Nonostante la piena riabilitazione decisa qualche anno fa da Giovanni Paolo II, in una parte non indifferente del mondo cattolico continua a sussistere un tenace pregiudizio contro Galileo, visto spesso non come il fondatore di una nuova e importantissima forma di conoscenza, la scienza sperimentale, le cui profonde radici cristiane sono ormai state dimostrate in modo indiscutibile da studiosi del calibro di Pierre Duhem, Étienne Gilson, Stanley Jaki e Peter Hodgson, ma piuttosto di quella autentica perversione della vera scienza che è lo scientismo. L’autore, filosofo della scienza, interviene per chiarire le profonde differenze concettuali, anzi la vera e propria opposizione esistente tra Galileo, protagonista di una rivoluzionaria operazione di «allargamento della ragione», e i responsabili della degenerazione scientista, primo fra tutti Cartesio.
Le immagini che corredano questo articolo sono tratte da Descrizione della tribuna innalzata da Sua Altezza Imperiale il Granduca Leopoldo II di Toscana alla memoria di Galileo, Firenze 1841, in www.fondazionegalileogalilei.it.
Nel 1992 Papa Giovanni Paolo II chiudeva definitivamente il secolare «caso Galileo» facendo sue le conclusioni della Commissione Pontificia presieduta dal Cardinale Paul Poupard e incaricata della revisione del processo.
Nel discorso conclusivo il Papa non si limitò tuttavia a riabilitare Galileo (cosa ormai scontata), ma fece anche alcune importanti affermazioni, che tuttavia non sono ancora diventate, purtroppo, patrimonio condiviso di tutto il mondo cattolico. Dopo aver ricordato che occorre certamente, per un giudizio equilibrato sulla vicenda, tenere conto delle circostanze storiche e culturali dell’epoca, a causa delle quali obiettivamente «il giudizio pastorale che richiedeva la teoria copernicana era difficile», il Papa proseguì affermando che «la scienza nuova […] obbligava i teologi a interrogarsi sui loro criteri di interpretazione della Scrittura.
La maggior parte non seppe farlo» e ciò «li condusse a trasportare indebitamente nel campo della dottrina della fede una questione di fatto appartenente alla ricerca scientifica», spingendosi fino ad affermare che nella disputa circa la corretta interpretazione delle Scritture, che a sua volta aveva a che fare con il più generale problema del corretto rapporto tra fede e ragione, Galileo si dimostrò «più perspicace dei suoi avversari teologi».(1)
Questo punto venne poi ulteriormente chiarito e ribadito da Giovanni Paolo II in altre occasioni, anche in esplicita risposta a critiche provenienti da alcuni intellettuali cattolici, preoccupati da un eccesso di mea culpa che pareva loro di ravvisare nel processo di «purificazione della memoria» da lui avviato in vista del Giubileo del 2000.
Il Papa spiegò invece con estrema chiarezza che se le circostanze storiche, sociali e culturali possono diminuire e, al limite, perfino annullare la responsabilità soggettiva di chi, influenzato da esse, commette in buona fede un errore, ciò non può spingersi fino al punto di assolvere tali comportamenti anche dal punto di vista oggettivo, perché in tal caso si cadrebbe in una forma di storicismo, e quindi, in ultima analisi, di relativismo: in tale prospettiva infatti non esisterebbero verità assolute, che valgono in ogni tempo e in ogni luogo, ma la verità sarebbe sempre e solo relativa alle circostanze storiche.
Le prime esperienze di Galileo sulla discesa dei gravi lungo i piani inclinati fatte a Pisa con la presenza di Don Giovanni dei Medici (incisione di Paolo Lasinio tratta dall’affresco di Giuseppe Bazzuoli)
Nonostante la chiarissima presa di posizione del Papa, tuttavia, in una parte non indifferente del mondo cattolico continua a sussistere un tenace pregiudizio contro Galileo, visto spesso non come il fondatore di una nuova e importantissima forma di conoscenza, la scienza sperimentale, ma piuttosto di quella autentica perversione della vera scienza che è lo scientismo.
