Significato e Senso nel Lessico Scientifico
Prosegue la riflessione, iniziata nel numero di dicembre 2002, sulla correttezza nell’uso del linguaggio scientifico, condizione necessaria per fare scienza, comunicarne i risultati e, ancora di più, insegnarla. Il termine «moto», messo a tema, individua un concetto centrale della fisica moderna e contemporanea. L’autore ne problematizza l’uso in base alla pregnanza di significati che acquista in diversi contesti teorici e fenomenologici.
Sul moto, come concetto e come fenomeno, si fonda tutta la fisica di oggi. Se ne occupava anche la fisica dell’antichità, ma il fatto nuovo è che oggi si mira a spiegare tutti i fenomeni, dalla scala astronomica a quella submicroscopica, come risultato del moto di particelle. Per esempio, le proprietà dell’atomo vengono spiegate con il moto degli elettroni intorno al nucleo, le proprietà di un gas vengono spiegate con il moto delle molecole che lo costituiscono. Nel primo caso vale la meccanica quantistica, nel secondo basta quella classica, ma sempre di moti si tratta. Persino la luce viene trattata come costituita da particelle specialissime, i fotoni. Alle particelle libere si attribuisce un moto caotico naturale, che obbedisce alla cosiddetta legge del caso: è questo il moto da cui, secondo la teoria più accreditata, sarebbe emersa la varietà molteplice e meravigliosa dei corpi di cui è fatto l’universo.
A prima vista sembrerebbe che, malgrado la sua grande importanza, non ci sia nulla di oscuro nel concetto di moto e nei concetti a esso associati. Invece, come vedremo subito, occorre aver chiare in mente parecchie precisazioni, non solo quando si vuoi presentare senza ambiguità la fisica a livello elementare, ma anche quando si fa una ricerca. Tant’è vero che tra i fisici sono in corso ancor oggi dibattiti che in ultima analisi dipendono da confusioni o da paradossi riguardo al «moto» allo «stato di moto».
Queste sono le ragioni di fondo per cui in questa nota vogliamo dare un contributo appunto alla chiarezza di idee sul termine «moto» , sui termini che ad esso si riconducono e sulle espressioni scientifiche in cui esso interviene.
Dalla parola «moto» al moto oggetto della scienza
Cominciamo con una considerazione generale. Il rischio di imprecisione nell’uso delle parole c’è anche in contesti non scientifici, ed è illustrato bene proprio dalla parola che ci interessa. Pochi avrebbero qualcosa da obiettare se si dicesse che “moto» è sinonimo di “movimento». Si possono fare molti esempi per giustificare quest’affermazione, ma non è affatto sicuro che essa valga in generale.
Riferendoci alle notizie preoccupanti di fine 2002, immaginiamo per esempio di leggere la seguente notizia d’agenzia: «Sembra che Bush abbia messo in moto la sua macchina di guerra: sono stati segnalati movimenti di truppe americane alla frontiera Turchia-Iraq », Se si mette «moto» al posto di «movimento» o viceversa in uno dei tre modi possibili si trova sempre che c’è qualcosa che non va. Quali sono le ragioni? Una è certamente che le ripetizioni suonano male, un’altra è che “moti di truppe» non si dice, e forse ce ne sono altre ancora. Approfondire la questione tocca ai grammatici: qui, ci basti notare che anche nell’uso ordinario una parola comunissima e che tutti capiscono può avere sfumature che sfuggono a un esame superficiale e che la rendono insostituibile per comunicare con esattezza un fallo o un pensiero. Questo vale anche se, dobbiamo ammetterlo, non è sempre facile dire dove sta la differenza fra due parole di significato affine.
La linguistica moderna ha anche messo in luce che difficoltà a proposito del significato di una certa parola, in particolare un sostantivo, possono provenire dal fallo che il suo referente – ciò a cui essa corrisponde nel mondo reale – può variare a seconda del contesto, come avviene appunto della parola “moto» in espressioni come «mettere in moto il motore» e «i moti dell’animo».
[Immagine a sinistra: Edgar Degas, Foyer di danza all’Opera (1672), Musée d’Orsay, Parigi]
Quando si passa dal linguaggio comune a quello della scienza, diventa indispensabile affrontare sistematicamente le difficoltà di questo genere, anche se sembrano sottili. Questo perché la scienza riposa su un duplice fondamento: cancelli rigorosamente definiti e falli sperimentali ben precisi.
