Significato e Senso nel Lessico Scientifico

Due concetti profondamente differenti, anche se i termini che li identificano sono oggi utilizzati spesso come sinonimi. A partire da questa differenza, l’autore sviluppa una riflessione sui rapporti tra tecnica, scienza e condizione umana e mostra come non avere paura delle imponenti realizzazioni tecniche del mondo contemporaneo. Tocca all’uomo la responsabilità di impedire che la profondità della ricerca, la complessità delle conquiste tecnologiche e la potenza delle realizzazioni tecniche si sostituiscano alla continua presa di coscienza di sé come protagonista del mondo.



Diceva C.S. Lewis che una lingua è come un albero: mette continuamente nuovi rami e ogni singola parola può acquistare nuovi significati.(1) L’importante, aggiungeva, è che quella parola mantenga un significato preciso durante una discussione. (2) Vi sono però fenomeni linguistici molto meno accettabili: la perdita di parole, la fusione di più parole in una, la trasformazione in sinonimi di termini che avevano significati diversi, insomma il progressivo impoverimento di una lingua. Questo è in pieno svolgimento in tutto l’Occidente, e forse non si può sperare che si arresti presto. A maggior ragione, però, chi insegna dovrebbe rifiutarsi di subirlo passivamente, perché la precisione del pensiero dipende dalla stretta corrispondenza fra parole e concetti.
Vittima illustre dell’impoverimento dell’italiano corrente è il sostantivo «tecnica», che oggi i mezzi di comunicazione di massa sostituiscono di solito con «tecnologia». Quest’ultima parola almeno fino al 2000 non era accettata in italiano come sinonimo di «tecnica»(3); il suo uso come tale è quasi certamente un risultato – sia pure non il più grave – del declino della formazione umanistica e della dilagante imitazione dell’inglese.(4)
È anche vero, però, che la fusione è favorita dalla strettissima dipendenza della tecnica dalle tecnologie; e allora, perché sostenere che essa non va subita passivamente? La risposta ci porta nel vivo di un problema centrale del mondo di oggi: la relazione fra tecnica, scienza e condizione umana. Lasciando da parte molte sfumature che dipendono dal contesto, possiamo dire che «tecnica» indica l’insieme delle realizzazioni tramite le quali l’uomo ha modificato e modifica deliberatamente l’ambiente in cui vive e i suoi rapporti con esso.
La tecnologia propriamente detta, invece, designa i procedimenti della tecnica, sia in generale che in campi specifici (per esempio, si parla di tecnologia dei materiali), visti come una manifestazione della vocazione di Homo faber, presente in ognuno di noi insieme a quella di Homo sapiens. Presa in questo senso la tecnologia è guidata dall’osservazione critica dei fatti, dalla continua ricerca delle loro cause, sia pure solo al fine di risolvere problemi pratici. Essa non è propriamente scienza perché non ha come fine la conoscenza e l’approfondimento delle leggi che governano il divenire dell’universo, ma ovviamente incontra problemi che richiedono applicazioni della scienza, così come dai suoi problemi pratici emergono questioni o fatti che interessano la scienza pura.(5)
Tecnica e tecnologia sono dunque due concetti diversi, e occorre se non altro esser consapevoli delle differenze.
Per renderci conto di queste ultime su un caso concreto prendiamo la storia della locomotiva e del locomotore. Chi poteva pensare nel 1700, al tempo di Humphrey Potter,(6) quando il vapore serviva solo a far andare su e giù due o tre volte al minuto un bilanciere capace di sollevare i pesi dalle miniere di carbone, che centocinquanta anni dopo la forza del vapore avrebbe mosso locomotive capaci di trainare un treno a 100 km/h, e a metà del Novecento, quando in Italia si misero a riposo le ultime vaporiere, queste raggiungevano i 180 km/h trainando un treno di trecento tonnellate o più? Chi poteva pensare, quando l’illuminazione elettrica faceva i primi passi, che gli sviluppi della fisica applicata e della tecnologia avrebbero consentito di sostituire le locomotive a vapore con locomotori elettrici capaci di raggiungere i 400 km/h?
Ecco che, per ricordare una delle massime realizzazioni della tecnica che oggi nessuno nota più, abbiamo usato il termine «tecnologia» in un senso ben diverso da quello di «tecnica».



