Il titolo di questo contributo, che riprende una conferenza tenuta all’Università Politecnica delle Marche ad Ancona il 23 maggio 2006, non solo identifica il tema, e la sua attualità, ma indica già il percorso da compiere e la sua scansione. Dopo aver delineato i contorni dell’orizzonte categoriale che dà significato al termine «cultura», l’autore chiarisce il concetto di «umanesimo cristiano», per riflettere infine sui rapporti che l’umanesimo cristiano intrattiene con la ricerca scientifica.



Le immagini che corredano questo articolo sono disegni acquarellati di scuola fiorentina della seconda metà del sec. XV. Esse sono conservate a Firenze, nella Biblioteca Riccardiana, Ricc. 2174, Erbario.
Si ringrazia la Biblioteca Riccardiana di Firenze per l’autorizzazione all’uso delle immagini, su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali.

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Mi piace iniziare dal confronto fra due testi poetici, uno biblico e uno moderno. Il testo biblico è desunto dal Salmo 8: «Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita, / la luna e le stelle che hai fissate, / che cosa è l’uomo perché te ne ricordi e il figlio dell’uomo perché te ne curi?» [vv. 4-5].
L’altro testo è desunto da Leopardi e dice: «e quando miro in cielo arder le stelle; / dico fra me pensando: / a che tante facelle? / che fa l’aria infinita e quel profondo / infinito seren? che vuol dire questa / solitudine immensa? ed io che sono? / Così meco ragiono: e della stanza / smisurata e superba, / e dell’innumerabile famiglia […] / uso alcuno, alcun frutto / indovinar non so».(1)
I due testi nascono dalla stessa esperienza: l’uomo che prende coscienza di se stesso dentro l’universo. È una presa di coscienza che, sia nel salmista sia in Leopardi, nasce dal confronto fra la «stanza smisurata » e la fragile misura dell’uomo.
[A sinistra: Mandragora femmina, c. 51 v]
È dunque l’esperienza dell’universo che diventa consapevole, e questa presa di coscienza è costituita dall’io dell’uomo. Ma l’identica esperienza giunge a due esiti opposti. Il salmista, pur uscendo soccombente dal confronto con l’universo, si scopre affidato a una memoria che non lo dimenticherà mai più e a una cura che non lo abbandonerà mai. L’uomo leopardiano si scopre invece affidato a un ignoto che è impossibile decifrare, sperduto in un insensato vagabondare dentro uno spazio senza voce.
Lasciamo per ora impregiudicata la questione su quale dei due esiti sia il più ragionevole e consistente; fermiamo invece l’attenzione sull’origine identica dei due percorsi, del salmista e di Leopardi. Ho parlato di una presa di coscienza di se stesso da parte dell’uomo e nell’uomo anche dell’universo; è l’esperienza descritta da Pascal: «l’uomo non è che una canna, la più debole della natura; ma è una canna pensante».(2)
È quest’esperienza l’inizio della vita propriamente umana: porsi consapevolmente nella realtà, in rapporto con essa.
Chiamo cultura questo posizionarsi dell’uomo nella realtà: l’assetto che l’uomo dà al suo essere nel mondo, l’assestarsi dell’uomo dentro la realtà. La cultura definisce l’humanum in senso stretto e distingue l’uomo da ogni altra realtà dell’universo in cui viviamo: è il suo modo specifico di vivere e di essere.



