Se esaminiamo il procedere della ricerca scientifica cercando di sorprenderlo nel vivo dell’esperienza di chi la pratica quotidianamente, esso ci appare come un susseguirsi di domande più che come una serie trionfale di risposte. Ciò non sminuisce affatto l’importanza di queste ultime, che rappresentano i traguardi, anche se provvisori, del lavoro dei ricercatori. Piuttosto aiuta a mettere in risalto il valore e la funzione delle domande, che acquistano ancor più rilevanza se si trasferisce il discorso nell’ambito dell’insegnamento.
Proporre un percorso di educazione scientifica significa infatti introdurre i ragazzi all’arte del domandare e non certo riempirli di soluzioni a problemi che non si sono mai posti. Ma è un’arte da educare. E l’educazione alla domanda non è un’operazione banale: richiede un attento, specifico e costante lavoro da parte dell’insegnante. Bisogna, ad esempio, correggere un modo puramente istintivo di interrogare da parte dei ragazzi; non accontentarsi di un’apparente partecipazione attiva, frutto solo di vivacità ed esuberanza, spesso trascinata da atteggiamenti mutuati dai talk show televisivi. Bisogna indirizzare verso le domande pertinenti, che aiutano a circoscrivere i problemi, a far emergere i dettagli significativi, ad individuare le piste di indagine più feconde. C’è poi un paziente lavoro da svolgere per abituare gli studenti a formulare gli interrogativi in modo chiaro e preciso, con coerenza logica e con un uso appropriato del linguaggio.
Tutto ciò diventerà più efficace se si avrà la prontezza di valorizzare gli esempi positivi, di sottolineare l’acutezza di un’intuizione, di non lasciar cadere un’osservazione originale. Su questo terreno diventa più facile costruire congetture con le quali aggredire in modo risolutivo i problemi. Ma anche questa dimensione è da educare. Avanzare una congettura non vuol dire semplicemente tirar fuori una vaga «idea» e l’operazione alla quale i ragazzi devono essere avviati non è l’esercizio di una generico «ragionamento»: si tratta invece di un insieme interconnesso di immaginazione e rigore, dove la preoccupazione astrattamente razionalistica deve lasciare il posto a un realismo tutto proteso a sondare la natura, a provocarla perché si riveli. Le congetture sono quindi strumenti per far venire a galla la struttura sottostante la realtà naturale, per indirizzare l’osservazione alla ricerca di nuovi dati, per impostare i necessari ed esigenti controlli sperimentali.
Infine la scoperta; che non è soltanto l’evento conclusivo di una ricerca ma è il motivo dominante di tutta l’indagine e, analogamente, può diventare una costante dell’attività scolastica. Mai come nelle discipline scientifiche, tutto è scoperta: ogni capitolo, ogni ora di laboratorio, ogni interrogazione, ogni esercizio deve spalancare allo studente un nuovo squarcio sulla realtà, aprire una nuova finestra sulla natura, portare in primo piano nessi e relazioni impensate. Il nemico più insidioso, in questo caso, è l’effetto del dejà vu, derivato dalle dosi massicce di pseudo-informazioni scientifiche già assunte dai ragazzi e dal diffuso clima di superficialità che li induce a pensare di conoscere un fenomeno solo perché ne hanno già sentito parlare. Dire che tutto è scoperta non significa dare l’illusione ai ragazzi di scoprire le leggi che altri hanno già scoperto: è piuttosto l’invito a utilizzare quelle stesse leggi per una più profonda interazione con la natura, a vederle come lenti di ingrandimento per cogliere aspetti diversi anche di situazioni note. Si dimentica spesso il fatto che la scoperta è una particolare interazione tra un soggetto e la realtà e che quindi riaccade ogni volta che cambia uno dei due fattori dell’interazione.
Tutto questo sarà acquisito dagli studenti non tanto per l’applicazione di particolari tecniche didattiche ma se lo potranno percepire «in azione» nei docenti che incontrano tutti i giorni.



Mario Gargantini
(Direttore della Rivista Emmeciquadro)

© Pubblicato sul n° 19 di Emmeciquadro


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