È importante quindi anzitutto ribadire che, dopo il discorso di Giovanni Paolo II, non esiste più, per un cattolico, nessuna possibilità di appoggiarsi all’autorità della Chiesa per giustificare tale opinione negativa circa l’operato di Galileo.
Fatta questa indispensabile premessa, vorrei nel seguito cercare di chiarire i punti essenziali del pensiero galileiano e, in particolare, la sua concezione della ragione, in termini esclusivamente filosofici, mostrando come egli non abbia nulla a che fare con l’ideologia scientista, di cui sono invece responsabili altri autori, che pur richiamandosi spesso a Galileo, non hanno in realtà niente da spartire con lui.
La ragione secondo Galileo
Sarà utile partire da quello che è l’elemento essenziale comune alle diverse accuse che vengono in genere rivolte a Galileo, e cioè di avere ridotto il mondo a un sistema meccanico e la ragione al suo solo aspetto «calcolante».
In realtà questa critica si basa sul totale fraintendimento del punto centrale del metodo galileiano, la vera chiave di volta della sua rivoluzione, che non è né la matematizzazione della realtà, né tantomeno il rifiuto del principio di autorità, e neppure, in un certo senso, il metodo sperimentale in quanto tale, ma l’auto-limitazione della scienza naturale alla «apprensione di alcune affezioni»(2), come da lui affermato nel celeberrimo passo delle Macchie solari.
Infatti è stata proprio tale auto-limitazione a consentire a Galileo di ribaltare completamente il metodo della scienza naturale, che fin dai tempi dell’antica Grecia era stato esclusivamente deduttivo, essendo stato modellato su quello della logica, della matematica e della filosofia, che cercavano anzitutto di individuare i principi primi e più generali della realtà, o perlomeno dell’ambito di realtà che intendevano studiare, per poi dedurre da essi tutte le proprietà particolari.
È per questo che i Greci, pur arrivandoci più vicino di chiunque altro, non giunsero comunque a sviluppare una vera scienza naturale, perché non riuscirono a formulare l’idea di esperimento nel senso galileiano del termine, che non è la semplice «osservazione» (di questa essi furono maestri, a cominciare da Aristotele), ma consiste in un’osservazione condotta in condizioni fortemente artificiali, predisposte ad arte per mettere in evidenza proprio e solo le «affezioni» che si intendono studiare. Ma per arrivare a concepire questa idea era necessario essere profondamente convinti di due cose: che il mondo non è necessario, ma contingente, vale a dire che è fatto così, ma avrebbe anche potuto essere fatto in un altro modo; e che ciononostante il mondo è intelligibile (è un cosmos, non un caos), cioè è fatto in modo tale che la nostra ragione, se usata in modo corretto, può comprenderlo.
[A sinistra: Galileo cieco che detta le sue ultime dimostrazioni e scoperte meccaniche ai suoi diletti discepoli Torricelli e Viviani (incisione di Paolo Lasinio tratta dall’affresco di Luigi Sabatelli)]
I Greci furono sempre legati invincibilmente all’idea della necessità del cosmo, forse ancor più a livello estetico e psicologico (si pensi alla loro ossessione per la forma ben definita e conclusa, e al loro simmetrico orrore per l’infinito, visto essenzialmente come indefinito e perciò imperfetto) che neanche a livello filosofico e concettuale.
È solo con l’idea cristiana di creazione come atto libero ma non arbitrario, in quanto compiuto da un Dio la cui libertà fa tutt’uno con la sua ragione, che queste idee si affermano contemporaneamente, mettendo progressivamente(3) in crisi la visione cosmologica greca, e in particolare aristotelica, finché finalmente Galileo ebbe l’idea giusta e comprese che se il mondo è stato fatto così com’è da Dio, allora l’unica strada possibile per conoscerlo è di alzarsi e andare a chiedere a Lui, anziché starsene chiusi nella propria stanza a riflettere.