La genesi della cultura

Ora vorrei essere più preciso e più concreto, cercando di verificare quali siano i dinamismi che spingono l’uomo a cercare, e trovare, il suo assetto dentro la realtà; potremmo dire a «produrre cultura». L’uomo cerca di assestarsi dentro la realtà in modo vero e buono: la ricerca della verità e la passione per il bene sono i due fondamentali dinamismi.
Che cosa significa porsi dentro la realtà in modo vero? La verità è il disvelarsi della realtà all’uomo, disvelarsi che avviene nel giudizio della ragione.
Nella conoscenza vera avviene una corrispondenza fra la persona umana e la realtà; questa corrispondenza presuppone che l’essere delle cose sia per sé intelligibile e quindi abbia un significato, e che l’intelletto sia capace di aprirsi, sia intenzionalmente aperto alla realtà stessa. Quando invece non conosco, cado cioè nell’errore, introduco la mia persona dentro un mondo irreale e inesistente, anche se non raramente più affascinante: fascinatio nugacitatis et vanitatis.
La cultura è quindi ricerca della verità, in primo luogo; il pensare in verità è l’asse portante della cultura. Ora esistono delle evidenze originarie che sono come i punti cardinali che guidano la scoperta della verità da parte dell’uomo. Mi limito a richiamarle semplicemente.
L’uomo ha l’evidenza originaria che non si è fatto da sé; che il suo io è stato posto in essere da un Altro. L’atto generativo umano non spiega la venuta all’esistenza dell’io irripetibile che è ciascuno di noi. La ricerca del fondamento ultimo del nostro esistere è la domanda di verità più urgente poiché dalla risposta vera alla medesima dipende il giudizio valutativo circa la propria vita. Se esisto per caso, il mio «esserci» non possiede alcun significato suo proprio; se sono il frutto di un atto di intelligenza e di amore – tale è l’atto creativo – il mio «esserci» ha una indistruttibile consistenza.

L’uomo ha l’evidenza originaria che è-con-l’altro; non esiste, co-esiste; non c’è umanità se non come co-umanità (communitas).
L’uomo è originariamente in relazione con l’altro e il simbolo reale di questa originaria costituzione relazionale dell’uomo è che la persona umana è uomo e donna. La ricerca e la scoperta del significato della relazionalità interpersonale è costitutiva del porsi dell’uomo dentro alla realtà.
[A destra: Cipolla maris, c. 42 v]
L’uomo ha l’evidenza originaria che essere «qualcuno» è essenzialmente diverso che essere «qualcosa». L’universo dell’essere è diviso in due regioni: la regione delle persone e la regione delle non-persone. E pertanto il rapporto della persona con il mondo impersonale è essenzialmente diverso dal rapporto della persona con la persona: la persona ha le cose; la persona è-con le persone.
Ma porsi dentro la realtà non è opera solo né principalmente della ragione, è opera della libertà. Il dinamismo costruttivo della persona non è la ragione, è la libertà. È quindi mediante le scelte libere che la persona prende posizione, si assesta, dentro alla realtà.
L’esperienza quotidiana testimonia che la libertà può realizzare nelle sue scelte la verità che abbiamo conosciuto con la ragione, e può negarla. È una fragilità insita nella nostra libertà di scelta. Pertanto la persona può edificare un mondo vero, può costruire un io nella verità, ma può anche edificare un mondo falso e costruire un io illusorio.
[A sinistra: Dittamo bianco, c. 38 r]
Ho accennato ai tre assi portanti dell’autocostruzione dell’io.
Negando l’evidenza originaria della propria dipendenza da un Altro e della propria appartenenza a Dio, l’uomo afferma un’autonomia illusoria, la quale genera sempre idolatria.
Negando l’originaria correlazione interpersonale, la costruzione del sociale umano è continuamente minacciata e insidiata dal conflitto radicale dell’uomo contro l’uomo, minaccia a cui cerchiamo di sfuggire o mediante coesistenze regolamentate di opposti egoismi o mediante la svendita di se stessi al potere.
Negando la verità delle cose e del rapporto con esse, o si diventa padroni assoluti negando alle cose una loro consistenza non manipolabile o delle stesse si diventa schiavi ponendo nel loro possesso la propria realizzazione.

