedicarsi professionalmente alla ricerca, la cosa importante da fare era essere sempre in anticipo rispetto agli altri.
[A sinistra: Frank Sherwood Rowland (1927 – )]
La logica che cerco di applicare è quella di aggiungere regolarmente al mio lavoro cose sufficientemente nuove, allargare periodicamente le ricerche ad aspetti nuovi e stimolanti della chimica, in modo che si ricominci da capo.
Ma non si ricomincia mai completamente da capo. Per esempio, mentre lavoravo sugli atomi di trizio non volevo cambiare campo rivolgendomi alla psicologia, volevo fare chimica. Quindi una delle cose che potevo fare era studiare la chimica dell’atomo di trizio con un reattore nucleare. È possibile mettere degli atomi nel reattore nucleare (n.d.r. una miscela polverizzata di glucosio e carbonato di litio viene bombardata dai neutroni) e questi atomi subiscono una reazione (n.d.r. si ottiene con una reazione monostadio glucosio marcato al trizio). Così abbiamo anche trovato un sistema per analizzare gli atomi che ci interessano.
Ora, dal punto di vista chimico, invece di far avvenire la reazione nel reattore nucleare, si possono prendere gli stessi atomi e poi colpirli con la luce in un punto specifico. Così abbiamo ricominciato introducendo la luce, ma non abbiamo incominciato completamente da capo, perchè il sistema di analisi è ancora lo stesso. In questo modo è nata la fotochimica dei traccianti radioattivi, usando il trizio e il 14C.



Muovendomi nello stesso ambito e ampliando ogni pochi anni gli interessi e il campo di lavoro, ho utilizzato come traccianti prima il trizio radioattivo, poi mi sono interessato alla chimica dei cloruri e dei fluoruri usando gli isotopi radioattivi 38Cl e 18F.
Così ci accorgemmo dei Clorofluorocarburi. In un certo senso lo studio sui CFC è stato un ampliamento delle ricerche di fotochimica. D’altra parte, per me e per il mio gruppo, la chimica dell’atmosfera era un campo nuovo: lo avevamo scelto, ma non lo conoscevamo completamente, dovevamo ancora imparare cose nuove. Infatti, si pensa di conoscere abbastanza sulla chimica dell’atmosfera, ma nel corso di chimica non si insegna la meteorologia e così devi imparare di nuovo. Per esempio, quando si parla delle conseguenze delle radiazioni ultraviolette che arrivano sulla terra, si aprono argomenti di biologia, perché non si possono ignorare gli effetti sulla pelle.
Quindi «prendere le valige» e andare da un’altra parte significa anche imparare ogni volta cose nuove.

 

 

Come mai ha cominciato a studiare i clorofluorocarburi e come è arrivato alle scoperte che le hanno fatto vincere il premio Nobel?

 

Stavamo eseguendo un progetto di studio dell’atmosfera: un rilevamento delle molecole di cloruri e fluoruri. Avevamo fatto esperimenti con gli atomi di trizio e sapevamo che i CFC erano implicati la maggior parte delle volte ma non sempre. Ci chiedevamo come avrebbero agito nell’atmosfera. Questo era il punto: era un problema scientifico, non un problema ambientale.
È diventato un problema ambientale quando abbiamo capito che lungo la catena di reazioni un atomo di cloro e di fluoro aveva distrutto milioni di molecole di ozono.

Variazioni dello strato di Ozono sopra l’Antartide

Ogni volta che si fa un esperimento ci sono dei risultati incompleti, dei dati che solitamente sembrano strani, che non si capiscono; qualche volta sono davvero poco significativi, ma bisogna guardare anche questi «pezzi mancanti» e decidere se potrebbero essere importanti o no.
Quello che era importante nei CFC era che doveva essere scoperto ciò che accadeva loro. Come esperto di cinetica chimica e fotochimica sapevo che una simile molecola non avrebbe potuto rimanere inerte nell’atmosfera per sempre, se non altro perché nell’alta atmosfera le radiazioni ultraviolette l’avrebbero spezzata. Tuttavia, potevano essere immaginati molti altri possibili eventi e mi chiesi quali di questi accadesse. Ho continuato su questa strada e allora sono venuti i successivi risultati.

