La grande potenzialità della matematica come strumento per conoscere la realtà evidenziata in un campo di indagine specialistico, e spesso poco noto, ma strettamente connesso alla vita di ogni giorno. Un’occasione per capire che le capacità conoscitive e predittive dei modelli matematici applicati agli eventi economici possono influenzare la politica economica.
Quale sarà il tasso di inflazione o il tasso di interesse vigente in Italia nel prossimo anno? Perché la disoccupazione in Italia è così elevata e persistente? Qual è la dimensione ottimale dello Stato nell’economia? Tali quesiti, oltre a rivestire un certo interesse per la vita quotidiana di molti soggetti (famiglie, intermediari finanziari, aziende, politici) rappresentano alcuni dei problemi la cui risposta è affidata al lavoro degli economisti.
Da queste domande si può intuire che il compito dell’economista è quello di fornire (e/o sottoporre a verifica) spiegazioni di eventi economici passati o presenti e utilizzare tali spiegazioni sia per predire eventi futuri, sia per offrire prescrizioni di politica economica sulla base di un qualche criterio di desiderabilità di tali politiche.
Tipicamente, questi risultati sono conseguiti mediante l’uso di «modelli economici».
Un modello può essere considerato per l’economista ciò che un laboratorio rappresenta per un chimico o un fisico: attraverso il modello egli può svolgere le proprie «esperienze», trarne le evidenze necessarie per formulare nuove ipotesi, teorie o previsioni. La maggior parte dei risultati teorici avviene proprio mediante esercizi di statica o dinamica comparata (1) effettuati su tali modelli. Si tratta di esercizi in cui si osservano gli effetti sulle variabili dipendenti («endogene») provocati dalla variazione dei dati iniziali e/o i parametri del modello.
Non mancano, tuttavia, esempi di «esperimenti» in senso stretto, costituiti da riforme fiscali su campioni di popolazione, da interviste o test effettuati su individui in un laboratorio, allo scopo di dedurre le preferenze o i processi cognitivi degli agenti. Il più delle volte, tuttavia, gli esperimenti si svolgono indirettamente, o mediante gli esercizi sopra richiamati, oppure attraverso dati disponibili a seguito di shock «esterni», come riforme fiscali, l’aumento dei prezzi di certi prodotti, l’introduzione di nuove tecnologie.
Altre volte l’economista non ha, apparentemente, necessità alcuna di rapportarsi al reale, in quanto affronta problemi di natura teorica o comunque astratta, come la formulazione di teoremi, i quali possono riguardare persino grandezze non osservabili come, per esempio, una «funzione di utilità del consumatore» o «l’elasticità» della domanda di un bene.(2)
In base a quale criterio dunque un modello potrà dirsi corretto e quale realtà potrà dire di conoscere l’economista al termine della sua indagine? A queste domande tenteremo di dare una risposta. Prima, però, vedremo in dettaglio in cosa consiste un modello economico e metteremo in luce ulteriori tratti della ricerca economica sia comuni che distintivi rispetto alle altre «scienze applicate».
Gli ingredienti di un modello economico
Semplificando, si può dire che costruire un modello in economia significa: «rappresentare il funzionamento di un sistema economico mediante un sistema di equazioni in base all’adozione di una certa teoria».
Rappresentare il funzionamento di un sistema economico…
Il punto di partenza è costituito dalla «selezione del sistema» o campo di indagine: caratteristica tipica del lavoro dell’economista è proprio quello di poter scegliere i confini dell’indagine e il punto di vista da cui osservare i fenomeni. In sostanza, si tratta di individuare il campo di definizione (per esempio: famiglie, imprese, mercato di un certo prodotto) e le variabili rilevanti, che si dividono in «endogene» (variabili dipendenti), ovvero che si vogliono spiegare, ed «esogene» al modello, ovvero i dati e i parametri la cui variazione, appunto, è assunta esterna al modello (variabili indipendenti).