 

 

 

L’umanesimo cristiano

 

 

Siamo ora in grado di definire l’umanesimo. Il termine denota il dinamismo della persona verso la propria autorealizzazione nel senso appena detto. La persona non solo si auto-determina, ma si propone come fine se stessa: l’auto-determinazione è anche auto-teleologia. Il nostro io, attraverso la scelta libera con cui afferma/nega la verità conosciuta, dispone contemporaneamente di se stesso scegliendo di essere in un certo modo. L’umanesimo è il risultato di questa costruzione che l’uomo fa di se stesso, è questa auto-costruzione. Auto-costruzione o auto-teleologia non significa affatto un chiudersi della persona in se stessa, ma implica sempre un contatto vivo con la realtà intera.
Qui occorre ritornare al salmista e a Leopardi; più precisamente al punto in cui le due strade si divaricano per giungere ai due capolinea opposti.
[A destra: Gengiovo (zenzero), c. 52 v]
Il ritorno ai due autori avviene attraverso non una, ma «la» domanda fondamentale che l’uomo possa porsi: l’auto-costruzione dell’uomo ha un fondamento su cui poggiare oppure è un’autocostruzione fondata semplicemente su se stessa? Formuliamo la domanda con un registro più soggettivo: il dinamismo che spinge la persona alla beatitudine ha una sua intima ragionevolezza oppure è semplicemente un movimento fisico-istintuale senza alcun oggetto suo proprio? Poniamo infine la stessa domanda nel contesto di questa riflessione: è possibile discernere un umanesimo vero da un umanesimo falso?
In un certo senso è stato Aristotele a porre per primo queste domande, più precisamente a porle come domanda circa la «verità della soggettività»; e la sua risposta è stata un definitivo guadagno spirituale per l’umanesimo occidentale. È possibile discernere un umanesimo vero – uno sviluppo della propria soggettività – da un umanesimo falso purché ci lasciamo guidare dalla nostra ragione; purché la ragione – λóγοζ – o l’intelletto – νουζ – siano egemoni in noi.
La nostra ragione è come la luce. La luce non può che illuminare, non può oscurare, ma possono esserci cause estrinseche che le impediscono di illuminare. Così è della luce che è in noi: essa non può che illuminare. Tuttavia la luce che è la nostra ragione può venire annebbiata, sviata e oscurata dai disordini delle passioni, da quella che Agostino chiamava la curvatio della volontà; la libertà ha il potere di negare nella prassi ciò che la ragione conosce.
Non solo. La ragione appare come ferita nel suo stesso esercizio, per cui quando cerca di costruire la risposta alle domande più profonde della vita, giunge con fatica a una risposta, non è mai esente da errori. Nella sua ricerca di una beatitudine vera, l’uomo è mendicante di luce per la sua ragione e di amore appassionato del bene per la sua libertà. Cristo è la risposta a questa mendicanza di verità e di bene – non semplicemente e principalmente perché dona un insegnamento più vero circa il bene della persona -, ma perché rende l’uomo partecipe della sua stessa vita. Con un esempio.

È a tutti noto come il bambino impari a parlare: la madre comincia ad articolare parole, che il bambino ascolta; a un certo momento avviene il «miracolo», il bambino diventa capace di parlare, non si limita più ad articolare suoni, a ripetere parole; diventa homo loquens, capace di entrare nella comunicazione-comunione con le altre persone.
La Chiesa annuncia il Vangelo, che l’uomo ascolta; a un certo momento avviene il miracolo, accade l’incontro con la persona di Cristo e l’uomo diventa capace di vivere la sua umanità in Cristo come Cristo: Cristo è divenuto la «verità della sua soggettività».
[A sinistra: Prezzemolo selvatico, c. 99 v]
Il Nuovo Testamento usa un’espressione di una suggestione immensa: «aprire il cuore». È il dinamismo costruttivo della propria umanità che viene reso capace di realizzare la propria persona in Cristo. Quando e dove ci sono uomini e donne cui è accaduta quella «apertura del cuore», lì comincia la costruzione dell’umanesimo cristiano, o – il che coincide – nasce una cultura cristiana.
Che cosa «apre il cuore»? Il sentire che esiste una corrispondenza fra ciò che il cuore desidera e ciò che l’annuncio cristiano documenta; in una parola, il sentire corrispondenza fra il «cuore» e «Cristo». Poiché questa è la sorgente dell’umanesimo cristiano, questo non è allora altro che la realizzazione della propria umanità secondo la misura di Cristo: una misura centuplicata. L’umanesimo cristiano non denota una sorta di realizzazione aggiunta alla realizzazione della propria umanità, è la propria realizzazione nella sua perfezione. Il vero umanesimo cristiano è la santità e il santo è semplicemente l’uomo interamente vero.
Quando dico «propria umanità» intendo parlare delle tre coordinate portanti il nostro faticoso vivere: il rapporto con Dio; il vivere in società; la consegna del mondo alle nostre mani operose. Per questo nulla di ciò che è umano resta estraneo all’apertura del cuore del cristiano, nessuna dimensione dell’esistenza umana resta estranea a Cristo. L’anima dell’umanesimo cristiano è la cattolicità: capacità di raccogliere, valorizzare, integrare in sé, all’interno del proprio rapporto con Cristo, tutto quello che di buono, di vero, di bello l’uomo ha realizzato.
Una delle più grandi opere della ragione umana è l’impresa scientifica moderna, di cui ora parlerò brevemente.