 

I clorofluorocarburi

I clorofluorocarburi (CFC), noti con il nome commerciale freon, sono gas che non esistono in natura ma sono stati sintetizzati intorno al 1930 e utilizzati come refrigeranti nei frigoriferi: CFC-11 (CCl3F), CFC-12 (CCl2F2) e CFC-13 (CCl2FCClF2). A partire dagli anni Settanta sono stati utilizzati anche per il condizionamento d’aria delle automobili (CFC-12), per la realizzazione di materie plastiche (CFC-11), per la pulizia di componenti microelettronici (CFC-13) e come propellenti nelle bombole spray (CFC-12 e CFC-11).
Misurazioni effettuate da James Lovelock (rese note nel 1972) rivelarono la presenza nell’atmosfera di CFC-11, sia nell’emisfero nord che in quello sud. Questa molecola sarebbe stato un eccellente tracciante per i movimenti delle masse d’aria perché è chimicamente inerte e non si sarebbe allontanata velocemente dall’atmosfera. Infatti, negli strati più bassi dell’atmosfera i CFC rimanevano indisturbati per decenni, invulnerabili alla luce visibile insolubili nell’acqua e resistenti all’ossidazione.
Nel 1974, Mario Molina e F.S. Rowland scoprono che nell’atmosfera, a circa 30 km di altezza, i CFC si disgregano per effetto della radiazioni ultravioletta solare, liberando cloro atomico altamente reattivo che attacca l’ozono atmosferico: ogni radicale libero di cloro rilasciato da una molecola di CFC, attraverso una reazione a catena, distrugge circa 100 000 molecole di ozono prima di tornare sulla terra come acido cloridrico.
Dal 1974 al 1987 la comunità scientifica ha realizzato un enorme numero di studi sull’atmosfera ma anche in laboratorio e su modelli arrivando a comprendere quasi completamente la chimica dell’ozono stratosferico e gli effetti dei CFC e dei prodotti della loro decomposizione.
Sulla base di queste informazioni i governi mondiali hanno formulato nel 1987 il protocollo di Montreal per la messa al bando dei CFC.

Durante un esperimento quando e come un ricercatore sceglie quale di questi problemi aperti affrontare?

 

Sarebbe semplice scrivere un elenco delle cose da scoprire, ma non è così: noi non scriviamo un elenco. Recentemente discutevo con dei colleghi israeliani sulle tendenze che vedo affermarsi tra i giovani negli Stati Uniti.
[A destra: l’Antartide dal satellite]
Al liceo scrivono elenchi dettagliati di ciò di cui hanno bisogno per «essere nel coro»: come devono comportarsi per prendere i bei voti che permetteranno loro di entrare nella società; anche quando scelgono l’università guardano qual è la professione che dà più soldi.
E qual è la scuola migliore? Scegli quella e vai lì. Chi è il professore più famoso? Se vai a studiare da lui quando finisci sarai uno scienziato abbastanza famoso.
Io invece farei così: se dovessi fare un elenco lascerei uno spazio in cui altri possano inserire quello che io eventualmente avrò fatto e che nessun altro ha fatto. Oppure metterei sulla lista ciò che non è su quella degli altri.
In questo senso mi viene in mente un periodo della mia vita giovanile in cui ero appassionato di storia della navigazione e avevo costruito un gioco di battaglia navale con realistici modellini in scala e eseguivo delle simulazioni utilizzando un complesso modello matematico per classificare ogni singola nave e gli effetti del combattimento su di esse.
In altri termini, chi fa qualcosa che nessun altro ha fatto, sta seguendo una propria strada. È molto importante percorrere una strada che sia la propria strada: non chiedermi cosa dovresti fare, fai qualcosa che è giusto per te.
D’altra parte, non esiste una ricetta per diventare famosi: a volte il successo è dovuto alla fortuna, ma molti pensano di esserselo costruiti da soli.

 

 

Quanto è importante il progresso tecnologico nella comprensione della chimica dell’atmosfera?

 

Anche se i ricercatori dell’atmosfera potessero fare misure di una parte su un miliardo non saprebbero ancora come agiscono i CFC nell’atmosfera. Tuttavia, se non si arriva a una parte su un miliardo, non si sa neppure che ci sono. Quindi, man mano che aumenta la sensibilità degli strumenti, fino al limite delle posibilità tecnologiche, cambia il modo in cui si vedono le cose e si può incominciare a capire.
Lo stesso vale per la precisione delle misure: la tecnologia attuale permette di rilevare differenze minime di concentrazione che si rivelano significative. Il progresso tecnologico consiste quindi in un aumento della sensibilità degli strumenti e della precisione delle misure: questo è successo nei trent’anni passati. Ecco perché possiamo fare quello che non potevamo fare prima.

 

 

Quali sono i suoi desideri per la ricerca del terzo millennio sulla chimica dell’atmosfera?

 

Personalmente non ho nessun particolare desiderio o progetto per la mia ricerca nel terzo millennio.
Ma penso che gli ambiti più interessanti della ricerca attuale siano legati all’apertura di nuove aree di indagine in cui è diventato molto importante l’aspetto della non predittività. Mi interessa molto anche ciò che si sta scoprendo nei ghiacciai, per esempio sulle Ande o sulle superfici ghiacciate della Groenlandia e dell’Antartide.(1)
Ma i primi studi ed esperimenti compiuti su questi enormi accumuli di ghiaccio non portarono risultati perché essi erano contaminati. Lo sviluppo di tecniche di decontaminazione improvvisamente ha aperto l’idea di analizzare le bolle d’aria per andare indietro nel tempo e scoprire come era la composizione dell’atmosfera nei tempi passati.

