La logica dell’indagine scientifica è spesso presentata come uno schema che fa perdere la complessità del metodo. Una semplificazione che censura la sua peculiarità di atto conoscitivo, per natura frutto di una ragione sintetica, non esclusivamente analitica e procedurale. Riflettendo sulla sua esperienza professionale di ricercatore, che si sviluppa nell’ambito dell’astrofisica, l’autore vi sorprende implicazioni o analogie di metodo con l’esperienza dell’insegnamento e dell’apprendimento.
La ricerca scientifica si configura, sul piano del metodo, come un’indagine «avventurosa»; è un avanzare verso qualche tipo di verità che ci interessa attraverso indizi, valorizzando tutto ciò che la realtà suggerisce a proposito di quella verità.
Se questo è vero, evidentemente la scienza sperimentale non è descrivibile come un procedimento meccanico, univoco, predeterminato, di cui si conoscono a priori gli stadi di sviluppo, le conseguenze, le risposte o i percorsi.
[A sinistra: Il Satellite Planck dell’Agenzia Spaziale Europea, per lo studio dell’Universo primordiale]
Si tratta piuttosto di una specie di «arte dell’indizio», proprio come quando il detective segue la pista del colpevole. Implica una creatività e una posizione della ragione che sia aperta a tutti i fattori in gioco, e sappia trarre vantaggio da tutto ciò che le è dato di conoscere e intuire. La genialità sta nel riuscire, partendo dagli indizi, normalmente pochi e quindi preziosi, a ricostruire una storia.
Ma questa indagine è anche un’avventura. È sorprendente la stretta analogia che si può tracciare tra i connotati di un’avventura, nel senso più comune del termine, e quelli di un progetto scientifico. In entrambi i casi si tratta di un’impresa in cui ciò che si conosce abbastanza bene è il punto di partenza. Ci sono un tempo, un luogo e delle condizioni da cui un progetto scientifico parte: si parte da ciò che altri prima di noi hanno potuto chiarire a riguardo dell’indagine che si vuol compiere e della meta che si vuole raggiungere; c’è una domanda di partenza che va oltre il perimetro di ciò che è già noto e un’ipotesi di dove si vuole arrivare.
Come in ogni avventura, non si conosce bene il percorso, tutt’al più ci sono intuizioni frammentarie di alcuni possibili passaggi del tragitto. Non si è affatto sicuri di raggiungere la meta, ed è anche possibile che se ne raggiunga una diversa da quella prefissata; nell’indagine sperimentale è quasi sempre così.
La vicenda di Cristoforo Colombo mi pare paradigmatica di questa situazione perché unisce i due termini dell’analogia. Fu un’avventura in senso stretto e fu anche una grande scoperta geografica: partendo dalla convinzione che navigando verso occidente era possibile raggiungere le Indie, il risultato fu diverso, e ben più importante, di quello supposto all’inizio.
L’avventuriero
Se l’indagine scientifica è un’avventura qual è il soggetto di tale avventura, chi è l’avventuriero? Cosa provoca il desiderio di intraprendere la sfida? Qual è il suo scopo? Credo non sia inutile porsi domande così elementari perché, proprio in relazione al modo con cui si percepiscono queste domande, si determinano grandi conseguenze, sia di impostazione che di metodo, in quanto tali domande fondano il giudizio sul valore della scienza e della ricerca scientifica.
[A destra: Cristoforo Colombo (1451-1506)]
Il soggetto è evidentemente la ragione di un uomo. Ma non è sufficiente: il soggetto è la ragione umana in quanto è messa in moto dalla presenza della realtà fisica. «Le capacità che sono in noi non solo non si sono fatte da sé, ma anche non si traducono in atto da sole: sono come una macchina che oltre ad essere stata costruita da altri ha bisogno anche di un altro che la metta in marcia, che la faccia funzionare. Ogni capacità umana, in una parola, deve essere provocata, sollecitata per mettersi in azione.»(1) Questo è il soggetto dell’avventura scientifica, il rapporto tra la ragione umana e una realtà oggettiva, data, percepita come altro da sé, che mette in moto la ragione.