 

 

 

Umanesimo cristiano e ricerca scientifica

 

 

La ricerca scientifica è una delle forme fondamentali in cui si esprime e realizza il bisogno di verità proprio dell’uomo. È infatti da escludere la tesi secondo cui l’essenza del metodo scientifico sarebbe il relativismo; come ha detto recentemente Giorgio Israel: «la scienza classica non ha nulla a che fare con il relativismo. Essa nasce al contrario come un progetto di acquisizione progressiva di verità. Per dirla con Jacques Monod, l’asse portante della scienza è il principio di oggettività. La scienza ricerca “leggi” e non opinioni.»
Questo non significa che il sapere scientifico, così come ogni sapere umano, non sia sempre rivedibile e perfezionabile, né che le verità scientificamente acquisite siano assolute; sono sempre verità parziali, frammentarie, sulle quali è possibile e doveroso un confronto continuo. Non uno scontro di «opinioni soggettive» contrapposte fra loro al fine di produrre il consenso alla propria, ma un confronto fra affermazioni per verificare la loro adeguatezza a spiegare la realtà. Conoscenza non esaustiva non è sinonimo di conoscenza falsa.
[A destra: Erba medicame (medica), c. 120 v]
Stante questo legame intimo fra ricerca scientifica e verità, la ricerca scientifica costituisce uno dei momenti imprescindibili nella costruzione di un vero umanesimo cristiano. Da un duplice punto di vista.
Da una parte la libertà è da sempre la condizione essenziale per lo sviluppo di ogni sapere scientifico che voglia custodire la sua intima dignità di ricerca del vero.
Dall’altra solo la dedizione incondizionata alla verità immunizza la ricerca scientifica dal pericolo di essere ridotta a pura funzione, di essere asservita a quella dittatura del desiderio che impone il soddisfacimento di bisogni immediati. La libertà assicura la vocazione della ricerca scientifica alla verità; la dedizione alla verità assicura la libertà alla ricerca scientifica. Qui si tocca il «nodo centrale» della possibilità della ricerca scientifica di essere o fattore costruttivo di vero umanesimo o forza devastante dell’humanum.
La riduzione della scienza a un’attività di problem solving pone una barriera fra essa e le altre forme di attività intellettuale, negandole un ruolo culturale; penso che non raramente la scienza oggi venga concepita e praticata come un fatto puramente tecnico funzionale, secondo una visione e una prassi che tendono a far coincidere il valore conoscitivo- scientifico della ricerca col successo dei suoi processi e con la loro efficacia pragmatica.
Se si inizia a percorrere questa strada, e già lo si sta facendo, non c’è dubbio che l’umanesimo – la difesa e la promozione dell’humanum – è seriamente in pericolo. Perché la libertà della ricerca scientifica non è più libertà per la verità, ma libertà – anzi perfino obbligo – di poter fare tutto ciò che è tecnicamente possibile.

