Ci sono due modi prevalenti con i quali gli studenti fanno esperienza dei «problemi». Il primo fa coincidere problema con esercizio, il più delle volte meccanico e pura applicazione di formule, comunque sempre proposto a valle di una conoscenza teorica data per acquisita. Il secondo si accompagna ad alcune mode pedagogiche ed epistemologiche che tendono a sottolineare gli aspetti «problematici» del sapere scientifico, dove l’accento è posto su una problematicità radicale che diventa dubbio sistematico e alimenta un atteggiamento di incertezza e di scetticismo.
In entrambi i casi si tratta di approcci riduttivi, che impediscono di far fruttare educativamente tutta la potenza contenuta nel concetto stesso di problema. A partire dal suo significato etimologico, «mettere davanti», che indica la sorgente continua della ricerca scientifica: il trovarsi di fronte a una realtà che sorprende, incuriosisce, pone interrogativi, offre indizi. Il cammino della scienza si snoda attraverso un susseguirsi di problemi, in una reazione a catena illimitata. Ma sottolineare il ruolo dei problemi equivale a porre l’accento sulla persona che è invitata a mettere in gioco tutte le sue risorse di razionalità, creatività, ingegno (più profondamente, tutta la sua libertà) per risolverli. Ciò vale per i ricercatori impegnati in problemi complessi; ma altrettanto per lo studente alle prese con qualsiasi capitolo del programma di matematica, fisica, chimica o biologia, che andrebbe visto come problema da risolvere piuttosto che come un insieme di contenuti da assimilare.
Così inteso, l’affronto di un problema consente di fare alcune esperienze tipiche dell’avventura scientifica.
Come l’esperienza del gusto, derivante dalla scoperta delle proprie capacità di interrogare la natura e dalla stupefacente corrispondenza tra i fenomeni e il nostro pensiero; gusto che culmina quando la soluzione finalmente arriva. Viene così alimentata la coscienza di una positività del reale, a conferma della celebre battuta di Einstein: «Dio è sottile, ma non maligno».
Un’altra esperienza tipica della ricerca è quella della pluralità di approcci a un problema, la possibilità di elaborare strategie di attacco diversificate, di sondare procedimenti alternativi. Ne deriva anche la constatazione che spesso i risultati eccedono le domande iniziali: lungo il percorso risolutivo nascono nuovi interrogativi ed emergono evidenze non previste nel quadro di partenza.
Infine non si può ignorare il valore educativo dell’incontro col limite. La soluzione di un problema non è sempre facile né immediata e in alcuni casi un problema può restare aperto per molto tempo.
È necessario allora saper «stare» di fronte al problema, non cedere alle istintive tendenze rinunciatarie, non perdere la fiducia nel possibile esito favorevole. Per essere pronti a riconoscere la soluzione qualora, come ricordava il matematico Ennio De Giorgi, capiti di imbattersi in essa: «Il buon “servo della Sapienza” riconosce onestamente i limiti della propria intelligenza e della propria cultura, svolge con modestia e pazienza il proprio lavoro quotidiano, ma non esclude l’eventualità che la stessa Sapienza gli venga incontro con una coincidenza inattesa, un’osservazione fortunata, un’intuizione felice».



Mario Gargantini
(Direttore della Rivista Emmeciquadro)

© Pubblicato sul n° 18 di Emmeciquadro


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