E infatti nella visione galileiana l’esperimento è proprio concepito come una domanda posta al Creatore, per il tramite(4) della natura da Lui creata, che costituisce il «secondo libro», dopo la Bibbia, attraverso cui Egli ci parla. E sempre qui si radica anche il rifiuto galileiano del principio di autorità nella scienza, che non nasce affatto da un atteggiamento anarchico, ma proprio dal suo contrario: Galileo afferma infatti ripetutamente che ciò che egli rifiuta (nella scienza naturale) è l’autorità umana, e che la rifiuta proprio perché attraverso l’esperimento, che per essere valido deve avere la caratteristica di essere ripetibile da chiunque, in ogni tempo e in ogni luogo, tutti possono sottomettersi direttamente all’autorità di Dio stesso.
Tutte queste cose sono da lui affermate così chiaramente e con tale frequenza che il solo modo di non accettarne tutte le implicazioni è metterne in dubbio la sincerità, come in effetti ha tentato di fare una certa storiografia laicista, più attenta alle ragioni della propaganda che a quelle dell’obiettività. Ma non esiste un solo appiglio per tale interpretazione, salvo quello dato dallo specioso sillogismo per cui, se Galileo è stato condannato dalla Chiesa cattolica, allora doveva necessariamente essere un suo nemico e quindi non poteva essere un vero cattolico.
Al contrario, tutti i suoi scritti, non solo quelli pubblici, ma anche e soprattutto quelli privati, nonché la sua vita stessa, testimoniano esattamente il contrario: e cioè che egli fu un cattolico certo non irreprensibile dal punto di vista morale (ebbe tra l’altro due figlie fuori dal matrimonio, per non parlare del suo brutto carattere e della sua tendenza ad attaccare gli avversari anche sul piano personale, a volte pure scorrettamente), ma con una fede profonda, sincera e anche consapevolmente vissuta dal punto di vista culturale.
E comunque perfino se, per assurdo, ciò non fosse vero e Galileo fosse stato effettivamente un astutissimo e abilissimo miscredente, resta che i suoi argomenti si sono rivelati oggettivamente validi, e anzi migliori di quelli degli «avversari teologi» di allora, proprio dal punto di vista della auto-comprensione che la Chiesa cattolica ha di se stessa e della propria missione nella storia, tanto che, come detto sopra, hanno alla fine avuto il giusto riconoscimento anche da parte della suprema autorità della Chiesa stessa.
Significato della svolta galileiana
Da quanto detto appare evidente che l’auto-limitazione allo studio delle proprietà quantitative (che vale, come da Galileo stesso esplicitamente e chiarissimamente affermato, solo «nel caso delle sustanze naturali»(5)) è esattamente il contrario del riduzionismo.
Essa infatti non significa affatto che al di fuori delle proprietà matematizzabili non esista nulla, bensì che altri aspetti della realtà, non matematizzabili, esistono, o almeno possono esistere (Galileo peraltro, come abbiamo appena finito di dire, personalmente credeva fermamente che esistessero), proprio perché la scienza sperimentale non può e non deve dire nulla a proposito di ciò che non è in grado di sottoporre a verifica sperimentale. Men che meno ciò può esser visto come una forma di fenomenismo o, peggio, di scetticismo, come pure spesso si sostiene.
Per questo ci si basa in genere su quel divieto di «tentar l’essenza»(6) contenuto nel passo già citato delle Macchie solari.
Ma dopo quanto si è detto sopra dovrebbe esser chiaro il senso in cui esso va inteso: si tratta infatti di una prescrizione metodologica, per cui l’essenza (che significa semplicemente «ciò che una cosa è in se stessa») non sta più all’inizio del processo della conoscenza, ma al suo termine (termine che, nella sua pienezza, potrebbe anche non essere mai raggiunto, ma solo avvicinato asintoticamente), in quanto essa non può venir dedotta da alcun «primo principio» né essere evidente di per se stessa (data la contingenza del mondo), ma può solo essere, per così dire, «ricostruita pezzo per pezzo» attraverso il metodo sperimentale, in un processo ascendente,(7) dal basso verso l’alto, anziché, come si pensava prima, per via deduttiva, dall’alto verso il basso.