Le meraviglie della tecnica

Non possiamo passare in rassegna le principali realizzazioni della tecnica, ma forse qualche altro esempio potrà ricordarne l’ampiezza e la varietà.(7) Il senso di stupore che nasce in chi sa guardare le piante e gli animali si estende senz’altro alle macchine e ai materiali, specie se si ha un’idea di quali difficoltà siano state superate per realizzarli e quale progresso rappresentino. Basta vedere all’opera un bulldozer, che obbedisce docilmente a un solo uomo per fare lavori che una volta richiedevano decine e decine di operai, oppure osservare un pesante Airbus che accelera sulla pista per levarsi da terra come una creatura del cielo, obbediente ai comandi di un solo uomo.
Viaggiando lungo la grande Statale 13 che da Baltimora porta verso il Sud-Est degli Stati Uniti, poco lontano da Washington, si giunge all’imbocco di una lunga curva e appare sulla destra in tutta la sua lunghezza la sagoma aerea di uno dei ponti sospesi più belli del mondo, il Chesapeake Bay Bridge, che scavalca in una sola campata di 530 metri la baia formata dall’estuario del fiume Patapsco.(8) Chi si rende conto degli sforzi cui sono sottoposti i cavi d’acciaio che sostengono il piano stradale e i loro supporti quando passano quattro file di automobili e autocarri, magari sotto un vento fortissimo, non può non sentire un senso profondo di ammirazione e di stupore. Ancora: guardando un campo di grano, oggi si pensa subito ai danni che i concimi e le macchine fanno o potrebbero fare alla natura; ma uno che sappia quanto faticavano i contadini appena un secolo fa per contendere agli uccelli e agli insetti un magro raccolto di grano non può non ringraziare la Provvidenza.
E non dimentichiamo che nella tecnica non rientrano solo le macchine, veicoli o macchinari industriali che siano. Sono prodotti della tecnica i dispositivi elettronici, dalle modeste lampadine elettriche agli elaboratori elettronici e alla rete Internet.



Sono prodotti della tecnica il microscopio e il telescopio, che consentirono le straordinarie osservazioni dell’immensamente piccolo e dell’immensamente grande a partire dal Seicento. Sono prodotti della tecnica le sonde spaziali e i dispositivi automatici per l’analisi del DNA. Nella stessa categoria rientra tutto ciò che hanno realizzato le tecnologie chimiche (basti pensare alle materie plastiche e alle complesse molecole che servono come farmaci contro la lebbra) nonché le biomanipolazioni.(9)
Questo volto meraviglioso e benefico della tecnica non è nuovo: non è che uno sviluppo, accelerato dalla scoperta delle mille forme dell’energia, di una tradizione che risale almeno all’invenzione della ruota. Il Chesapeake Bay Bridge è un artefatto come lo era uno di quei vasi greci e cinesi che l’occhio non si stanca di ammirare. In questo senso non si può dire che il mondo è cambiato rispetto a quello a cui si riferiva Rainer Maria Rilke quando, avendo scoperto che l’uomo ha nella creazione un posto che gli fornisce dignità anche nei confronti di un angelo, scriveva: «celebra all’angelo il mondo […] mostragli la semplice cosa – che plasmata di generazione in generazione come cosa nostra vive, presso la mano e lo sguardo. – Digli le cose. Egli ne sarà stupefatto, come lo fosti tu davanti al cordaio a Roma, o al vasaio sul Nilo. – Mostragli come può essere felice una cosa, innocente, nostra, – come anche il dolore che piange si schiude puro alla forma – e serve da cosa o si estingue facendosi cosa, – e beata sfugge al di là del violino».(10)
Il ponte sulla baia del Chesapeake e una macchina che realizza il sogno archetipico del volo umano, per quanto nuovi e meravigliosi, sono anch’essi realizzazioni nuove di un operare che passa di generazione in generazione perché appartengono alla natura stessa dell’uomo, sono manifestazioni di una definizione dell’uomo che molti dimenticano o rifiutano: l’uomo è il «giardiniere di Dio», e in questa sua funzione ha ricevuto il dono della tecnica.
In fondo è proprio nel suo dipendere dall’iniziativa dell’uomo che la tecnica si differenzia dalla natura. San Tommaso scrisse: «la natura differisce dalla tecnica solo perché la natura è un principio intrinseco, la tecnica è un principio estrinseco. Se infatti l’arte di costruire una nave fosse intrinseca al legno, la nave sarebbe stata realizzata dalla natura come lo è di fatto soltanto ad opera della tecnica. Ciò si vede in modo particolarmente chiaro in quell’arte o tecnica che ha origine, sia pure per ragioni accidentali, da ciò stesso su cui opera, come quando un medico cura se stesso. Aquest’arte la natura somiglia moltissimo, e il confronto fa capire che la natura altro non è che l’insieme delle regole di una tecnica o arte, certo divina, in virtù della quale le cose evolvono verso un fine determinato, come se chi progetta e costruisce la nave potesse far sì che gli elementi costruttivi si muovessero da soli a formare la nave».(11)

