La messa a punto dei nuovi programmi dei Licei e ancor più la strutturazione del sistema dell’Istruzione e Formazione Professionale, portano in primo piano l’esigenza di una riflessione di ampio respiro sulla tecnologia. Ciò si impone come prioritario, in particolare, nel residuo di dibattito ancora disponibile per evitare di relegare il «secondo canale» dell’istruzione a un ruolo «secondario», privo di reali prospettive formative. Alla concezione di tecnologia è inoltre legata la questione dell’orientamento: molte scelte degli studenti e delle famiglie dipendono da una visione spesso distorta del ruolo e dell’impegno del tecnologo all’interno delle organizzazioni aziendali e nella società in genere.
La concezione più diffusa della tecnologia è un mix di luoghi comuni e di critiche degli anni Sessanta mal digerite, da cui è molto improbabile estrarre criteri significativi che mettano in evidenza la dignità culturale della tecnologia, le sue valenze educative e umanizzanti, come pure i limiti e i vincoli che incontra nel suo esprimersi storico. L’accento va quindi posto sulla dimensione culturale propria anche della tecnologia: finché questa sarà vista come la figlia un po’ degenere della scienza, impegnata solo in una automatica «applicazione » delle acquisizioni degli scienziati, non si riuscirà a proporla nella scuola come fattore importante in grado di contribuire alla piena educazione dell’uomo. Tra l’altro, una visione subordinata della tecnologia non è utile neppure alla comprensione della scienza: se può essere opportuna la distinzione tra conoscenza e applicazione, non è certo utile una separazione o contrapposizione tra «sapere» e «saper fare». Nell’attuale contesto segnato dalla frammentazione, dalla distrazione e dalla debolezza del pensiero, è più che mai urgente puntare sull’unità della persona, sulla capacità del soggetto di dominare una complessità di interazioni con la realtà; con uno slogan: «fare con la testa» e «pensare con le mani».
Al di fuori di una visione unitaria dell’uomo diventa difficile anche affrontare i problemi educativi e didattici specifici dell’insegnamento delle discipline tecniche. Che, nella maggior parte dei casi, viene proposto con un approccio riduttivo: non molto di più di un puro addestramento, l’assimilazione piuttosto meccanica di un insieme di procedure, lo sviluppo di alcune abilità operative settoriali. Il tutto senza un orizzonte più vasto e lasciando inevase una serie di domande fondamentali sulla disciplina, sulle sue origini, sui suoi scopi e sui suoi nessi con gli altri saperi. Si forma così nel futuro tecnico quell’atteggiamento di chi si limita ad «applicare senza preoccuparsi di comprendere».
Anche quando si dà spazio alle tematiche extra-tecnologiche e ci si apre alla discussione, molto spesso si giustappone semplicemente una visione sociologica ai contenuti tecnici e non si tenta invece di scavare all’interno dell’esperienza tecnologica per coglierne gli elementi costitutivi e genetici.
Tutto ciò finisce per compromettere anche il raggiungimento dell’obiettivo che la società e il mondo del lavoro chiedono insistentemente alla scuola: la preparazione di gente capace non tanto di applicare correttamente delle procedure ma di affrontare e risolvere problemi, di porsi con creatività in qualunque situazione e di essere fattori di innovazione.



Mario Gargantini
(Direttore della Rivista Emmeciquadro)

© Pubblicato sul n° 22 di Emmeciquadro


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