Tuttavia tale faticoso processo di ricostruzione è realmente un processo di conoscenza dell’essenza delle cose, benché tale conoscenza resti imperfetta e sempre in progress.
Solo se si intende l’essenza alla maniera kantiana, come una misteriosa «cosa in sé» che sta al di là di tutte le proprietà conoscibili, si può sostenere che il metodo galileiano (come peraltro, in questa prospettiva, qualsiasi metodo) non porta a una conoscenza vera delle cose.
Ma attribuire una tale concezione a Galileo sarebbe non solo del tutto anacronistico, ma costituirebbe una vera e propria forzatura della realtà, dato che non solo egli ripete continuamente l’esatto contrario,(8) ma addirittura il processo stesso venne causato proprio dalla sua (giusta) ostinazione a voler parlare di come stanno realmente le cose e non solo ex suppositione, come consigliatogli da Bellarmino, il che sarebbe bastato per evitargli qualsiasi tipo di problema. Proprio uno strano tipo di scettico, questo, che non ha esitato a mettere a rischio la propria libertà e perfino la propria vita per non rinunciare a parlare della verità delle cose.
La lezione galileiana, dunque, costituisce non solo l’atto di nascita di una nuova (e formidabile) forma di conoscenza della realtà materiale, ma anche la più precisa e chiara indicazione del suo ambito di validità e, quindi, anche dei suoi limiti e del suo ambito di non validità, quello delle cose dello spirito, nel quale, essendo diverso l’oggetto, dovrà essere diverso anche il metodo.
Essa non ha dunque solo permesso l’acquisizione di un’enorme quantità di nuove conoscenze, ma anche una nuova consapevolezza delle possibilità della ragione umana, dei suoi limiti, delle sue articolazioni e dei suoi rapporti con la fede, in particolare con la fede cristiana.
In quanto tale, costituisce uno dei più spettacolari esempi di «allargamento della ragione» (per usare un’espressione dell’attuale Pontefice Benedetto XVI, introdotta per la prima volta nel famoso discorso di Regensburg del 12 settembre 2006) che mai si siano visti nella storia dell’umanità.
Le origini dello scientismo
Chi sono stati, invece, i veri responsabili di quella deriva (presente fin dall’inizio, ma che oggi sta assumendo proporzioni inquietanti) che va dalla vera scienza in direzione dello scientismo, cioè di una scienza ideologizzata e indebitamente assolutizzata, dimenticando la sua originaria auto-limitazione e il suo essere per natura vincolata alle sole affezioni quantitative?
La risposta è semplice: furono uomini che avevano un’idea di ragione ristretta, che, pur richiamandosi spesso a lui, in realtà fraintesero del tutto la novità portata da Galileo, e il cui capostipite fu indiscutibilmente Cartesio.
Una delle più clamorose mistificazioni di tutta la storia del pensiero è senza dubbio quella che pretende di fare di Cartesio un grande scienziato, anzi, addirittura un co-iniziatore della scienza moderna al pari di Galileo, peraltro senza mai dare una chiara giustificazione di tale pretesa. Ma questo non è certo casuale: tale giustificazione, infatti, non può in alcun modo essere fornita.
La verità è infatti che Cartesio non solo non ha mai scoperto alcunché di rilevante nell’ambito della scienza naturale, pur desiderandolo ardentemente,(9) ma è a tutti gli effetti un autore pre-galileiano, avendo completamente frainteso il metodo introdotto da Galileo, come risulta inequivocabilmente da numerosi passi dei suoi scritti.