Queste due categorie ovviamente vanno insieme, perché fine della scienza è correlare e spiegare i falli in forma esplicita e senza ambiguità, e ciò richiede parole che consentano di descrivere con precisione i fatti in termini di quei cancelli ordinatori che man mano divengono necessari, come quello di specie in botanica o quello di stato di aggregazione in termodinamica. Va dello anche che il discorso scientifico rappresenta un particolare tipo di contesto: perciò anche nel caso dei termini scientifici si deve tener conto di ciò che essi significano nel quadro di specifiche argomentazioni. È per questo che qui non dovremo limitarci a definire il moto e il suo referente nel mondo sensibile, ma dovremo occuparci dei contesti in cui esso si usa.
Veniamo ora al punto. Il moto divenne oggetto di studio specifico di una disciplina, la meccanica, quando Galileo enunciò il principio di inerzia, su cui riposa tutta la fisica. Una formulazione corrente di quel principio dice: «un corpo rimane nel suo stato di quiete o di moto rettilineo uniforme finché non intervengono azioni esterne”. Pochi notano che in questa formulazione c’è quasi una contraddizione, perché non si parla proprio di moto, ma di «stato» di moto. Perché?
Per rispondere, dobbiamo precisare cosa s’intende per moto nel contesto della fisica. Possiamo partire da una definizione provvisoria, dicendo che il moto di un corpo è il cambiamento nel tempo della sua posizione rispetto a qualcosa di fisso. Questa definizione, però, fa acqua da tutte le parti, a meno che non si precisino molte cose sul corpo in moto, per esempio se stiamo prendendo in considerazione il solo centro di massa o anche le rotazioni. Come è d’uso nella vera scienza, occorre cominciare semplificando al massimo, in modo da poter procedere con rigore.
Conveniamo perciò di riferirci per ora a un corpo che si possa trattare come un punto materiale P. Sulla posizione allora non ci saranno più ambiguità.
Ma cos’è il «qualcosa di fisso»? Se fosse semplicemente un altro punto materiale A, la posizione in questione sarebbe determinata solo dalla distanza P-A. Si vede subito che questo non va: perché allora non si potrebbe dire che P si muove rispetto ad A se in realtà percorre una circonferenza con centro in A.
Chiunque abbia studiato un po’ di fisica conosce la conclusione del discorso che stiamo cominciando: il riferimento fisso deve avere quattro punti distinti non complanari e immobili uno rispetto all’altro, e la posizione va definita istante per istante rispetto a questi quattro punti, per esempio con delle coordinate cartesiane. Il punto dolente a questo proposito non è la possibilità che qualcuno non lo sappia, ma che molti, non esclusi ricercatori di vaglia, hanno accettato questa formulazione senza mai domandarsi come e perché ci si è arrivati.
La cosa non è di lieve importanza: sia Galileo che Einstein arrivarono alle loro scoperte perché cercarono di capire cosa significavano esattamente certi concetti primari, moto, tempo, causa. Erano dei geni, ma dovevano alla scuola dei loro tempi la loro sensibilità al significato delle parole. Allora e fino agli anni della seconda guerra mondiale il compito di creare questo tipo di sensibilità toccava alle lingue classiche e alla filosofia. Oggi tocca a chi insegna scienze far capire che ci sono ragioni ben precise per un certo tipo di definizione.
Si potrebbe far vedere anzitutto, magari con una figura, qual è l’idea che conduce a riferire il moto a tre punti non complanari, o almeno sottolineare che solo riferendosi a tre punti fissi non complanari si ha la garanzia che il moto di P sarà lo stesso rispetto a tutti i punti che sono fissi rispetto a quei tre, che definiscono il «sistema di riferimento».
Chiamiamo A uno dei punti che consideriamo fissi, e domandiamoci: che cosa ci permette di stabilire che A è « fisso» e P no? La risposta, lo sappiamo, è immediata: nulla ci vieta di dire che P si muove e A no, e ha senso soltanto dire che uno si muove rispetto all’altro. Anche qui, volendo essere chiari fino in fondo, si dovrebbe avviare un lungo discorso. Ma forse non è tanto difficile, servendosi magari proprio dell’esempio dato da Galileo, le mosche nella nave, far vedere che un riferimento « fisso» può esser necessario, ma la scelta è arbitraria. Un altro esempio ben noto di questo fatto è quello famoso della sensazione che il nostro treno stia partendo quando un treno in arrivo impedisce di vedere la stazione. Eccoci finiti nella relatività galileiana: il moto e la quiete sono sempre relativi. La quiete è soltanto un moto con velocità nulla rispetto al sistema di riferimento scelto come fisso, che si suoi chiamare per semplicità «l’osservatore».