La concezione di ragione dominante nella mentalità odierna afferma, o sottintende, che la ragione altro non è che la capacità di misurare, di dimostrare in senso logico deduttivo e di stabilire rapporti quantitativi tra cose e concetti. La scienza poi viene identificata con il prodotto di una ragione così intesa, e viene esaltata come l’unico ambito conoscitivo affidabile a disposizione dell’uomo. Ma, dall’interno dell’esperienza scientifica, questa concezione di ragione appare fondamentalmente inadeguata.
Anzitutto, se l’indagine scientifica è in gran parte arte dell’indizio, o avventura dell’intuizione, appare chiaro che è necessario ampliare il concetto di ragione. Inoltre, poiché ciò che fa nascere una domanda verso la realtà fisica non è qualcosa di misurabile, un’accezione riduttiva di ragione esclude l’origine da cui l’impresa scientifica continuamente procede.
Solo una concezione che riconosca alla ragione la capacità di stupore è in grado di spiegare la grande energia che l’uomo investe nella sua curiosità e che lo porta a stimare, desiderare di conoscere e interrogare la realtà anche secondo quell’aspetto particolare che è la dimensione quantificabile dell’ordine insito nella realtà stessa.
Infatti, nell’indagine scientifica non sono sollecitate solo la capacità «misuratrice» e quella logico-deduttiva: la ragione è chiamata in causa anche secondo flessioni diverse e ugualmente decisive.
Come la ragione si paragona con la realtà nell’esperienza scientifica? Da una parte la realtà fisica si presenta come accessibile alla ragione: la scienza esiste, si può arrivare a dei risultati, si possono descrivere le «cose» e i loro comportamenti, anche quantitativamente. Si può far luce su come doveva essere l’intero universo 10 o 15 miliardi di anni fa, e indagare la struttura intima della materia, e sempre trovare nessi in qualche modo esprimibili.
[A sinistra: Il meccanismo di rilevazione della Radiazione Cosmica del Satellite Planck]
È sorprendente che la natura si mostri accessibile alla nostra indagine quantitativa e che si lasci descrivere secondo sintesi relativamente semplici e generali. D’altra parte, la natura ultima della realtà fisica ci appare irraggiungibile: l’indagine permette di approssimare la realtà, ma questa pare non voler cedere mai completamente ai nostri voleri. Basti osservare che ogni scoperta segna l’approfondirsi e il sorgere di nuove domande rimandando più in là la meta. La realtà fisica si presenta come avesse una radice che affonda sistematicamente oltre qualunque territorio conquistabile dalla nostra ragione: l’avventura scientifica è dunque una «lotta senza fine con il mistero.»(2)
Se ragione è apertura al reale secondo tutti i fattori in gioco, vuol dire per esempio che essa non potrà censurare la domanda circa lo scopo del suo agire. La debolezza, o l’assenza, di questa domanda denota la vittoria di un potere che di fatto usa, decide e pianifica la direzione dell’indagine scientifica, impossessandosi degli esiti: la scienza diviene strumento di potere dell’uomo sulla natura e dell’uomo sull’uomo.
San Bernardo scrisse: «Vi sono cinque stimoli che incitano l’uomo alla scienza. Vi sono uomini che vogliono sapere per il solo gusto di sapere: è bassa curiosità. Altri cercano di conoscere per essere conosciuti: è pura vanità. Altri vogliono possedere la scienza per poterla rivendere, e guadagnare denaro e onori: il loro movente è meschino. Ma alcuni desiderano conoscere per edificare: questo è carità; altri per essere edificati: questo è saggezza.»
La domanda
Come si sviluppa questa avventura della ricerca sperimentale? Se si tratta di un procedere per indizi, in che modo agisce la ragione? Queste domande suggeriscono qualche obiettivo di un lavoro educativo: cosa si può sviluppare nei ragazzi attraverso la proposta di un’esperienza scientifica?
Forse, in ordine di importanza, la prima caratteristica che occorre promuovere è la capacità di individuare un problema.
[A destra: San Bernardo di Clairvaux (1090-1153)]
Nella pratica della ricerca gran parte delle possibilità di successo di una indagine dipende dalle prime mosse. Il primo passo è individuare il problema in termini corretti e coglierne gli elementi decisivi. Lo iato metodologico più vistoso tra l’esperienza dello studio, così come normalmente viene proposta e recepita, e l’esperienza della ricerca è che nel primo caso i problemi sono proposti allo studente, nel secondo l’individuazione stessa del problema costituisce parte determinante del lavoro.