Scrive Francesco Filippi (a): «In altri termini, i confini dei nostri sistemi, [di variabili esogene ed endogene] saranno largamente e deliberatamente arbitrari, ma non nel senso che siano privi di significato […]. L’arbitrarietà dei confini è una manifestazione (la manifestazione?) della libertà che si apre all’economista teorico nella scelta della prospettiva della propria analisi: ma il piacere di tale libertà si gode solo quando l’arbitrarietà si cristallizza in una scelta precisa e la prospettiva di analisi resta così fissata. Essa però può essere mutata quando si cercano spiegazioni per altri fenomeni, così che saranno tracciati nuovi confini che dividano i vecchi sistemi in diversi nuovi sistemi o allarghino i confini dei precedenti fino ad includere variabili che prima ne erano escluse.»(3)
L’economista sembra dunque godere di un privilegio rappresentato, appunto, dalla libertà con cui può delimitare i confini del proprio campo di indagine e il punto di vista da cui osservarlo. Ciò, a nostro avviso, è dovuto sostanzialmente a tre ordini di ragioni.
In primo luogo, come accennato in precedenza, l’economista non manipola direttamente la realtà bensì la rappresentazione che di essa compie mediante il modello: come vedremo, egli infatti lavora principalmente su equazioni e grafici.
In secondo luogo, la capacità di indagine e gli strumenti disponibili all’economista sono, per quanto sofisticati, di gran lunga incapaci di esaurire la complessità dei fenomeni presenti nella realtà osservata, cosicché il ricercatore è costretto a muoversi continuamente per approssimazioni successive e a far leva sul proprio intuito. In altri termini, egli dovrà partire da un livello di analisi necessariamente semplificato al fine di far emergere quelle evidenze (in termini di legami primitivi) e domande che sole costituiscono i presupposti per una adeguata comprensione del sistema nel suo complesso e del ruolo che le singole componenti del modello svolgono nel conseguimento dei risultati; quest’ultimo scopo sarà poi completato, ex-post, dall’analisi di statica o di dinamica comparata (o di sensitività).
Infine, i fenomeni economici non sono descritti, il più delle volte, da leggi eterne e fisse: molte delle leggi presenti in economia sono infatti suscettibili di variazioni a causa del subentrare di nuove tecnologie, assetti istituzionali, mercati, gusti degli agenti economici. Quando fenomeni del tutto sconosciuti irrompono in un sistema economico, come per esempio è accaduto con la new-economy, quello che prima era considerato dato acquisito può venire rimesso in discussione, precisato.
Analogamente, ciò che prima nel modello era considerato esogeno può adesso essere interpretato come endogeno al modello stesso.
La «curva di Phillips» (b) è una relazione che lega il tasso di inflazione a quello di disoccupazione di un paese. Sul finire degli anni Sessanta la teoria su cui essa si basa fu criticata, in modo indipendente, da M. Friedman (c) e da E.S. Phelps , i quali, «introducendo esplicitamente le aspettative sui prezzi» nel modello, arrivarono ad affermare che la curva di Phillips è verticale «nel lungo periodo e che dunque non esiste alcun trade-off tra disoccupazione ed inflazione». I dati, successivamente, convalidarono l’importanza delle aspettative nella dinamica delle grandezze citate. |
In tal caso, più che di una libertà di scelta, si tratta di una «cogenza» o necessità, cui la natura dei fenomeni economici sottopone la ricerca.(4)
Avremo modo di tornare su questo punto nella sezione conclusiva.
…mediante un sistema di equazioni…
Per quanto riguarda le equazioni utilizzate nei modelli, le parole di Tjalling C. Koopmans (d) ci aiutano a specificare gli ingredienti propri della ricerca economica; tali equazioni, scrive l’autore, «di solito sono, al più, di quattro tipi: equazioni di comportamento economico, regole istituzionali, leggi tecnologiche di trasformazione ed identità.»(5)
Un modello dunque è caratterizzato da un sistema di equazioni rappresentanti un certo sistema economico. Alcune di esse descrivono i comportamenti di determinati agenti, tipicamente massimizzanti una certa funzione obiettivo (la «felicità individuale» se consumatori, i «profitti » se imprese, il «benessere sociale» se policymaker, eccetera).
