È la domanda che interpella sia il mondo della scuola sia la comunità scientifica. I contributi presentati in questo numero mostrano come la risposta non sia né semplice né scontata; e come implichi una disponibilità, su entrambi i fronti, a lasciarsi mettere in discussione.
Quale scienza? Verrebbe da rispondere subito: quella viva, quella che tutti i giorni vive nei laboratori e nei centri di ricerca, portandovi i frutti di una preziosa eredità che viene da lontano e che consente di suscitare continuamente nuove e intriganti domande sulla natura e sui suoi comportamenti. Solo che spesso gli stessi scienziati rischiano di sottovalutare la carica vitale del loro lavoro e di farsi sfuggire quegli elementi di fondo che rendono umanamente densa, e a volte entusiasmante, l’avventura del lavoro scientifico. A maggior ragione, dovendo comunicare la scienza ai giovani è necessario far venire a galla i fattori significativi basilari, quelli che motivano l’intera impresa della ricerca e che danno senso al suo apprendimento. In tale prospettiva, il termine che più di altri occorre ripensare e rilanciare è il termine esperienza. La scienza che ancora potrebbe mobilitare tanti giovani (e rialzare le sorti delle facoltà scientifiche) non è equivalente alla somma dei suoi risultati teorici; non è racchiusa nei perfetti e impersonali formalismi che la sintetizzano; e neppure è riducibile all’abilità di manipolare correttamente tali formalismi. Tanto meno condensa il suo significato e valore nelle smisurate, e spesso spericolate, applicazioni tecnologiche.
È tutto questo, ma è molto di più: è il mettere tutte queste cose in relazione all’uomo (si veda il contributo di Giuseppe Del Re) e al suo bisogno di rapporto pieno con la realtà. La scienza allora si rivela come esperienza di gusto dell’indagine, di gioia per la scoperta, di rigore che sa rispettare i dati della realtà, di sorpresa per l’emergere della corrispondenza tra dati, ipotesi e fenomeni. Si configura così un’autentica esperienza di conoscenza, il cui valore è apprezzabile da tutti ed è per tutti, non solo per chi era già appassionato alle scienza. Si potrà dire che la scienza avrà trovato il suo giusto posto nella scuola quando il suo valore educativo sarà riconosciuto e ugualmente apprezzato da tutta la comunità scolastica e in tutti gli indirizzi di studio.
E siamo alla seconda parte della domanda: quale scuola? Non certo una scuola anonima che si limita a offrire «percorsi da esplorare»; che addestra all’utilizzo di tecniche per acquisire conoscenze, disinteressandosi del valore e del significato dei contenuti di tali conoscenze. Quello di cui c’è bisogno è di una scuola che sia un «luogo», un ambito accogliente della persona e del suo bisogno di crescere confrontandosi con tutto. Non un panorama piatto e indistinto, uniformemente grigio, esposto al libero gioco delle interazioni casuali; quanto piuttosto un ambiente variegato, ricco di segni, di segnali che invitino gli studenti a muoversi con dei criteri, a fidarsi di alcune guide con le quali intraprendere un cammino conoscitivo.
Un luogo ben individuabile, necessariamente circoscritto ma tuttavia aperto; dove ogni passo riveli nuovi orizzonti e ogni risposta non chiuda i problemi, ma spalanchi nuovi e ancor più interessanti interrogativi.
Le discipline scientifiche da un lato possono contribuire a tener vivi luoghi con queste caratteristiche; dall’altro possono trovare in essi un terreno di coltura adeguato e fecondo.
Mario Gargantini
(Direttore della Rivista Emmeciquadro)
© Pubblicato sul n° 24 di Emmeciquadro