Per esempio, in una lettera all’amico Mersenne egli citava con disapprovazione il fatto che «Galileo cerca le ragioni di alcuni effetti particolari e non considera le prime cause della natura». In un’altra, questa volta indirizzata al traduttore dei suoi Principi di filosofia, affermava: «Sono persuaso che tutta la filosofia sia come un albero, le cui radici sono la metafisica, il tronco è la fisica e i rami che procedono dal tronco sono tutte le altre scienze». E ancor più esplicitamente, negli stessi Principi: «Da questa immutabilità di Dio si possono dedurre alcune leggi della natura».
Ora, queste affermazioni rappresentano la negazione formale e frontale del metodo galileiano, e dunque un ritorno (o, per meglio dire, una fedeltà, dato che Cartesio non ne uscì mai) alla concezione deduttivistica e aprioristica (e perciò, appunto, pre-galileiana) della scienza naturale.
Ciò venne confermato anche dalla sua celebre «fisica dei vortici» che molti autori si ostinano a considerare «molto moderna, anche se sbagliata».
In verità non era soltanto sbagliata, ma autocontraddittoria, il che è assai più grave, ma comunque l’aspetto più rilevante è che essa era costruita completamente a priori, deducendo le leggi fisiche da alcuni «principi primi» concepiti a tavolino secondo il celebre metodo cartesiano delle «idee chiare e distinte» e senza la benché minima verifica sperimentale.
Di moderno quindi la fisica dei vortici non aveva assolutamente nulla, e in effetti gli stessi autori che lo affermano finiscono invariabilmente per identificare tale presunta modernità esclusivamente nel suo carattere meccanicista. Almeno in questo Cartesio fu effettivamente moderno, a patto però che non si identifichi «moderno» con «galileiano».
In primo luogo infatti quello di Cartesio non era un semplice modello, buono per studiare «alcune affezioni» della realtà, ma una metafisica meccanicista, cosa che Galileo si guardò bene dallo sviluppare, essendo in contrasto con i suoi principi metodologici (oltre che estranea ai suoi interessi).
Inoltre, anche all’interno della stessa scienza fisica egli sviluppò soprattutto la meccanica, ma anche (e molto) l’astronomia, cercò di misurare la velocità della luce, si interrogò sulla natura dell’infinito. Insomma, nulla lascia pensare che Galileo abbia mai avuto una particolare predilezione per il meccanicismo. È pur vero che vi sono alcuni passi (non più di due o tre nell’ambito della sua vastissima produzione) che potrebbero essere interpretati in tal senso, ma non ha molto significato mettersi ad arzigogolare su quelli che restano semplici accenni, dato che è impossibile prevedere come egli avrebbe sviluppato l’argomento se vi si fosse applicato in maniera sistematica.
I Discepoli di Galileo e l’esperienze all’Accademia del Cimento con Leopoldo dei Medici (incisione di Paolo Lasinio tratta dall’affresco di Gaspero Martellini)
In ogni caso non sta qui il punto. Se infatti su Galileo non possiamo dir niente di conclusivo a questo proposito, è indubbio che vi furono dopo di lui moltissimi scienziati che furono meccanicisti convinti per quanto riguardava l’ambito fisico senza che questo impedisse loro di credere anche nell’esistenza di altri ambiti della realtà non riducibili a esso e non indagabili dalla scienza; così come vi furono e vi sono, soprattutto oggi (si pensi a certi fisici quantistici o a certi teorici della «emergenza»), altri scienziati che pur essendo anti-meccanicisti dichiarati sono totalmente chiusi a qualsiasi ambito che pretenda di trascendere quello scientifico.
Non è dunque il meccanicismo in se stesso il fattore discriminante, ma piuttosto l’idea di ragione propria dei diversi autori.
Se infatti uno concepisce la ragione come misura della realtà, per quanto ricca e sofisticata sia la teoria che egli si è costruito, finirà comunque inevitabilmente per negare l’esistenza di tutto ciò che esce dal suo ambito. Se invece uno concepisce la ragione come apertura inesauribile a una realtà più grande e imprevedibile, anche se ha una visione del mondo ristretta e inadeguata, come è certamente quella meccanicista, quando si imbatterà in qualcosa che esce dal suo ambito si accorgerà della contraddizione e cercherà di migliorare la sua teoria per adeguarla alla nuova realtà che ha scoperto.