 

 

La civiltà della tecnica

 

Ma se un grande poeta come Rilke ha ragione, se è vero che i creatori dei grandi aerei transatlantici, dei grandi ponti sospesi, dei farmaci miracolosi sono colleghi del cordaio di Roma e del vasaio sul Nilo, perché oggi abbiamo paura della tecnica, di ciò che è artificiale?
Abbiamo appena ricordato che, come il rapporto dell’uomo con l’aratro tirato dai buoi non era molto diverso da quello con un moderno trattore agricolo, così un nuovo mezzo di trasporto e un grande ponte sono realizzazioni che nascono dalla storia dell’uomo; perché si dovrebbe essere preoccupati se ciò che è nuovo sono la qualità e la grandiosità consentite dallo sviluppo della tecnologia, a sua volta guidata dallo sviluppo della scienza?(12)
In ultima analisi, la tecnica non è che l’insieme degli strumenti e dei metodi di produzione che consentono il mantenimento di un sistema economico estremamente efficiente e di una vita personale libera dall’ossessione del bisogno materiale.
Ma qualcosa che non va c’è davvero. La crescita rigogliosa della tecnica è stata accompagnata da alienazione, consumismo, inquinamento, e ha fatto nascere in molti la sensazione che il prezzo sia la perdita del senso di responsabilità, del rispetto per la natura, del rapporto umano, degli ideali. Ora, è ben vero che, come tutti sanno, la dannosità di strumenti e metodi sta nel fine di chi li usa, e che l’uomo sia capace di usare male le cose più belle non è una novità; ma vi è oggi una forma di negazione dell’uomo che non si può ricondurre a responsabilità ben precise, perché l’onnipresenza della tecnica in tutte le sue forme dà luogo a meccanismi perversi di cui tutti sono vittime e che nessuno ha messo deliberatamente in moto.
Lo diceva molto bene M.D. Chenu(13): «prendete un villaggio rimasto fedele alla sua economia artigianale, ai suoi inquadramenti locali, ai suoi ozi pittoreschi; introducetevi una fabbrica che mobiliti un quarto dei suoi adulti e trascini nella sua orbita gli elementi giovani della popolazione; passate di là dieci anni dopo: la comunità cristiana che si era “conservata” fino allora non solo sarà ridotta alla metà, ma avrà perso la sua virtù d’invenzione, di gioiosa animazione, di umanizzazione. Quest’esperienza sommaria può essere moltiplicata, è di fatto moltiplicata a migliaia di esemplari, sotto una varietà di forme il cui denominatore comune è manifestamente lo choc provocato dalla tecnica, dalla mentalità tecnica degli individui e dei gruppi, e non dal solo benessere, come denunciano superficialmente i moralisti. Qui la causa procede dalla natura stessa dell’operazione tecnica, la cui legge propria è dissolvere il “senso del mistero”, come si dice.»
M.D. Chenu continua parlando della desacralizzazione della natura.
Questo processo è indiscutibile e in atto ancor oggi, ma al tempo in cui egli scriveva non era ancora venuto il peggio. I trionfi degli elaboratori elettronici hanno realizzato un’altra e più grave modifica della condizione umana: l’uomo che, come un bevitore solitario con il suo bicchiere davanti, trae nutrimento per la sua vita intellettuale ed emotiva da una macchina predisposta per dargli tutto senza che debba fare alcuno sforzo, riducendo sempre più, imponendo opzioni predisposte, anche la fatica di stabilire cosa vorrebbe fare. Pensate ai nostri ragazzi di dieci anni, che passano dai giochi elettronici personali all’informatica scolastica, a Internet, ai film e alla musica da DVD.