Alla «libertà della verità» si andrà gradualmente sostituendo la «libertà del potere» e questa porta inevitabilmente alla dittatura dell’utilitarismo.
La responsabilità dell’uomo di scienza, oggi particolarmente grave in ordine all’edificazione di un vero umanesimo, consiste essenzialmente nel ridare e custodire piena dignità e libertà alla ricerca scientifica come ricerca della verità.
[A sinistra: Acoro, c. 121 v]
È certo – come già detto – che la verità conosciuta dalla scienza è parziale, settoriale. Ma nessuna verità contraria un’altra verità: in ultima analisi, la ragione non contraria mai la fede né la fede la ragione. Quando dunque la ricerca scientifica è tesa alla conoscenza della verità sua propria, essa non può non orientare chi la pratica verso la totalità del vero e sarà prima o poi costretta a farsi domande sull’intero: la ricerca scientifica apre chi la pratica su tutta la ricchezza dell’essere. È allora possibile, anzi ineludibile, un incontro profondo e reale fra scienza, etica e teologia.
Quando si riflette sul rapporto tra umanesimo e ricerca scientifica, non è raro constatare oggi due atteggiamenti opposti: quello dell’ottimismo sfrenato e quello del pessimismo deluso. La scienza o è esaltata come la liberazione dell’uomo da ogni male o è temuta come la possibile devastazione dell’umanità. Sono attitudini irrazionali che nascono dalla definizione pragmatica di verità scientifica. «La terapia è allora quella di riscoprire il valore umano e personalista della conoscenza scientifica, giustificandone così le sue esigenze di libertà, in quanto bene umano, un bene che riceve la sua determinazione soltanto dalla verità e per questo rifiuta di essere legittimato sulla base dei risultati immediati o del profitto economico».(3)

 

 

 

Conclusione

 

 

Il Dialogo di un fisico e di un metafisico, nelle Operette morali di Leopardi, è fonte di una riflessione che può riassumere quanto abbiamo detto. Cito i passaggi iniziali e la conclusione.

 

«Fisico: Eureca, eureca.
Metafisico: Che è? che hai trovato?
Fisico: L’arte di vivere lungamente.
Metafisico: E cotesto libro che porti?
Fisico: Qui la dichiaro: e per questa invenzione, se gli altri vivranno lungo tempo, io vivrò per lo meno in eterno; voglio dire che ne acquisterò gloria immortale.
Metafisico: Fa una cosa a mio modo. Trova una cassettina di piombo, chiudivi cotesto libro, sotterrala, e prima di morire ricordati di lasciar detto il luogo, acciocché vi si possa andare, e cavare il libro, quando sarà trovata l’arte di vivere felicemente.
Fisico: E in questo mezzo?
Metafisico: In questo mezzo non sarà buono da nulla. Più lo stimerei se contenesse l’arte di viver poco.
Fisico: Cotesta è già saputa da un pezzo; e non fu difficile trovarla.
Metafisico: In ogni modo lo stimo più della tua.
Fisico: Perché?
Metafisico: Perché se la vita non è felice, che fino a ora non è stata, meglio ci torna averla breve che lunga. [… ]
Metafisico: Ma in fine, la vita deb’esser viva, cioè vera vita: o la morte la supera incomparabilmente di pregio»

 

 

L’uomo non desidera solo vivere, desidera una vita buona. Non desidera solo vivere, desidera avere ragioni incontrovertibili per cui valga la pena di vivere. «Ma in fine, la vita deb’essere viva, cioè vera vita».
È possibile che la ricerca scientifica aiuti l’uomo a vivere una vita buona, una vita vera? Non ho dubbi nel rispondere affermativamente.
La ricerca scientifica, se custodisce la sua libertà e la sua identità, diventa fattore costruttivo della nostra umanità. Ma resta una domanda ultima per cui l’uomo ha assolutamente bisogno di risposta: se c’è uno che si prenda cura di lui, che non ne perda mai la memoria.
Anche la ricerca scientifica può aiutare l’uomo nell’itinerario mentis in Deum.

 

 

 

Sua Em.za Carlo Caffarra
(Cardinale Arcivescovo di Bologna)

 

 

 

  1. Giacomo Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, vv. 85-92; 97-98.
  2. Blaise Pascal, Pensieri, 347; 258.
  3. Giuseppe Tanzella-Nitti, Passione per la verità e responsabilità del sapere, Piemme, Casale Monferrato 1998, p. 165.

 

 

 

 

 

© Pubblicato sul n° 27 di Emmeciquadro


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