E questo è proprio ciò che è realmente stato fatto, se non direttamente da Galileo, perlomeno a opera della scienza sperimentale da lui forgiata, che ha saputo prendere il buono che c’era nel modello meccanicista per indagare quegli ambiti della realtà fisica che potevano essere interpretati adeguatamente in base a esso, ma ha successivamente saputo correggerlo e, almeno in parte, abbandonarlo quando ne sono emersi i limiti.(10)
Al contrario, questo è purtroppo ciò che non hanno fatto i filosofi moderni (e in particolare i filosofi della scienza), cresciuti quasi tutti alla scuola di Cartesio anche quando dicono di richiamarsi a Galileo, i quali, a parte poche lodevoli eccezioni, hanno continuato, e purtroppo continuano ancor oggi, a insistere ostinatamente sulle stesse idee anche dopo che queste si sono dimostrate palesemente inadeguate.
Cartesio infatti, benché personalmente credesse nell’esistenza di Dio e dell’anima umana, concepiva la ragione come totalmente chiusa su se stessa, in una pretesa di autosufficienza da tutto e da tutti e in particolare dalla conoscenza sensibile, plasticamente rappresentata dalla stanza di accampamento chiusa nella morsa dei ghiacci in cui egli, in totale solitudine e con l’unica compagnia di una stufa da campo, concepì la sua opera fondamentale, il Discorso sul metodo, durante un tetro inverno di guerra del 1637.
L’aspetto claustrofobico e tendenzialmente solipsistico di tale atteggiamento(11) salta ancor più agli occhi se lo si mette a confronto non solo con i Dialoghi di Platone, che narrano la prima nascita della filosofia nelle piazze e nei conviti, e perfino nei bordelli, dell’Atene di Pericle, ma anche col celeberrimo passo del «Rinserratevi…» galileiano, con tutta la sua ricchezza non solo concettuale, ma anche visiva e cromatica, poetica e musicale.
È veramente un altro mondo. E infatti… Laddove Galileo ci invita a sottomettere sempre la nostra ragione all’esperienza, Cartesio afferma invece che dobbiamo fidarci solo delle nostre idee «chiare e distinte»; laddove Galileo ci dice che dobbiamo domandare umilmente a Dio e al mondo da lui creato, Cartesio pretende che la nostra ragione sia in grado, con le sue sole forze, addirittura di fondare l’esistenza di Dio e del mondo; laddove Galileo ci ammonisce che la strada per la conoscenza della realtà fisica è lunga, difficile e sempre incompleta, Cartesio ha la presunzione di poter arrivare a conoscere l’essenza ultima della materia (identificata con la pura estensione geometrica); laddove Galileo è attento a definire diversi metodi di conoscenza a seconda dei diversi aspetti della realtà che si vuol conoscere, Cartesio distingue solo i secondi, ma confonde i primi, pretendendo di modellare il metodo della filosofia su quello della scienza, a dispetto del loro diverso oggetto; e, soprattutto, laddove Galileo parte dalla fiduciosa certezza nella razionalità e nella bellezza del mondo creato da Dio, Cartesio parte invece da una professione di dubbio universale, che non diventa meno radicale e devastante(12) per il fatto di essere chiamato metodologico, pretendendo in ultima analisi, di far scaturire la verità dalla menzogna, la certezza dallo scetticismo e insomma, in una parola, il bene dal male.
Il vero dramma del nostro tempo è che, incomprensibilmente, da alcuni decenni a questa parte anche gli scienziati hanno iniziato ad abbandonare (probabilmente senza neanche rendersene conto) l’autentico concetto galileiano di ragione per aderire a quello della tradizione cartesiana: si pensi solo a come ormai moltissimi ripetano, senza neanche più riflettere, che la scienza si fonda sul dubbio, concetto cartesiano per eccellenza, quanto del tutto estraneo a Galileo.