È come se un’intelligenza superiore avesse organizzato le cose perché le nuove generazioni siano sempre occupate da nuove distrazioni, così che non abbiano il tempo per riflettere, per porsi delle domande, per prendere coscienza di sé. Le cause generali di questa situazione sono molte; ne citiamo due, forse le più importanti.
In primo luogo, la tecnica in quanto tecnologia è diventata così complessa che si è allontanata sempre più dall’uomo come individuo. Nelle grandi fabbriche di automobili non si troverà mai qualcuno che, come il cordaio a Roma, vi possa mostrare con orgoglio l’abile complesso di gesti con cui, usando pochi e semplici strumenti, passa dalla canapa alla corda. Non vi è più, insomma, una comunità in cui chi produce artefatti è inserito in un tessuto di rapporti personali: il produttore è un’anonima ditta di cui si conoscono al più dei dipendenti che non rappresentano in alcun modo una realtà umana.
In secondo luogo, la posizione dell’utente è sempre più passiva. La libertà dell’utente o del consumatore si riduce a leggere attentamente un elenco e a mettere una crocetta sulle voci preferite. Pochi si rendono conto che in questo modo si perde l’abitudine di analizzare le situazioni e di farsi un’idea di cosa si vorrebbe in base alle proprie esigenze, ai propri gusti, alle proprie possibilità; si accetta passivamente la comodità di un elenco di scelte fatto da altri e reso attraente con sottili artifici psicologici. Quello che si perde è in sostanza la capacità di formulare chiaramente dei problemi, anche ordinari.
Insomma, «la civiltà tecnica mette in questione non solo l’equilibrio morale degli individui, ma la stessa concezione dell’essere umano» (Chenu). Sono all’opera meccanismi perversi per cui l’uomo non è più il giardiniere di Dio che rende sempre più armonioso e accogliente il mondo che gli è stato messo a disposizione, è invece l’utente forzato di una tecnica che gli toglie lentamente la capacità di realizzarsi come persona.

 

 

La tecnica nella formazione dell’uomo

 

Tutto questo, fortunatamente, rappresenta una tendenza generale a cui malgrado tutto la natura umana reagisce in qualche modo, perché vale sempre, questa volta in positivo, il detto di Orazio: naturam expellas furca, tamen usque recurret – la natura la puoi cacciare col forcone, ma finirà per riemergere.
Le esigenze tipicamente umane – bisogno di sapere, interesse per gli altri, attività creative – non si riescono a soddisfare completamente con i giochi elettronici, i teleromanzi e Internet. Ma questi surrogati le soffocano facilmente, tanto più che abbiamo poco tempo, perché siamo occupati a cercar di guadagnare per comprare marchingegni sempre più ricercati e complicati. E in attesa che venga una crisi risolutiva, l’epidemia di vuoto psicologico che ne risulta causa vittime e sofferenze: per convincersene basta pensare alla febbre del sabato sera, alla droga, alle pratiche magiche. Cosa può e cosa deve fare la scuola di fronte a questa situazione?
È molto importante aiutare i giovani a riscoprire il senso di stupore di fronte alle meraviglie della tecnica come a quelle della natura, aiutarli a capire che la tecnica, vista come «impresa tecnologico-scientifica » è una sfida degna delle forze migliori. Devono rendersi conto che coloro che hanno realizzato tante cose straordinarie, quelle che abbiamo già ricordato e poi le «ferrari» e i treni superveloci, i vaccini e i farmaci, le radiografie e la risonanza magnetica nucleare, la chirurgia al laser e tante altre cose sono persone che hanno lavorato per passione e per spirito di solidarietà umana.
È ben vero che alcuni grandi tecnici hanno tratto dal loro lavoro frutti economici che li hanno resi schiavi del denaro e del potere che esso procura; è ben vero che la tecnica ha consentito di trasformare grandi scoperte scientifiche, come la fissione dei nuclei atomici, in armi micidiali; ma anche di questo si può parlare ai giovani facendo capire che in ambo i casi la colpa non è della tecnica, è della natura umana, come quando qualcuno adopera un coltello come pugnale per uccidere.
Recuperato il senso di stupore e il valore umano di certe conquiste tecnologiche occorre giungere a stabilire insieme agli allievi, soprattutto con esempi concreti, quale dev’essere il giusto rapporto dell’uomo con la tecnica.
Per far questo, una prima considerazione è sfatare la pretesa razionalista che con la tecnica la ragione umana abbia dimostrato di dominare la natura. Nessuno può violare le leggi della natura, e gli interventi dell’uomo sono possibili solo perché vi sono cambiamenti rispetto a cui la natura è indifferente; solo in questo «spazio di libertà» l’uomo può determinare processi che non avverrebbero spontaneamente. Ecco un esempio semplice. Un bicchiere di vetro poggiato su un tavolo resta dove sta finché non viene spostato, ma se qualcuno lo sposta in orizzontale non cambia praticamente nulla nello stato delle cose. Tuttavia, se è stato portato oltre il bordo del tavolo in un posto dove non è sostenuto da nulla, appena lasciato andare cade spontaneamente e si rompe. Lo spostamento in orizzontale non è dovuto alla natura: ma il risultato finale lo è. In generale, l’uomo può usare la tecnica per interferire con l’equilibrio del suo ambiente, ma può farlo solo perché le leggi di natura lo consentono.(14) Se così facendo produce danni grandi o piccoli agli altri uomini o all’ambiente è perché la natura gli ha lasciato la possibilità e la responsabilità di azioni del genere.(15)