In secondo luogo è decisivo sviluppare la capacità di formulare domande significative rispetto al problema in gioco. Questa è infatti la modalità normale con cui la pratica scientifica si dispiega. La marcia di avvicinamento coincide con l’«azzeccare» la domanda giusta, più ancora che affrettare una risposta. Il percorso vincente di una indagine sperimentale si può descrivere come la correzione continua della domanda di partenza, cioè una riformulazione più o meno drastica del problema stesso, finché la risposta appare nella sua evidenza.
Si può quindi dire che la forma più evoluta e fruttuosa di pensiero nella pratica scientifica è la domanda.
Penso che la «bella» domanda di uno studente dovrebbe venire riconosciuta e valorizzata, e anche l’insegnante dovrebbe a sua volta proporre domande che catturino l’interesse perché aprono a un orizzonte successivo. Non c’è nulla di più assurdo della risposta a una domanda che non c’è, a una domanda cioè non percepita nella sua pertinenza al reale.
Gli indizi
Un altro livello a cui la ragione è sollecitata in un’impresa scientifica è la valutazione degli indizi. Perché, se di indizi si tratta, e quindi non di un percorso obbligato, il ricercatore deve maturare una capacità di giudizio: non c’è un algoritmo che possa sostituire il suo giudizio.
Gli indizi possono essere risultati di esperimenti, dati osservativi, coincidenze, analogie di comportamento e così via, ma non accade mai che gli elementi a disposizione convergano in modo indiscutibile e univoco in una direzione.
Occorre continuamente dare giudizi sulla maggiore o minore rilevanza e affidabilità dei vari elementi. Con gli stessi dati e le stesse fonti a disposizione, gli scienziati infatti sono divisi su un gran numero di questioni, perché ciascuno dà una valutazione diversa degli stessi indizi. In cosmologia, per esempio, c’è stata una lunga e controversa polemica durata due decenni tra i sostenitori di una teoria evolutiva e quelli di una teoria stazionaria dell’universo.
Degli stessi indizi è quasi sempre possibile dare interpretazioni diverse, ma in generale ce n’è una più naturale e più vera, che bisogna avere l’arte di riconoscere. Altrimenti si rischia di rimanere attaccati all’idea che ci aveva inizialmente entusiasmato in una certa direzione, ma che può non corrispondere più, anche in modo evidente, allo stato della conoscenza complessiva.
La certezza
In che senso gioca la certezza in questa indagine? Nello schema epistemologico popperiano(3) la certezza è data solo nel punto di falsificazione di un’ipotesi o di una teoria, cioè dove la realtà (dato, esperimento, osservazione) si manifesta contraria alla teoria.
A me pare che questo sia un punto di vista restrittivo a riguardo della possibilità della ricerca della verità nell’approccio scientifico. Non mi sembra necessario stabilire a priori che le certezze che emergono dall’ambito scientifico possano soltanto essere dovute a un fenomeno di negazione.
[A sinistra: Il Satellite Planck, lanciato il 14 Maggio 2009, è progettato per realizzare una mappa, con una precisione senza precedenti, della luce fossile scoperta nel 1965 da Penzias e Wilson]
In effetti, se si vuole essere ragionevoli, si deve concludere che in certi casi, confermati da elementi numerosi e tra loro indipendenti, da indizi particolarmente forti e credibili, si può, e di fatto è necessario, dare l’attributo di certezza all’affermazione che si fa.
Per esempio: l’eclisse di Luna è dovuta al fatto che la Luna entra nel cono d’ombra della Terra (abbiamo innumerevoli prove e testimonianze del fatto che ciò è vero); oppure: i dinosauri sono davvero esistiti (o crediamo che qualcuno per fare uno scherzo all’umanità ha fabbricato e seppellito scheletri di mostri in tutte le parti del mondo, oppure… siamo di fronte a un’evidenza); o ancora: la molecola d’acqua è composta da due atomi di idrogeno e uno di ossigeno.