Altre rappresentano i «vincoli» che a tale massimizzazione si oppongono, quali regole istituzionali (vincoli di pareggio del bilancio pubblico, la forma di mercato esistente nell’economia), leggi di trasformazione tecnica (la tecnologia produttiva disponibile, i vincoli di bilancio individuali) e identità contabili (per esempio la definizione del Pil, o la legge dinamica del debito pubblico).
… in base all’adozione di una certa teoria
Koopmans continua: «Sistemi di equazioni […] possono essere composti interamente sulla base della teoria economica.»(6)
L’altro ingrediente indispensabile alla costruzione di un modello è dunque la teoria: essa rappresenta l’elemento che informa e giustifica il sistema di equazioni poiché ne propone un significato, stabilisce nessi causali tra gli eventi rappresentati nel modello. Quest’aspetto qualifica ulteriormente il compito dell’economista: esso «non è tanto la mera elencazione di possibili cause di fenomeni, ma l’individuazione delle leggi e principi attraverso i quali tali cause operano.»(7)
Dalla necessità della presenza della componente teorica nella definizione di modello, discendono due corollari. Innanzitutto non si possono considerare modelli, né possono ritenersi del tutto soddisfacenti, quei lavori «applicati» che predicono eventi economici sulla base di stime econometriche senza ricorrere ad alcuna teoria, fornendo semplici «correlazioni » prive di giustificazioni. Inoltre, anche alla parte meno «creativa » del lavoro degli economisti, costituito dall’applicazione di formule contabili, (per esempio gli effetti macroeconomici di riforme previdenziali) sono sempre richieste giustificazioni ex-ante e verifiche ex-post proprio alla luce di considerazioni di carattere teorico.
Come si costruisce e si giudica un modello?
Analizzate le caratteristiche di un modello, vediamo ora se esistono e quali sono i criteri ai quali deve sottoporsi l’economista nella formulazione del modello stesso e con cui è possibile altresì giudicarne la validità.
Riguardo alla costruzione di un modello ci vengono in aiuto le parole di David M. Kreps(e): «Nella misura in cui il modello si prefigge di mostrare aspetti poco conosciuti e di migliorare la nostra intuizione di determinati fenomeni, un eccessivo livello di complessità […] è in genere nocivo. La scoperta di aspetti poco conosciuti e la stessa intuizione si fondano sulla comprensione -sulla capacità di riconoscere quali ipotesi del modello giocano un ruolo cruciale e, più in generale, cosa produce cosa. […] D’altra parte, i modelli troppo semplici portano troppo spesso a conclusioni erronee. […] Le migliori teorie e i migliori modelli sono quelli che superano prove di coerenza logica […] o di validità e, allo stesso tempo, ci forniscono intuizioni chiare e plausibili che non dipendono essenzialmente da artifici di tipo matematico.»(8)
Tale passaggio potrà sembrare ovvio a molti lettori, ma taluni economisti sembrano dimenticarsene e perseguire più un perfezionismo formale che non la reale comprensione dei fenomeni studiati. D’altro canto, è esperienza comune lo stupore carico di ammirazione verso autori che offrono spiegazioni plausibili e unitarie a singoli eventi prima ritenuti privi di legami: un esempio famoso è la teoria del ciclo vitale del consumo e del risparmio di Franco Modigliani(f).
Tale ammirazione aumenta quanto più tali spiegazioni appaiono intuitive, cioè ragionevoli in base alle conoscenze da noi possedute (era sotto gli occhi di tutti, ma nessuno l’aveva intuito!). Non sempre una spiegazione semplice dei fenomeni è a portata di mano, ma la tensione all’intuizione (cioè all’esperienza) crediamo sia una regola alla quale un economista non debba né possa mai sottrarsi.
Anche riguardo al giudizio su un modello ci lasciamo guidare da Kreps, laddove afferma che una teoria (in questo caso leggasi «modello») deve essere «empiricamente controllabile e empiricamente controllata, o sulla base dell’evidenza empirica o attraverso dati di laboratorio.»(9)
In altri termini, il modello deve possedere la caratteristica della verificabilità e della conformità alla realtà, ai dati, a conferma che il dato è il punto di partenza e di arrivo dell’indagine scientifica.