Seconda considerazione: la tecnica può alterare anche l’equilibrio fra la nostra natura e il nostro comportamento. Per chiarire questo punto, pensiamo a una definizione dell’uomo che, secondo alcuni, fu recepita agli inizi del Novecento da una grande enciclopedia: l’uomo è un animale in continua ricerca del massimo comodo.
C’è del vero, e lo si capisce con qualche esempio. Chi ha sperimentato i metodi della produzione in serie sa che passare una giornata ad avvitare a un ritmo perfettamente regolare viti sempre uguali e sempre nella stessa posizione è molto più comodo che non dover badare continuamente a dove avvitare, scegliere le viti e il cacciavite, seguendo un ritmo che dipende dal problema del momento. Quando si criticano le catene di montaggio perché sono alienanti si dimentica che non sempre gli operai si rendono conto di scendere così al livello di automi; anzi, escono dal lavoro riposati e pronti ad andare a divertirsi nei modi corrispondenti all’età e allo spirito dei tempi. Allo stesso modo, un ragazzo che passa ore e ore giocando con il gameboy in una gara virtuale con un eroe elettronico, protetto dai rumori esterni da una musica perfettamente studiata allo scopo, non è affatto scontento o nervoso, va solo cercando qualche altro passatempo dello stesso genere.
Abbiamo già accennato alle conseguenze negative di questa tendenza; ora ci domandiamo: cosa possono fare i docenti per modificarla o prevenirla? A nostro parere non vi è che una ricetta, che si ricollega al primo punto: guidare i ragazzi a ritrovare anche nella tecnica la gioia e l’orgoglio di essere uomini.
Quando un giovane sente che vale la pena di sacrificarsi, di rinunciare ai propri comodi o ai propri divertimenti per realizzare qualcosa di bello e di nobile anche nel mondo della tecnica non ci sono più problemi: il volto oscuro della tecnica non ha più alcuna presa su di lui. Persino le catene di montaggio (che peraltro presto saranno completamente automatizzate) perderebbero il loro effetto alienante se il lavoro in serie fosse sentito come un compito da svolgere per qualche fine degno di essere perseguito o se fosse una libera scelta subordinata all’uso del tempo libero per attività che fanno sentire chi ci si dedica più utile agli altri e – perché no? – più importante. Di attività del genere ce ne sono tante, da quella artistica a quella del volontariato. Meglio ancora, ovviamente, se questo realizzarsi in attività nobili e belle è possibile già nel quadro del lavoro ordinario.
L’importante, insomma, è una giusta idea di cosa vuol dire essere uomini, è partire dai tre valori platonici – verità, giustizia, bellezza – completati dall’amore del prossimo, e sapere che la vocazione autentica di ogni uomo è promuovere e attuare quei valori nella vita personale. Una volta riusciti a separare l’impresa tecnologico-scientifica da miti alienanti come il primato del progresso economico e della comodità senza limiti, vedendola invece come un insieme di strumenti e metodi mirabili che consentono all’uomo di realizzare o di partecipare alla realizzazione di cose belle e grandi, tutto tornerà a posto. Gli allievi capiranno, per esempio, perché i giochi elettronici sono leciti per riposare, ma altrimenti sono uno sprecare il tempo.
Insomma, i mali della società non si curano con la caccia alle streghe, si curano formando gli uomini a divenire maturi e responsabili. In proposito il docente deve tener presente che anche nell’insegnamento di argomenti come il funzionamento di un ingranaggio finirà per comunicare la sua visione del mondo e dell’uomo.
È dunque anzitutto nel proprio mondo interiore che egli deve trovare il giusto posto per la tecnologia e per la tecnica.

