Nell’insegnamento della fisica ancora oggi non si dà affatto per scontata l’importanza della soluzione dei problemi per un apprendimento realmente consapevole e critico, e quindi creativo.
L’autore mostra come il «problema» non sia qualcosa di esterno o accessorio alla scienza fisica, ma è parte essenziale del procedere stesso della conoscenza scientifica, e quindi non può che esserlo anche del suo insegnamento.



Se è vero che l’apprendimento richiede un’esperienza personale intesa come consapevolezza critica di un cammino di crescita, il momento della comprensione e il momento della applicazione non possono ritenersi separati né in senso temporale, né come genesi, ma solo distinti, in quanto richiedono modalità di lavoro diverse.
Questa osservazione non solo indica una metodologia didattica, ma richiama anche una caratteristica fondamentale dello statuto del sapere delle scienze sperimentali.
Il continuo intreccio, nella scienza, di ipotesi, esperimenti, situazioni problematiche, modelli talora contrapposti che cercano di interpretarle, costituisce un contesto complesso e avvincente in cui si svolge l’avventura umana dei singoli scienziati, ben lontano da una semplice enunciazione di regole, che ne costituisce un’arbitraria riduzione.
C’è il rischio che questa riduzione sia praticata, più o meno consapevolmente, nella didattica, quando essa sia rivolta quasi esclusivamente a esporre, sia pure in modo rigoroso, l’apparato teorico.
Nella fisica, l’esposizione della teoria, ricalca, talora, un procedere tipico della matematica (ciò non è strano perché il linguaggio della fisica è un linguaggio matematico). Esistono cioè definizioni, principi (analoghi ai postulati), teoremi, dimostrazioni, insomma tutta la logica di un procedere assiomatico e dimostrativo, anche se talora un po’ zoppo, perché non sempre è possibile far uso del linguaggio matematico adeguato, in molti casi non ancora noto agli studenti.
La comprensione è poi resa più difficoltosa dal fatto che gli «oggetti» di cui si parla, (per esempio velocità, lavoro, quantità di moto, energia, calore, eccetera) non hanno una consistenza autosufficiente, come gli oggetti della matematica, ma hanno un riferimento preciso, anche se non sempre immediato, a una realtà esterna di cui costituiscono uno schema ideale semplificato.



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Lorenzo Mazzoni
(Insegnante di Fisica e membro della Redazione di Emmeciquadro)

© Pubblicato sul n° 18 di Emmeciquadro

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