Un’intervista a tutto campo, toccando i temi che ricorrono nei dibattiti più seri sull’evoluzione. A partire dall’esperienza personale, come può fare uno studioso di fossili per cui la «teoria degli equilibri punteggiati», formulata più di trent’anni fa, è stato solo l’inizio di un cammino di studio e di divulgazione dei problemi legati all’evoluzione.



Intervista rilasciata a Genova il 6 novembre 2004 in occasione del 2° Festival della Scienza.

Che cos’è la teoria degli equilibri punteggiati e in quale modo si è sviluppata?

La teoria degli equilibri punteggiati, che risale al 1972, è la combinazione di due idee.
Una è basata sulle attuali osservazioni, e in realtà non è un’idea, ma un fatto: diversamente da quanto ci era stato insegnato che dovevamo aspettarci, le specie non cambiano molto attraverso il tempo, c’è una grande stabilità ed è proprio questa la caratteristica di ciò che noi chiamiamo una specie.
Poi a un certo punto vediamo nuove specie, ma queste sembrano apparire all’improvviso: dopo molti milioni di anni spesso senza nessun cambiamento, in un breve lasso di tempo (da 5 000 a 50 000 anni) si hanno alcune mutazioni rilevanti dal punto di vista evolutivo.
La seconda idea è che la spiegazione di questo fenomeno sia di tipo geografico, consistendo nell’isolamento ambientale. Così la teoria della speciazione, sviluppata specialmente da Ernst Mayr e Theodosius Dobzhansky, sembra spiegare questa particolare caratteristica.
Dal punto di vista della sua ideazione, la teoria degli equilibri punteggiati, che mette insieme questi due aspetti, è nata in certo senso dalla disperazione, perché stavo cercando di mostrare come avviene l’evoluzione e non trovavo nessuna evoluzione, eccetto alcuni momenti: trovavo quasi sempre stabilità, e poi ogni volta la rapida apparizione di nuove specie.



Questa teoria è oggi accettata dalla comunità scientifica?

Direi che la risposta è «sì e no».
L’osservazione della stasi ora è accettata, è generalmente riconosciuta vera dalla maggioranza dei biologi, anche quando non amano gli equilibri punteggiati.
[A sinistra: Niles Eldredge (1944-…)]
Direi che gli equilibri punteggiati, cioè l’associazione della speciazione e della stasi, non siano più controversi. Invece, penso che ciò che è realmente interessante sia come spiegare la stasi, e penso che la sfida ancora maggiore degli equilibri punteggiati è questa faccenda della stabilità di molte differenti specie in un ecosistema per milioni di anni e poi eventi di estinzione di massa che hanno come risultato la rapida apparizione delle specie loro discendenti.
Molti equilibri punteggiati si verificano più o meno contemporaneamente, e questo è molto controverso, ma è anche vero.



Che ne pensa dell’approccio che sottolinea il ruolo dell’auto- organizzazione nell’evoluzione?

L’auto-organizzazione nell’evoluzione è molto interessante, però non è il mio campo. Credo che i progressi nella conoscenza dei meccanismi di regolazione genetica possano fornire una maggiore comprensione, ma ne so molto poco, non so quali combinazioni potrebbero effettivamente funzionare e quindi non ho molto da dire.

Quali sono a suo parere i principali problemi ancora aperti nella teoria dell’evoluzione?

 

Penso che sia in primo luogo una questione di prospettiva.
Sentiamo oggi molte persone che parlano del problema dei differenti cambiamenti in sistemi differenti.
[A destra: Ernst Mayr (1904-2005)]
Io credo invece che il problema principale sia l’integrazione delle conoscenze che stanno emergendo a proposito del genoma con le mutazioni evolutive su piccola scala.
Quindi, come conciliare i mutamenti su piccola scala con la stabilità nell’arco di milioni di anni?
[A sinistra: Theodosius Dobzhansky (1900-1975)]
Un altro problema è che molti ancora pensano che l’evoluzione sia qualcosa che deve sempre essere provata, per esempio che la selezione stia quasi sempre cercando di provare l’adattamento in maniera verificabile. E tutto questo è vero, ma il problema è che abbiamo le specie, abbiamo gli organismi e dobbiamo capire come la selezione può lavorare su di essi e andare oltre.
Quindi ci serve più teoria, ci servono l’isolamento e la speciazione. Questa teoria esiste, ma non è ben integrata. Così io penso che il principale problema nell’evoluzione sia molto probabilmente quello di integrare le nostre osservazioni su differenti scale.