 

 

Giuseppe Del Re
(Ordinario di Chimica Teorica presso l’Università «Federico II» di Napoli)

 

 

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Note

  1. C.S. Lewis, Miracles, (1947; London: Collins, Fount Paperbacks, 1974), p. 175.
  2. Un esempio ne è la parola «abilità», usata da molti pedagogisti per tradurre l’inglese ability, che in quella lingua ha il senso di «essere in grado».
  3. Data di pubblicazione del volume contenente le due voci del Grande dizionario della lingua italiana della UTET.
  4. Noi italiani siamo maestri nell’imitare i potenti di turno, come illustrò in modo delizioso il Manzoni, riferendo la discussione sulla pronunzia del nome Wallenstein durante il pranzo di Don Rodrigo; ma in questo caso bisogna dire che il male affligge anche i francesi, pur tanto orgogliosi della loro lingua. In inglese esiste la parola technics, che però, secondo il dizionario Webster-Random House, vuol dire piuttosto ciò che nell’italiano ufficiale si chiama tecnologia, e comunque è poco usata.
  5. In altre parole, la scienza propriamente detta differisce per il fatto che non ha fini applicativi, ma di conoscenza. C’è però una certa interdipendenza, la scienza ha bisogno di artefatti della tecnica, che le fornisce strumenti e problemi, e la tecnica ha bisogno della scienza per risolvere molti dei suoi problemi.
  6. G. Del Re, Parole e scienza: Sistema, in Emmeciquadro n. 20, aprile 2004 e Sistemi e complessità, in Emmeciquadro n. 21, agosto 2004.
  7. Ne raccolse moltissime, insieme a notizie sulle meraviglie della natura, quella personalità eclettica di ingegnere e scienziato che fu Gaetano Castelfranchi, in un libro pieno di entusiasmo del 1938, Meraviglie della natura,della scienza, della tecnica, Tumminelli, Roma 1938.
  8. Il ponte sospeso sulla Chesapeake Bay è uno dei più lunghi ed eleganti che l’autore abbia percorso. Il ponte sospeso a campata più lunga in assoluto (1410 m) è invece quello sul fiume Humber, in Inghilterra.
  9. Non poche di queste realizzazioni vengono catalogate come conquiste scientifiche, ma anche quando sono nate per esigenze di osservazione scientifica si sono sviluppate in gran parte come strumenti per applicazioni a fini economici e sociali.
  10. R. M. Rilke, Elegie Duinesi, RCS-BUR, Milano 1994. Il volume indicato contiene il testo tedesco e la traduzione di F. Rella. IX elegia, vv. 53-63.
  11. San Tommaso, Physicor. L. II,14.
  12. L’impero romano manteneva aperte vie di comunicazione di migliaia di chilometri, e vi erano sistemi di trasmissione dei messaggi urgenti mediante segnali luminosi che potevano giungere a Roma in tempi brevissimi. L’organizzazione delle poste imperiali era eccellente.
  13. M.D. Chenu OP, Théologie de la Matière , Le Cerf, Paris 1967, p. 94-96.
  14. Si noti qui che la parola «natura» ha almeno tre significati, affini ma distinti, che si riconoscono di solito per il contesto. Vi è la natura umana, che è l’insieme delle tendenze o facoltà proprie dell’uomo, la natura come sistema dei processi che avvengono spontaneamente e infine la natura come sinonimo di insieme di tutti gli enti materiali. A quest’ultima ci si riferisce quando si parla di leggi di natura.
  15. Ambiente dell’uomo è tutta la realtà materiale in cui l’umanità opera, quindi può comprendere anche un lontano pianeta su cui arriva una sonda spaziale.

 

 

 

 

© Pubblicato sul n° 22 di Emmeciquadro


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