Soffermiamoci brevemente su tale principio: taluni, infatti, hanno enfatizzato eccessivamente il criterio della «capacità predittiva» dei modelli; in particolare Milton Friedman, in un suo celebre saggio del 1953 afferma che il realismo delle ipotesi non gioca alcun ruolo, l’unico criterio di giudizio essendo la capacità della teoria di fornire previsioni corrette. Tale affermazione ha dato inizio a un controverso dibattito di cui non possiamo dar conto in questa sede(10); tuttavia, per favorire l’intuizione dei termini del problema, assumiamo che siano disponibili due modelli, l’uno con risultati peggiori dal punto di vista statistico, ma con ipotesi più plausibili (per esempio, sul comportamento individuale), rispetto all’altro.
Nel decidere quale dei due preferire, il criterio di Friedman farebbe propendere senza dubbi sul secondo; tuttavia, se adottassimo quello che Kreps chiama «empirismo pragmatico combinato con intuizione», il primo meriterebbe considerazione «in quanto ha una maggiore plausibilità intuitiva, ovvero si adatta meglio […], informalmente parlando, ad un altro insieme di dati [rispetto cioè a quello da predire], quello attraverso cui si è costruita la nostra esperienza dei fatti.»(11)
In sintesi, il processo di formazione degli eventi è esso stesso un insieme dei dati del problema e come tale (anche se riveste una posizione diversa all’interno del modello) non può essere posto, a priori, in posizione subalterna rispetto ai dati che costituiscono l’oggetto proprio dell’analisi. Non possiamo non condividere, infine, le parole con cui Filippi commenta il pensiero di Friedman: «È questa la sensazione che si prova di fronte a teorie con assunzioni non vere; la loro capacità di sfornare previsioni corrette non riesce ad eliminare un gusto un po’ amarognolo, una insoddisfazione pervicace e fastidiosa: se il mondo non è, nemmeno sommariamente, descritto nelle assunzioni di una teoria perché mai questa dovrebbe penetrarne i meccanismi di funzionamento?»
Alcune riflessioni conclusive
Al termine di questo breve percorso, in cui abbiamo sommariamente chiarito in cosa consista la formulazione di un modello economico e quali siano i principi informatori di tale attività, potrebbe nascere il dubbio che la presunta maggior libertà di scelta dell’economista rispetto ai propri colleghi fisici o chimici sia ridotta a ben poca cosa, costretta in prescrizioni e vincoli di varia natura.
Di più, l’economista sembra già «pagare» il proprio privilegio con la condanna a protendersi continuamente verso la realtà sapendo che da questa sarà, come un elastico, respinto e attratto, confermato e successivamente smentito, e con il dover considerare le proprie scoperte e i propri modelli sempre tappe di avvicinamento alla verità, mai approdi definitivi.
Tuttavia, le fonti di tale precarietà non devono essere confuse, essendo di duplice natura.
La prima, infatti, è dovuta alla natura mutevole delle leggi economiche; questa non è causa di incertezza sui risultati della ricerca poiché, se la teoria e il procedimento sono corretti, il giudizio conseguito è vero e rimane definitivo, fino a quando qualcosa di nuovo non interverrà a confutarlo.
La seconda, invece, è relativa al fatto che si sono dovute escludere dall’indagine alcune variabili, potenzialmente rilevanti ai fini della spiegazione (e/o previsione) del fenomeno.
A nostro avviso questo aspetto dovrebbe suggerire all’economista un necessario distacco da sé e dalle proprie idee, per la coscienza di aver svelato solo un frammento, quand’anche importante, del grande mosaico della realtà; per questo egli non potrà mai completamente sentirsi appagato della spiegazione conseguita, ma dovrà proseguire a scrutare il nuovo orizzonte alla ricerca di fatti che confermino, modifichino o confutino i propri risultati. Del resto, questo non elimina il gusto prodotto dai nuovi approdi, dalla coscienza di aver contribuito a porre ordine nella conoscenza della realtà e, talvolta, al miglioramento del benessere degli individui.
In questo senso la libertà dell’economista si compie non tanto nella possibilità di scelta, ma nella tensione all’adesione, critica certamente ma non formale, a «ciò che c’è», ai dati del problema costituiti dalla tradizione scientifica e dalla realtà oggetto dell’indagine.
