In occasione del cinquantesimo anniversario dell’identificazione della struttura a doppia elica del DNA, l’autore ripropone e commenta passi originali di Watson e Crick, come tappe del complesso cammino di ricerca, sperimentale e teorico, a cui, nella prima metà del XX secolo, diedero contributi significativi molti scienziati operanti in diversi campi. Un quadro complessivo che offre elementi storici inediti, riflessioni mirate e ricordi personali che costituiscono un «valore aggiunto» rispetto alle numerose recenti ricostruzioni divulgative.



L’articolo è pubblicato nella versione inglese su FEBS Letters 544; 1-3 (2003)

«La natura chimica dei geni è sconosciuta. Essi sono probabilmente proteine, perché gli acidi nucleici consistono di (pochi) blocchi di tetranucleotidi (Levene 1930). Questa struttura semplice li rende improbabili candidati come portatori della grande quantità di informazioni necessarie per agire come geni.»
Questo punto di vista, che oggi sembra così strano, era condiviso dalla maggior parte dei biologi quando, nel 1946, stavo preparando l’esame di biologia alla facoltà di Medicina. A partire dal 1906, in una serie di lavori classici, il gruppo di Levene e altri ricercatori avevano identificato il D-ribosio e il 2-deossi-D-ribosio come gli zuccheri presenti rispettivamente nell’RNA e nel DNA.
Avevano anche identificato le purine e le pirimidine, localizzato il legame fosfodiestere tra gli zuccheri e classificato il legame tra zucchero e la purina (o pirimidina) come glicosidico. Il lavoro di Levene terminava suggerendo una struttura a tetranucleotidi sia per l’RNA che per il DNA: ipotizzava che gli acidi nucleici fossero costituiti da un (ignoto) numero di blocchi costruttivi, i tetranucleotidi, ognuno costituito da quattro zuccheri, quattro fosfati e da una per ciascuna delle quattro basi. Usando le sue parole: «la teoria del tetranucleotide è il minimo peso molecolare e l’acido nucleico può essere un multiplo di questa unità.» (Levene e Bass, 1931, p. 289 (2)). [Immagine a sinistra: Phoebus A.T. Lavene (1869-1940)]
Curiosamente, i dati analitici non indicavano rapporti uguali tra le quattro basi (per esempio 1:0,6:1,2:0,8); la deviazione dai rapporti 1:1:1:1 era attribuita alla mancanza di precisione nelle procedure di precipitazione usate per isolare le singole basi.
In effetti, l’ingannevole «meravigliosa semplicità» della struttura tetranucleotidica e l’autorevolezza di Levene bloccarono la ricerca di strutture alternative per gli acidi nucleici e, ciò che è peggio, rappresentarono un ostacolo ulteriore a che il lavoro (ora «classico») di Oswald T. Avery, Colin M. MacLeod e Maclyn McCarty (1944) (1) fosse accettato rapidamente e universalmente. [Immagine a destra: Oswald T. Avery (1877-1955)]
Come la maggior parte dei lettori sa, Avery e i suoi collaboratori purificarono dal Diplococcus pneumoniae una sostanza molto viscosa, che trasformava un ceppo di batteri in altri con capsule polisaccaridiche immunologicamente differenti.
Il ceppo trasformato era geneticamente stabile. Il fattore trasformante, altamente viscoso, quando era purificato per mezzo di una procedura molto accurata e non distruttiva, presentava le caratteristiche del DNA: a parte le prove delle analisi chimiche, non era attaccato dalle ribonucleasi, dalla tripsina o chimotripsina, ma era inattivato dalla DNasi grezza.
Quattro anni più tardi, questo fu confermato con l’uso della DNasi cristallizzata messa a loro disposizione da Moses Kunitz (1887-1978).
I risultati di Avery e dei suoi collaboratori furono in breve tempo confermati da altri gruppi, ed estesi alle trasformazioni di altri batteri. I genetisti più importanti non ebbero difficoltà ad accettare l’idea che queste trasformazioni fossero dovute all’isolamento chimico e al trasferimento di geni e non all’induzione di una mutazione. Le osservazioni di Avery e dei suoi collaboratori fornirono una notevole spinta alla genetica batterica, un campo di ricerca allora ancora all’inizio.



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Giorgio Semenza
(Dipartimento di Chimica, Biochimica e Tecnologie per la Medicina presso l’Università degli Studi di Milano. Swiss Institue of Technology di Zurigo.
L’articolo è pubblicato nella versione inglese su FEBS Letters 544; 1-3 (2003))

Indicazioni Bibliografiche

  1. O.T. Avery, C.M. MacLeod. M. McCarty (1944), J. Exp. Med. 79, pp. 137-158.
  2. P.A. Levene, L.W. Bass, Nucleic Acids, Chemical Catalogue Co, New York 1931.

© Pubblicato sul n° 18 di Emmeciquadro

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