Queste sono certezze positive, basate sui risultati dell’indagine scientifica, che mostrano come gli indizi possono diventare tanti e tali che la ragione a un certo punto dell’indagine smette di trattare l’affermazione come ipotesi, e può osare la certezza. In questi casi, ciò che ci fa dire: «sì, le cose stanno così», non è una dimostrazione di tipo logico-deduttivo del termine, ma è un metodo diverso con cui la ragione entra in azione: è una certezza morale.(4)
Questo tipo di attitudine della ragione è indispensabile, e di fatto sistematicamente applicato da tutti, quotidianamente, nell’avanzamento della ricerca. La capacità di certezza infatti nella pratica ordinaria della ricerca è necessaria per sostenere e rilanciare il lavoro; senza riconoscere e trattare come certo il passo precedente non si può muovere il passo successivo.(5)
L’imprevisto
Si definisce di solito il metodo scientifico come interazione ricorrente tra una ipotesi di lavoro e la sperimentazione, la quale verifica o confuta la validità dell’ipotesi.
Questa definizione descrive l’ossatura di un procedimento, ma trascura a mio avviso un ingrediente che di fatto è parte integrante della pratica scientifica: l’imprevisto, la casualità. È più facile sorprendere questo fattore quando si considera il ricercatore in azione piuttosto che quando si cerca di definire in modo astratto il procedimento che egli adotta.
In alcuni casi eccezionali un evento casuale irrompe nella dinamica della ricerca, tesa ad altri obiettivi, e può portare a grandi scoperte senza che nulla o quasi fosse stato fatto per ottenerle. La storia delle scoperte scientifiche è costellata di episodi di questo genere.(6)
[A destra: Robert W. Wilson (1936-…) e Arno A. Penzias (1933-…)]
La radiazione cosmica di fondo, che è l’oggetto della ricerca in cui sono impegnato, fu una di queste grandi scoperte casuali, tanto importante che Arno A. Penzias e Robert W. Wilson, i suoi scopritori, ricevettero per questo il premio Nobel nel 1978.(7)
Ma ancora più interessante è sorprendere, nella pratica quotidiana del lavoro sperimentale, l’effetto di avvenimenti casuali, anche banali, che si verificano durante l’esperimento o nella fase di analisi dei dati e che, di fatto, finiscono col determinare uno sviluppo positivo del lavoro a priori imprevedibile.
In questo senso un caso particolarmente interessante e frequente di imprevisto è il fenomeno dell’errore. È stato giustamente osservato che, in una fase di apprendimento, il fenomeno dell’errore è una componente normale e positiva del processo formativo.(8) L’errore, in quanto deviazione nuova da un procedimento già noto e collaudato ha le caratteristiche di un imprevisto. Sta di fatto che sono spesso degli errori che mutano le circostanze in modo imprevedibilmente fruttuoso specialmente nella ricerca tecnologica ed empirica.
Conclusioni
C’è una condizione importante perché tutto ciò possa portare frutti positivi: l’imprevisto può essere riconosciuto e valorizzato solo in una tensione metodologica sistematica e, analogamente, gli errori fruttuosi sono solo quelli che si presentano come perturbazioni di una strada corretta e ben segnata. È necessario che il ricercatore sia vigilante e aperto a cogliere anche quello che non rientra nella sua pur necessaria e rigorosa tabella di marcia.
Nell’indagine scientifica la ragione, dunque, è impegnata secondo un’ampiezza di modalità (tensione alla formulazione corretta del problema e di domande cruciali su di esso, giudizio nella penombra degli indizi fino ad arrivare alla certezza, apertura all’irrompere di un evento non previsto) che richiedono una estensione decisa della accezione dominante di ragione.
Il soggetto è introdotto a un paragone inesauribile con il reale, a una apertura alla possibilità senza limiti. Si trova proprio nella posizione di un «avventuriero» all’inizio di un’impresa.
[A sinistra: Il Satellite Planck nella fase finale di preparazione]
Scopo della ricerca dunque è guadagnare qualche punto sullo spazio sempre infinito dell’ignoranza. Ci si pone sulla frontiera dell’ignoto e si cerca di interrogare la realtà: occorre saper stare di fronte a ciò che non si conosce, sentirsi a proprio agio di fronte a ciò che non si capisce; l’avventuriero deve sapersi muovere anche su basi provvisorie e spesso malferme. Se questa provvisorietà è un connotato della ricerca, mi pare che sia una caratteristica rilevante anche nell’apprendimento, nel senso che lo studente viene introdotto in uno spazio che per lui è totalmente, o in larga parte, ignoto. Allora il docente non può porsi come un estraneo, ma come una guida che accetta di introdurre i giovani a questo ignoto, partecipando e rivivendo l’entusiasmo di chi vi si inoltra per la prima volta.