 

 

Cosa pensa a proposito della possibilità di vita su altri pianeti? Il suo amico Stephen Jay Gould era piuttosto scettico al riguardo.

 

Steve insisteva molto sul grande peso della contingenza. Si può andare in due direzioni.
Si può dire, come faceva per esempio Carl Sagan, che la vita è molto improbabile, ma dato che ci sono miliardi di sistemi stellari, alcuni di essi avranno pianeti, e alcuni di questi avranno condizioni simili alla Terra, adatte alla vita, così da questo punto di vista sarebbe strano se non esistesse nessun’altra forma di vita nello spazio.
[A destra: Carl sagan (1934-1996)]
D’altra parte, Gould diceva che non è per niente sicuro che l’evoluzione della vita su un altro pianeta ci darebbe qualcosa come l’Homo sapiens o altre specie capaci di pensiero razionale. Infatti Gould diceva che se si facesse ripartire il gioco da tre miliardi e mezzo di anni fa, le cose potrebbero andare così diversamente che noi potremmo non emergere mai.
Io propendo per un’ipotesi probabilistica. Personalmente non sarei sorpreso se si scoprissero forme di vita batterica da qualche altra parte, perfino nel sistema solare, ma certamente al di fuori di esso.

 

 

Visto che ne abbiamo appena parlato, vuole darci un breve ricordo del suo amico Stephen Jay Gould?

 

In tutta la mia vita non ho mai visto una persona così intelligente e che lavorasse così duramente. Aveva anche un tremendo dono per capire le nuove aree di ricerca, le nuove idee, le afferrava rapidamente ed estremamente bene. Penso che fosse anche un meraviglioso […], era precisissimo: leggeva più attentamente di chiunque altro, me compreso.

Cosa può dire circa l’argomento della sua conferenza di oggi, la biodiversità?

 

Quello della biodiversità è un problema che vorrei non avessimo.
Ma è perché abbiamo avuto tanto successo nel trasformare la Terra per le nostre necessità, e adesso dobbiamo preoccuparcene.
[A sinistra: Stephen Jay Gould (1942-2002)]
Per esempio, i rifiuti. Quando, centinaia di anni fa, solo poche persone vivevano sulla Terra, uno poteva buttare quello che voleva in un posto e poi andarsene e non pulire mai, tanto non doveva tornare indietro.
Oggi non possiamo più farlo, perché tutti i posti buoni per la vita umana su questo pianeta stanno venendo trasformati in peggio. Se si cessa la pressione sulla natura questa torna indietro – è sorprendente: ripulisce tutto, rimette tutto come prima, molto rapidamente. Ma se si mantiene la pressione, non le si dà nessuna possibilità di riparare i danni. Così, bisogna preservarla prima di arrivare al punto di non ritorno. E questa è la ragione di attività di divulgazione e di conferenze come questa: risvegliare la consapevolezza della gente, perché credo che nessuno voglia vivere in un mondo completamente rovinato.

 

 

Lei però, pur essendo preoccupato, non è pessimista al riguardo …

 

Ogni tanto «sono» pessimista, perché la cultura degli uomini di oggi non permette di pensare molto più in là di una generazione e mezza, perché questo è tipicamente il tempo della vita di un uomo. Io ho sessantuno anni e adesso ho un nipotino, e posso sperare di vederlo arrivare più o meno a vent’anni: appunto, una generazione e mezza.
Così le persone hanno la tendenza a preoccuparsi solo per se stesse, per i propri figli e appena un poco per i propri nipoti, e tutto è in funzione di questo; non si pensa invece per niente ai pronipoti e ai figli di questi, e a come sarà la loro vita. È un tempo troppo breve e molto opportunistico. Così si dice: «OK, questi anni sono tutta la storia della vita, ciò che realmente conta è trovare l’energia, le risorse di cibo adesso, in questo giorno». Ma dovremmo valutare anche il domani, quando forse mancherà il cibo ai nostri figli e nipoti.
Dobbiamo cominciare a pensare sul lungo periodo, ma è più difficile perché, sfortunatamente, non c’è una storia per questo nella nostra cultura. Così si tratta di andare contro la storia.

 

 

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A cura di Paolo Musso
(Filosofia della Scienza – Università dell’Insubria – Varese)

 

 

Niles Eldredge
Curatore della Divisione di Paleontologia dell’American Museum of Natural History di New York dove lavora dal 1969.

 

 

 

 

 

© Pubblicato sul n° 25 di Emmeciquadro

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