Le immagini dei robot che esplorano la superficie marziana stanno entrando prepotentemente nell’immaginario collettivo contemporaneo, ampliando in misura significativa il nostro concetto di ambiente naturale. Oggi ormai, la natura che l’uomo può incontrare non ha solo il volto degli scenari terrestri ma inizia a popolarsi di nuovi panorami e di configurazioni inusuali; e la scenografia cambierà ancora quando la sonda Rosetta andrà a posarsi sul glaciale nucleo della cometa Churyumonov-Gerasimenko.
Ma cosa fanno le sonde su quelle lande disabitate o meglio, cosa fanno tramite loro i ricercatori che al centro di Pasadena o di Baltimora seguono con ansia quasi «paterna» ogni mossa, ogni sussulto delle loro «creature» elettromeccaniche? Non fanno altro che raccogliere dati: un numero impressionante di dati da dare in pasto alle voraci memorie dei supercomputer per essere setacciati e distillati elettronicamente. Nella sostanza è lo stesso lavoro che ha occupato tanti secoli fa le notti di migliaia di astronomi babilonesi e cinesi e che ha riempito le laboriose giornate di Darwin o di Mendel o di Pasteur. In pratica è molto diverso, per le smisurate possibilità offerte dalle moderne tecnologie, rese efficaci grazie alla inesauribile creatività dei matematici.
In ogni caso l’obiettivo è lo stesso: recepire nel modo migliore l’infinità di messaggi inviatici dalla natura, per cogliere qualche indizio rivelatore della trama ordinata e razionale sottostante l’apparenza dei fenomeni. Indizi che consentano di analizzare con più fedeltà i comportamenti ripetitivi, di stabilire connessioni e relazioni tra le grandezze più disparate, per poi risalire a leggi generali che consentano di prevedere lo svolgersi di eventi futuri o di mettersi nelle migliori condizioni per sorprendere manifestazioni inattese.
La trasformazione di un dato in un indizio non è cosa semplice né automatica. Richiede un’idea chiara di cosa si sta cercando, una domanda ben formulata che renda il dato eloquente, come avviene durante un interrogatorio poliziesco quando il detective incalza il colpevole fino a fagli ammettere le sue malefatte.
Ci vuole soprattutto la capacità di far diventare avventuroso e significativo il lavoro quotidiano, anche quello di routine, fatto di procedure standardizzate, di scrupolose calibrazioni degli strumenti, di misure accurate e continuamente raffinate. Ma per dare drammaticità e gusto alla routine bisogna portarsi sulla natura con un atteggiamento particolare, con una passione che non è affatto alternativa all’obiettività e al rigore necessari a ogni seria indagine scientifica. Quella passione per la quale lo stesso Darwin «desiderava imparare il più possibile da un esperimento, così che non si limitava a osservare soltanto il singolo obiettivo a cui l’esperimento era diretto; la sua capacità di vedere un gran numero di cose era straordinaria» (Beveridge).
Occorre una concezione della natura come risorsa preziosa e sovrabbondante, in grado di dare «di più» di quanto rilevano i nostri strumenti e di far emergere il «nuovo» anche quando sembra che non ci sia più nulla da misurare.
Lo scienziato che vuole raggiungere il suo obiettivo deve disporsi a un’attenzione prolungata, non risparmiare un calcolo in più, non dare nulla per scontato. Con un’immagine sintetica: deve spalancare totalmente lo sguardo.

Mario Gargantini
(Direttore della Rivista Emmeciquadro)

© Pubblicato sul n° 20 di Emmeciquadro