Ecco che abbiamo introdotto il termine «velocità”. Esso si definisce in modo rigoroso solo dopo aver introdotto, sia pure di soppiatto, i concetti di vettore e di limite; può anzi servire per introdurre questi concetti matematici a livello concreto e intuitiva. Noi qui ricorderemo solo che la velocità è relativa; è per questo che parlare di «assenza di moto», come fa qualcuno, può esser fonte di confusione. [Immagine a destra: Edgar Degas, Le defilé (1866-1868), Musée d’Orsay, Parigi]
Quando invece si parla di accelerazione le cose cambiano. Ce lo dice l’esperienza di tutti i giorni: se ci troviamo in un’automobile di gran lusso, e quell’automobile corre senza mai cambiare velocità su una strada perfettamente liscia e diritta, possiamo chiudere gli occhi, tapparci le orecchie e sognare di essere fermi o addirittura in moto nella direzione opposta a quella reale; ma se l’automobile accelera, agisce sul nostro corpo una forza che non possiamo ignorare nemmeno se non vediamo e non udiamo quello che accade intorno a noi.
Lo stato di moto
Detto questo, possiamo tornare a quell’espressione quasi contraddittoria che è «stato di moto”. Questo concetto si presenta quasi inosservato nella formulazione tradizionale del principio d’inerzia e non attirava grande attenzione fuori della meccanica analitica prima della meccanica quantistica; oggi invece è riconosciuto come l’oggetto primario della fisica nata con Galileo – quella fisica, cioè, che riduce il divenire di qualunque sistema fisico a moti di particelle.
Cerchiamo dunque di chiarirlo. Un corpo qualunque può muoversi in modo diverso a seconda dell’impulso ricevuto ai momento in cui occupava una certa posizione e delle forze esercitate da altri corpi, che eventualmente si muovono a loro volta seguendo leggi fisse: pensiamo per esempio a un pianeta o a un asteroide del sistema solare. Finché non avviene qualcosa che cambia la situazione in modo imprevedibile, come accadrebbe a un piccolo asteroide per effetto di una collisione, ii corpo che ci interessa ha realizzato uno dei tanti moti da cui può essere animato; e a tale moto è associata una «legge del moto”.
Sappiamo tutti cos’è una legge del moto, ma forse è meglio dirlo di nuovo perché chi ha familiarità con la fisica tende a identificare la legge del moto con la funzione del tempo che la esprime in linguaggio matematico; sembra un’identificazione senza problemi, ma non è così, e basta pensare a tutto il lavoro filosofico messo in moto dal Circolo di Vienna per rendersene conto.(1)
A meno che non si voglia ridurre la fisica a una costruzione che non ha riscontro nella realtà vera, ma solo in ciò che la realtà appare alla nostra mente, si deve pensare prima ai fatti e poi a come si rappresentano matematicamente. Diremo perciò che un moto segue una legge se ha luogo secondo una ben precisa traiettoria con una velocità che cambia nel tempo secondo regole ben precise. Per esempio, un corpo può muoversi su una retta passante per un certo punto dello spazio con velocità costante in valore, direzione e verso (moto uniforme), oppure con velocità costante in direzione e verso ma che cresce o decresce proporzionalmente al tempo (moto rettilineo uniformemente accelerato); oppure può muoversi con velocità costante in valore e con traiettoria circolare intorno a un particolare punto dello spazio (moto circolare uniforme); oppure potrà andare avanti e indietro secondo un ritmo ben preciso su un certo segmento di retta (moto periodico rettilineo); e così via.
Chiameremo allora «stato di moto» di un corpo «il suo essere in moto» in un certo modo, più precisamente «secondo una certa legge». Se il corpo considerato è in realtà costituito da più corpi, allora il suo stato di moto comprende tutti gli stati di moto di tutte le sue parti.
Il moto e la struttura della materia
A questo punto il lettore potrebbe domandare: dato e non concesso che tutte queste sottigliezze siano importanti per chi vuoi approfondire la meccanica, è veramente necessario perderci tanto tempo in vista di una presentazione elementare della fisica?
La risposta, peraltro già anticipata, è duplice. In primo luogo, l’idea stessa che ha suggerito le note di questa serie è che avere le idee chiare è indispensabile proprio per chi deve spiegare le cose fondamentali a livello molto semplice: quel che distingue il buon divulgatore e soprattutto il buon didatta è proprio la sua capacità di semplificare, magari con audaci metafore, senza perdere di precisione. In secondo luogo, l’impressione che introdurre il concetto di stato di moto sia abbastanza superfluo deriva dal fatto che il nostro riferimento è stato il “punto materiale».