Normalmente l’avventura scientifica non è un’avventura solitaria. Questo è evidente nella fisica contemporanea dove la vastità degli esperimenti e l’entità dei loro costi sono tali da richiedere ampie collaborazioni internazionali. Ma non è solo una questione di convenienza organizzativa.
Mi sembra che l’unità tra chi fa ricerca sia un fattore costitutivo della dinamica della ricerca stessa. È uno «sport di squadra»: quanto più la squadra è affiatata tanto più la ricerca ha possibilità di successo. Non è l’unica condizione, ma neppure la meno importante.
[A destra: Chaim Weizman (1874-1952)]
L’aspetto più efficace di questa compagnia, nella ricerca come nell’apprendimento, è una presenza autorevole: qualcuno la cui presenza dimostra l’esistenza di un significato che altri ancora non sanno identificare, qualcuno che possiede un metodo e una sensibilità che altri riescono solo a intravedere.
Nel 1921 Albert Einstein viaggiava verso gli Stati Uniti insieme a Chaim Weizmann, che sarebbe stato il primo presidente di Israele e che era un chimico. Anni dopo, raccontando del lungo viaggio compiuto insieme attraverso l’Atlantico, Weizmann ebbe a dire: «Quel giorno Einstein mi spiegò la sua teoria; al nostro arrivo ero pienamente convinto che lui la capisse perfettamente.»(9)
C’è in queste parole la tacita ammissione di non aver capito la teoria di Einstein, ma mi interessa sottolineare che senza questo tipo di presenza, che convince della verità di una cosa prima ancora che sia stata compresa, è molto difficile arrivare a quella verità. Questo signore dopo il viaggio non aveva capito la teoria di Einstein ma era stato messo nelle condizioni ideali per poterla capire.
Mi sembra che l’obiettivo avvincente di un insegnamento che voglia essere all’altezza dei suoi scopi sia quello di comunicare un metodo che renda possibile entrare in rapporto con la realtà da protagonisti, secondo una reale creatività. La comunicazione del metodo non avviene attraverso la descrizione analitica di come una certa prassi debba essere applicata, ma piuttosto attraverso la modalità con cui il contenuto dell’insegnamento viene affrontato e proposto quotidianamente.
«Il metodo si insegna in un atto, in quell’atto in cui nello stesso tempo lo si percorre e che implica inevitabilmente il contenuto. Lo si insegna insomma nel modo di affrontare il contenuto.»(10)
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Marco Bersanelli
(Professore Ordinario di Astronomia e Astrofisica all’Università di Milano. E’ uno degli iniziatori e dei responsabili scientifici della missione spaziale Planck dell’Agenzia Spaziale Europea, dedicata a misure ad alta precisione della radiazione cosmica. E’ Presidente del Comitato Scientifico dell’Associazione Euresis per la Promozione della Cultura e del Lavoro Scientifico)
Note
- L. Giussani, Il senso di Dio e l’uomo moderno, Rizzoli, Milano 1994, p. 19.
- F. Ventorino, La scuola ad un punto di svolta, in: Libertà di Educazione n. 4, 1995, pp. 2-5.
- Cfr.: K.R. Popper, Scienza e filosofia, Einaudi, 1969.
- L. Giussani, Il senso religioso, Jaca Book, Milano 1986, pp. 28-35.
- Cfr: M. Bersanelli, M. Gargantini, Solo lo stupore conosce, Rizzoli, Milano 2003, capitolo quinto.
- W.I.B. Beveridge, The art of scientific investigation, Vintage, 1957.
- A. Penzias, in: Cosmology, fusion and other matters, Hilger, 1972, pp. 29-48.
- R. Manara, Le azioni del fare matematica: sbagliare, in: Emmeciquadro n. 5, aprile 1999.
- J. Schwinger, L’eredità di Einstein, Zanichelli, Bologna 1992.
- F. Ventorino, La scuola ad un punto di svolta, in: Libertà di Educazione, n. 4, 1995, pp. 31-37.
© Pubblicato sul n° 19 di Emmeciquadro