Chimico fisico, di formazione medico biologica, occupa un posto originale nell’epistemologia del XX secolo, in quanto approda alla filosofia dopo un fecondo itinerario di ricerca scientifica in campi d’avanguardia. L’autore tratteggia un accurato ritratto dello scienziato e del pensatore, evidenziando la portata e la novità delle sue idee sulla genesi della conoscenza. Con uno sguardo particolare alla sua riflessione sulle relazioni tra pensiero scientifico e fede religiosa.



Michael Polanyi, chimico e filosofo, pur essendo meno noto di Popper, Kuhn, Lakatos e Feyerabend, ha dato un contributo davvero notevole alla filosofia della scienza.
«Sembravano non esserci limiti alla sua conoscenza, molto oltre i confini tra scienza e filosofia, e parlare con lui animava la mente e più volte portava un pizzico di eccitazione. Ricordo ancora il suo sorriso e i suoi occhi scintillanti. Era davvero un buon amico da avere». [Thomas F. Torrance, 1980, p. xii].
Con queste parole il professore emerito di Dogmatica Cristiana dell’Università di Edimburgo ricorda i suoi colloqui con Polanyi, negli anni tra il 1940 e il 1960, attorno alla originale e profonda riflessione che questi aveva elaborato viaggiando tra gli Stati Uniti e l’Inghilterra e, in particolare, sulla natura e la giustificazione della conoscenza scientifica, sulla scienza stessa e sul ruolo degli scienziati nella società, anticipando e affermando nuove tesi che saranno riprese e sviluppate in seguito da altri, e che sono interamente valide ancor oggi.
Polanyi, come sottolinea Giuseppe Del Re [2002], fu forse davvero «unico» e per tre motivi. Anzitutto era un chimico-fisico, ma con un background «biologico», e quindi non fu influenzato dal riduzionismo fisicalista. Inoltre Polanyi non fu mai attratto dal neopositivismo, forse perché il suo campo di ricerca scientifica era pienamente «operativo » e verificabile in laboratorio, e dunque la nuova dottrina filosofica non costituiva una novità o un problema. Infine lo scienziato ungherese era intimamente convinto dell’unità della persona e quindi, quasi «necessariamente», si soffermò nel chiarire le relazioni tra pensiero scientifico e fede religiosa.



Dalla ricerca pura alla ricerca personale, dalla scienza alla riflessione filosofica

Formatosi nella cultura austro-ungarica, culla di altri grandi scienziati e filosofi come Ludwig Boltzmann, Erwin Schrödinger, Wolfgang Pauli, Ludwig Von Bertalanffy, L. Von Neumann, Ludwig Wittegenstein, Karl Popper e del Circolo di Vienna, Polanyi aveva coltivato fin da giovane, sulla scorta di un’ampia educazione, interessi volti alle lettere e alle arti, oltre che alla scienza. Dalla chimica e dalle ricerche sulle molecole, sugli atomi, sulle particelle e i legami energetici, Polanyi, studioso di profonda sensibilità, amplia la sua riflessione alla scienza come processo conoscitivo e allo studio del ruolo dello scienziato come persona che fa ricerca e che è in ricerca.
Come e perché dalla ricerca scientifica di altissimo livello e nel corso di una carriera nel pieno del suo successo, Michael Polanyi si avvicinò progressivamente alla filosofia e all’epistemologia in particolare, per non tornare indietro sui suoi passi?
Testimonianza di quanto questo suo cambiamento professionale rispecchiasse non un evento occasionale, ma una scelta ben determinata, fatta non senza sacrificio e sforzo, è evidente da quanto lo scienziato scrive alla moglie nella prefazione del 1957 alla sua opera fondamentale, La conoscenza personale: «Desidero esprimere la mia ammirazione per una persona che senza esitare ha diviso con me i rischi di un’impresa non comune e ha sostenuto con me per anni la tensione che io diffondevo con questa attività eccezionale.»
Come ogni uomo responsabile e attento a quanto accade attorno a lui, Polanyi viveva nella società e nella storia dell’epoca, senza rinchiudersi nelle sue ricerche scientifiche o nella sua vita personale quotidiana. Le vicende politiche degli anni Trenta e Quaranta nella sua Ungheria, in Germania e in tutta l’Europa, l’avevano portato a riflettere e a interrogarsi su quello che stava succedendo.
Come intellettuale, si chiedeva come tali eventi avevano potuto aver origine e avere avuto esiti così negativi e distruttivi per l’umanità. La ricerca della verità e la rettitudine degli ideali non deve essere subordinata alle ideologie dominanti nell’epoca e lo scienziato non deve permettere che sia mai calpestata la dignità del sapere e la sincera ricerca del vero.(1)
Per questo motivo, Michael Polanyi decise, in quel momento storico, di sospendere le ricerche in laboratorio e di cercare di comprendere quale fosse il «pensiero» che è alla base delle stesse ricerche e di tutte le attività cognitive della vita ordinaria.



Cllicca qui per accedere all’intero articolo in formato PDF

Valeria Ascheri
(Dottore di ricerca in Filosofia della Scienza; Ricercatore di Filosofia della Natura e delle Scienze per i progetti DISF e STOQ III presso la Pontificia Università della Santa Croce a Roma)

Note

  1. Nell’enciclica Veritatis Splendor (n. 34, 1993) si legge «Non si dà morale senza libertà, se esiste il diritto di essere rispettosi nel proprio cammino di ricerca della verità, esiste ancora prima l’obbligo morale grave per ciascuno di cercare la verità e di aderirvi una volta riconosciuta.»

© Pubblicato sul n° 29 di Emmeciquadro


Leggi anche

SCIENZA & STORIA/ L’eredità di VavilovSCIENZAinDIRETTA/ Il caso Oppenheimer