In realtà, determinare lo stato di moto risponde alla domanda “come si sta muovendo questo corpo?», domanda che si potrebbe fare su un corpo qualunque. Ora, già descrivere lo stato di moto di un corpo semplice ma esteso è tutt’altro che banale, perché lo anima in generale una combinazione di diversi moti, magari interdipendenti. Le cose si complicano ancora, poi, se il corpo dato è un “sistema» costituito a sua volta da corpi interdipendenti che si muovono gli uni rispetto agli altri secondo leggi ben precise, come, a livello macroscopico, il sistema solare. Come abbiamo già accennato, studiare come tale lo stato di moto di sistemi del genere diviene un compito fondamentale nel programma conoscitivo della fisica di oggi, spiegare le proprietà dei corpi materiali in termini di moti delle particelle che li costituiscono. In questo consiste l’approccio meccanicistico alla struttura della materia, chiave dei grandi successi della fisica nata con Keplero e Galileo. In questo ambito si preferisce chiamare lo stato di moto complessivo “stato dinamico», perché dipende dalle forze tra le parti di un sistema, ma risponde ancora alla domanda: “come si stanno muovendo le particelle di questo corpo, visto che danno luogo a queste proprietà d’insieme?»
Naturalmente, in questo caso l’accento cade sui moti interni di un sistema fisico. Per chiarirci le idee, pensiamo anzitutto a un sistema macroscopico, come il sistema solare. Un suo stato di moto riguarda non solo la sua traslazione, diciamo verso la stella Siria, e la sua rotazione d’insieme, ma anche tutti i moti dei pianeti e planetoidi che lo compongono, nonché quelli del Sole (rotazione, precessione, rivoluzione intorno al centro di massa del sistema solare). Si può capire dunque come lo stato di moto di un sistema, cioè di un insieme di corpi considerato come un tutto, possa essere costituito da un insieme estremamente complicato di moti delle singole parti.
Per renderci meglio conto di quanto sia importante questo punto di vista globale, pensiamo al modello planetario dell’atomo. Come per il sistema solare, possiamo ottenere una descrizione dei moti che animano i corpi che lo compongono, gli elettroni e il nucleo, sia pure con le differenze quantitative e qualitative dovute al fatto che vale la meccanica quantistica. Quello che ci interessa nel caso dell’atomo, però, non sono i singoli componenti, è l’atomo stesso con le sue proprietà d’insieme.
[Immagine a sinistra: Edgar Degas, Fantini prima della corsa (1869-1872), University of Birmingham]
È necessario perciò ricorrere al concetto di stato di moto per indicare l’insieme dei particolari moti da cui sono animate le varie particelle, elettroni e nucleo. Tale stato di moto verrà chiamato «stato dinamico”, perché si pone l’accento sul fatto che il moto di ciascuna particella è determinato dall’interazione con le altre (essenzialmente l’attrazione elettrostatica nucleo-elettrone e la repulsione elettrostatica elettrone-elettrone); e lo si chiamerà addirittura «stato quantico” per sottolineare che, trattandosi di particelle submicroscopiche, è necessario adottare il punto di vista della meccanica quantistica.
Perché è importante tutto questo? Perché l’atomo ha le proprietà di una particella, in particolare un raggio, un volume e una massa; ha proprietà fisiche come la polarizzabilità, ha proprietà chimiche (la valenza) e così via; queste proprietà la fisica, che ha un programma «meccanicista”, le spiega come risultato dell’insieme dei moti interni degli elettroni (e in misura minore del nucleo), attribuendole appunto allo stato dinamico in cui si trova l’atomo caso per caso.
La cosa interessante è che un atomo può avere stati diversi, uno stato fondamentale di minima energia e vari stati eccitati, in cui si può disporre a causa di urti o dell’assorbimento di un fotone. In questi stati cambia il raggio, cambia la valenza, cambiano tante altre proprietà dell’atomo. Per esempio, quando si alza la temperatura di un gas di atomi di sodio, gli urti fra gli atomi, dovuti al calore, diventano abbastanza violenti da portare alcuni atomi in stati di energia più alta del fondamentale. L’energia in eccesso viene poi riemessa come luce, e lo «spettro» della luce del gas è costituito da righe di varie frequenze, ordinate secondo serie ben precise. Proprio da quest’osservazione nacque la teoria della quantizzazione degli stati atomici.
Non è il caso qui di continuare su questi argomenti affascinanti. Speriamo però che il cenno dato basti a convincere il lettore che, quando si usa il termine «moto», anche in un discorso scientifico di livello elementare, occorre essere consci dell’importanza che ha il concetto a cui corrisponde la parola e non lasciarlo mal definito solo perché intuitivamente si capisce di che si tratta.
Giuseppe Del Re
(Ordinario di Chimica Teorica presso l’Università di Napoli “Federico Il”)
Note
- Circolo di Vienna, ispirato dal grande fisico Ernst Mach, fu fondato nel 1920 da Moritz SChlick, e dette inizio a quelle correnti di riflessione sulla scienza che vanno sotto il nome di positivismo logico e empirismo logico. Le più note personalità che a esso si ricollegano sono A. Carnap e K. Popper.
© Pubblicato sul n° 17 di Emmeciquadro