Luca Spataro
(Dipartimento di Scienze Economiche, Università di Pisa. Si è occupato di problematiche relative alla dimensione ottima dello Stato nell’economia e della riforma dello stato sociale, con particolare riferimento al sistema pensionistico italiano)
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NOTE
- La statica comparata si differenzia dalla dinamica a seconda che il fenomeno in esame sia «puntuale», per esempio il livello del tasso di disoccupazione in un certo anno, o un processo come per esempio, l’evoluzione del tasso di disoccupazione in un certo periodo.
- Propriamente, gli economisti si dividono in «teorici» o «applicati », a seconda che lo scopo dell’indagine sia la ricerca di leggi o principi generali di funzionamento dell’economia o, invece, la spiegazione di singoli eventi mediante l’applicazione di leggi note.
- Cfr.. F. Filippi, Modelli economici e analisi causale, NIS, Roma 1984, p. 38.
- Cfr.: C. Casarosa(g), Manuale di Macroeconomia, NIS, Roma 1996, capitoli 11 e 12.
- Cfr.: T.C. Koopmans, Identification Problems, in: Economic Model Construction, Hood-Koopmans (eds.), 1953, p. 21 [nostra traduzione].
- Ibidem.
- Cfr.: F. Filippi (1984), pp. 21- 22, commento a Mill (1909). Si veda anche E. Lindahl, Studies in the Theory of Money and Capital, Allen & Unwin, London 1939, p. 21.
- Cfr.:D.M. Kreps, Corso di Microeconomia, Il Mulino, Bologna 1993, pp. 27-28.
- D.M. Kreps, cit., pp. 22-23.
- Cfr.: F. Filippi, Introduzione, in: H.A. Simon, Causalità,razionalità, organizzazione, Il Mulino, Bologna 1985, pp. 9-39.
- Ibidem.
Riferimenti Biografici
- Francesco Filippi (1947 -) è Ordinario di Economia Politica presso l’Università di Pisa. Tra i suoi contributi: Modelli economici e analisi causale (1984) e l’Introduzione al volume antologico su H.A. Simon: Causalità, razionalità, organizzazione, di cui è curatore (Il Mulino, 1985)
- Alban William Phillips (1914-1975), inglese, ha insegnato, tra l’altro, alla London School of Economics (UK). Tra i suoi contributi più significativi: The relation between unemployment and the rate of change of money wage rates in the United Kingdom, 1861-1957, apparso su Econometrica (1958)
- Milton Friedman (1912 -), premio Nobel 1976, ha insegnato, tra l’altro, presso l’University of Chicago dove ha fondato la cosiddetta «scuola di Chicago» cui si sono ispirate le politiche liberiste dei governi Tatcher e Reagan degli anni Ottanta. Tra le sue opere: Essays in Positive Economics (1953); A theory of the Consumption Function (1957), Free to Choose , edito da Longanesi (1981) con il titolo Liberi di Scegliere
- Tjalling Charles Koopmans (1910-1984), olandese, premio Nobel 1975, ha insegnato a Yale (USA). Autore di numerosi scritti, tra cui Three essays on the State of Economic Science (1957) e Scientific Papers of T.C. Koopmans (1970)
- David M. Kreps (1950 -), americano, Docente di Economics presso la Stanford University (USA). Autore di: A course in Microeconomic Theory (1990).
- Franco Modigliani (1918 -), premio Nobel 1985, ha insegnato al MIT (USA). Le sue opere più significative sono raccolte nei volumi della collana Collected Papers of Franco Modigliani, (MIT Press, 1980-1989)
- Carlo Casarosa (1942 -) è Ordinario di Economia Politica presso l’Università di Pisa. Autore di numerosi saggi e di un importante Manuale di Macroeconomia (1991, NIS), per cui ha ricevuto il premio St. Vincent nel 1992
Indicazioni Bibliografiche
- M. Friedman, Essays in positive economics, University Press, Chicago 1953.
- J.S. Mill, Principles of Political Economy, Longmans, Green & Co., London 1909.
© Pubblicato sul n° 10 di Emmeciquadro