 

 

Nella sua autobiografia, ricordando le sue esperienze scolastiche e i primi contatti con la sperimentazione, lei racconta che furono esperienze piacevoli. Quali sono i fattori che rendono utile e piacevole un corso scientifico?

 

Il professor Fermi era un docente bravissimo; tutti hanno imparato molto andando a lezione da lui.
Il professor Libby era diverso: ogni sua lezione era una sfida. Dopo averlo ascoltato sapevi che era partito da un punto A ed era andato a un punto B ma non ti aveva detto che cosa era B.
[A sinistra: Willard Libby]
Il contenuto educativo della sua lezione stava proprio nel ricostruire come aveva fatto a fare quel percorso. Appena finita la lezione tutto sembrava chiaro, finché non si cominciava a pensare come aveva fatto.
Lavorando con Libby si capiva che era un genio. Cercando di capire il metodo con cui aveva compiuto le sue scoperte si imparava come fare il proprio lavoro di ricerca. Anche guardare il modo in cui Libby lavorava era una lezione.

 

 

Quali sono le cose importanti per una educazione scientifica?

 

È ingiusto e sleale dire vai da un premio Nobel per apprendere perché non ce ne sono tanti.
Uno dei più interessanti corsi che ho frequentato alla high school era quello in aeronautica. Era durante la guerra e l’insegnante non aveva mai insegnato prima alla scuola superiore e probabilmente leggeva il libro due giorni prima di noi, ma ho capito che lui si stava divertendo «mentre insegnava » e e stava imparando mentre insegnava.

 

 

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A cura di Maria Cristina Speciani
(Caporedattore della Rivista Emmeciquadro)

 

 

 

Frank Sherwood Rowland
Nasce nel 1927 a Ohio, nel Delaware. Dopo il diploma di scuola secondaria, studia alla Wesleyan University, frequentando corsi di chimica, fisica e matematica e successivamente al Dipartimento di Chimica dell’Università di Chicago sotto la guida di Willard F. Libby, che aveva appena finito di sviluppare la tecnica di datazione con il carbonio-14, per cui avrà il premio Nobel nel 1960.
La sua tesi di specializzazione in radiochimica riguarda lo stato chimico degli atomi radioattivi di bromo prodotti dal ciclotrone: esistono solo in concentrazioni minime, ma possono essere rilevati sulla base del loro decadimento radioattivo. In questi anni accosta alle esperienze accademiche una attiva partecipazione alle squadre universitarie di basket e di baseball. Si sposa con Joan Lundberg, una collega del corso di specializzazione, con cui ha condiviso oltre 48 anni di vita coniugale. Ha due figli: Ingrid e Jeffrey.
Nel 1952, conclusa la tesi di dottorato, lavora alla Princeton University presso il Dipartimento di Chimica.
Tra il 1953 e il 1955 compie un esperimento singolare: immettendo una miscela polverizzata di glucosio e carbonato di litio nel flusso di neutroni del reattore nucleare genera una sintesi (monostadio) di glucosio marcato al trizio. I risultati del lavoro, pubblicati su Science, danno impulso allo sviluppo di un nuovo settore della chimica: la chimica dei traccianti. L’Atomic Energy Commission finanzierà le successive ricerche.
Nei successivi quindici anni, prima all’Università del Kansas, poi a Irvine (Università della California) il suo gruppo di ricerca lavora soprattutto sulle reazioni degli atomi di trizio radioattivo.
Negli anni Settanta intraprende un nuovo percorso di ricerca, legato alle scienze dell’atmosfera: utilizzando la tecnica dei radioisotopi studia il destino delle molecole di clorofluorocarburi, da poco tempo rilevate nell’atmosfera. La scoperta che le radiazioni ultraviolette dell’alta atmosfera spezzano le molecole dando origine a una reazione a catena che distrugge l’ozono, pubblicata su Nature nel giugno 1974 e comunicata all’American Chemical Society nel settembre 1974, scatena il dibattito sulla riduzione globale dell’ozono e sui danni prodotti dai CFC.
Per questa scoperta, nel 1995, insieme a Mario Molina, riceve il premio Nobel per la Chimica.

 

 

 

Note

  1. Grazie alle bolle d’aria intrappolate nei ghiacciai, tanto più vecchie quanto più si scende in profondità, si possono studiare i mutamenti nella composizione dell’atmosfera.

 

 

 

 

 

 

© Pubblicato sul n° 09 di Emmeciquadro

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