Tuttavia, di fronte a questa che sta assumendo i caratteri di una vera e propria apostasia di massa degli scienziati da se stessi e dalla propria tradizione, sarebbe del tutto fuori luogo prendersela con la scienza in se stessa e con il suo fondatore.
Al contrario, chiunque abbia a cuore le sorti della nostra civiltà deve battersi per promuovere un nuovo allargamento della ragione, contro Cartesio e contro l’impostura dello scientismo, a fianco di Galileo e in nome della vera scienza da lui fondata.
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Paolo Musso
(Filosofia della Scienza – Università dell’Insubria – Varese)
Le immagini che corredano questo articolo sono tratte da Descrizione della tribuna innalzata da Sua Altezza Imperiale il Granduca Leopoldo II di Toscana alla memoria di Galileo, Firenze 1841, in www.fondazionegalileogalilei.it.
Note
- Cfr.: Giovanni Paolo II, Discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze del 31 ottobre 1991, in M.E. Bergamaschini, M. Gargantini, G. Mangiarotti, L. Mazzoni, F. Tornaghi (a cura di), Galileo Galilei tra realtà e mito. Itinerario antologico, Itaca, Castel Bolognese (RA) 2000, pp. 145-153
- Cfr.: Galileo Galilei, Edizione Nazionale delle Opere di Galileo Galilei, 20 voll., Giunti Barbera, Firenze 1890-1909
- Come ogni vero innovatore, Galileo non nasce dal nulla, ma all’interno di un movimento che si sviluppa progressivamente all’interno di un popolo. Si veda S. Jaki, La strada della scienza e le vie verso Dio, Jaca Book, Milano 1981
- Che è soltanto un tramite, e non Dio stesso: Galileo sarebbe inorridito (o forse, e più probabilmente, dato il carattere si sarebbe messo a ridere) davanti al Deus sive natura di Spinoza
- Cfr.: Galileo, cit., vol. V, pp. 187-188
- Cfr. Galileo, cit., vol. V, p. 187
- Preferisco evitare di parlare di «processo induttivo» perché questa parola è stata usata e abusata in talmente tanti modi, spesso incompatibili tra loro, che rischia di confondere, più che chiarire, ciò che voglio dire
- Valga per tutti questo passo del Dialogo sopra i due massimi sistemi: «SALVIATI – Voi errate, sig. Simplicio; voi dovevi dire che ciaschedun sa ch’ella si chiama gravità. Ma io non vi domando del nome, ma dell’essenza delle cose» (Galileo, cit., vol. VII, p. 260)
- Cartesio diede un fondamentale contributo indiretto alla scienza con la creazione della geometria analitica, che però in sé è una scoperta matematica. Talora si cerca di attribuirgli la scoperta o perlomeno la formulazione precisa del principio di inerzia. Anche questa è pura leggenda. Se non basta al proposito l’opinione di Einstein, per il quale la teoria della relatività nasce come generalizzazione della relatività galileiana (che proprio sul principio d’inerzia è basata), si legga il passo del Dialogo sopra i due massimi sistemi con l’elegantissima dimostrazione di Galileo basata sull’esperimento mentale delle due superfici (Galileo, cit., vol. VII, pp. 171-174)
- Per esempio, la meccanica quantistica, a dispetto del nome, non è una teoria meccanicista, così come non lo è la relatività
- Che è innanzitutto esistenziale, prima ancora che teorico, in quanto nasce da una posizione originaria che si assume di fronte alla realtà
- Una delle poche cose su cui quasi tutti i filosofi sono d’accordo, anche se per ragioni diverse e magari opposte, è che il tentativo cartesiano di dimostrare l’esistenza del mondo sulla base del Cogito dopo averne “dubitato metodologicamente” all’inizio, non funziona.
© Pubblicato sul n° 29 di Emmeciquadro